lunedì 9 aprile 2018

EVERYTHING IS RECORDED


EVERYTHING IS RECORDED (2018) Everything Is Recorded by Richard Russell

Ricordate quando i nostri genitori, che si commuovevano ai vibrati di Nilla Pizza e Claudio Villa, ci consideravano dei barbari di fronte alla nostra esaltazione per gli assoli di Ritchie Blackmore e le urla allucinate di Ummagumma? Che ci piaccia o no, il nuovo millennio ha comportato una simile contrapposizione tra la nostra musica e quella dei nostri figli. Nella sua chiusura di fine anno Luca ha recitato il de profundis per la musica rock, in realtà archiviata a genere storico con stilemi ed organizzazione musicale ben precisi, pur nei suoi proteiformi sottogeneri. Se la figura della rockstar è stata sostituita dal produttore/DJ, la chitarra elettrica dal programming, le linee melodiche dai samples, la tecnica strumentale dall’ingegnere del suono… beh… che disco dobbiamo ascoltare noi neòfiti del suono dei millennials per capire che aria tira? Ecco qui pronto all’uso un bignamino che fotografa perfettamente il modo attuale di fare musica (commerciale ma di qualità: diciamo ben distinta dall’easy listening alla Lady Gaga, Shaquira & Co, ma anche dai generi jazz, blues, folk, pop-rock e dintorni). E’ sufficiente che un megaproduttore come Richard Russell, patron e artefice dei suoni (si badi bene: ora si parla di suoni, non di canzoni) della più importante etichetta indipendente mondiale, la XL, ed architetto degli arrangiamenti di molte stars più o meno alternative (The Prodigy, M.I.A., Ibeyi, Damon Albarn, Jamie XX, il ritorno di Gil Scott-Heron e Bobby Womack tra gli altri) decida di pubblicare un disco a proprio nome: i suoni si recuperano negli archivi (on line ma anche mentali, quindi occorre certamente sensibilità melodica) e nel gusto del momento (hype o paraculaggine, si scelga il sostantivo più appropriato), ed i musicisti necessari (soprattutto i vocalists) vengono pagati a comparsata (o ripagano precedenti favori). Tra questi ultimi Russell assolda le Ibeyi, Sampha, Kamasi Washington, Giggs, perfino Peter Gabriel (al piano). Il risultato è classificabile come indie electronic, o alternative R&B, o new nu-soul, ma le carte in tavola non cambiano: per chi come me è cresciuto musicalmente tra i ’60 e l’inizio degli ’80, si tratta di suoni levigatissimi, ritmati anche quando morbidi, costruiti senza un difetto, esaltati da uno stereo professionale, che stimolano ammirazione più che coinvolgimento, ed in tal senso adatti ad un ascolto cerebralmente approfondito o, all’opposto, ad un sottofondo musicale distratto ma sinuoso e moderno, che nell’attitudine ricorda la new age più deteriore (chi ha detto Montecarlo Nights?) ad uso e consumo degli yuppies negli anni ’80, per sostenere un aperitivo pre-cucco. Piacerà moltissimo a chi apprezza l’hip-hop più leggero e la musica black à la page (tutto quello che passa tra Beyoncè, Kelela, Kendrick Lamar, Kelis, Solange, Frank Ocean, Dizzee Rascal, Janelle Monàe…). Si tratterà invece di puro studio e curiosità soddisfatta sulla musica dei millennials per chi è cresciuto a pane e trio chitarra-basso-batteria: se si giudicherà col cervello sarà riconosciuto e forse ammirato il marchio dei tempi; se prevarrà il cuore, si farà fatica ad arrivare alla fine del disco. Provare per credere. PS: umilmente ed intelligentemente l’autore ha dato il titolo appropriato all’album, a suggello di questo modo di fare musica.
Voto Microby: 7.2

Preferite: Mountains of Gold, Show Love, Cane

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