EVERYTHING IS RECORDED (2018) Everything Is
Recorded by Richard Russell
Ricordate quando i nostri genitori, che si commuovevano ai vibrati di
Nilla Pizza e Claudio Villa, ci consideravano dei barbari di fronte
alla nostra esaltazione per gli assoli di Ritchie Blackmore e le urla
allucinate di Ummagumma? Che ci piaccia o no, il nuovo
millennio ha comportato una simile contrapposizione tra la nostra
musica e quella dei nostri figli. Nella sua chiusura di fine anno
Luca ha recitato il de profundis per la musica rock, in realtà
archiviata a genere storico con stilemi ed organizzazione musicale
ben precisi, pur nei suoi proteiformi sottogeneri. Se la figura della
rockstar è stata sostituita dal produttore/DJ, la chitarra elettrica
dal programming, le linee melodiche dai samples, la tecnica
strumentale dall’ingegnere del suono… beh… che disco dobbiamo
ascoltare noi neòfiti del suono dei millennials per capire
che aria tira? Ecco qui pronto all’uso un bignamino che fotografa
perfettamente il modo attuale di fare musica (commerciale ma di
qualità: diciamo ben distinta dall’easy listening alla Lady Gaga,
Shaquira & Co, ma anche dai generi jazz, blues, folk, pop-rock e
dintorni). E’ sufficiente che un megaproduttore come Richard
Russell, patron e artefice dei suoni (si badi bene: ora si parla di
suoni, non di canzoni) della più importante etichetta indipendente
mondiale, la XL, ed architetto degli arrangiamenti di molte stars più
o meno alternative (The Prodigy, M.I.A., Ibeyi, Damon Albarn, Jamie
XX, il ritorno di Gil Scott-Heron e Bobby Womack tra gli altri)
decida di pubblicare un disco a proprio nome: i suoni si recuperano
negli archivi (on line ma anche mentali, quindi occorre certamente
sensibilità melodica) e nel gusto del momento (hype o paraculaggine,
si scelga il sostantivo più appropriato), ed i musicisti necessari
(soprattutto i vocalists) vengono pagati a comparsata (o ripagano
precedenti favori). Tra questi ultimi Russell assolda le Ibeyi,
Sampha, Kamasi Washington, Giggs, perfino Peter Gabriel (al piano).
Il risultato è classificabile come indie electronic, o
alternative R&B, o new nu-soul, ma le
carte in tavola non cambiano: per chi come me è cresciuto
musicalmente tra i ’60 e l’inizio degli ’80, si tratta di suoni
levigatissimi, ritmati anche quando morbidi, costruiti senza un
difetto, esaltati da uno stereo professionale, che stimolano
ammirazione più che coinvolgimento, ed in tal senso adatti ad un
ascolto cerebralmente approfondito o, all’opposto, ad un sottofondo
musicale distratto ma sinuoso e moderno, che nell’attitudine
ricorda la new age più deteriore (chi ha detto Montecarlo Nights?)
ad uso e consumo degli yuppies negli anni ’80, per sostenere un
aperitivo pre-cucco. Piacerà moltissimo a chi apprezza l’hip-hop
più leggero e la musica black à la page (tutto quello che passa tra
Beyoncè, Kelela, Kendrick Lamar, Kelis, Solange, Frank Ocean, Dizzee
Rascal, Janelle Monàe…). Si tratterà invece di puro studio e
curiosità soddisfatta sulla musica dei millennials per chi è
cresciuto a pane e trio chitarra-basso-batteria: se si giudicherà
col cervello sarà riconosciuto e forse ammirato il marchio dei
tempi; se prevarrà il cuore, si farà fatica ad arrivare alla fine
del disco. Provare per credere. PS: umilmente ed intelligentemente
l’autore ha dato il titolo appropriato all’album, a suggello di
questo modo di fare musica.
Voto Microby: 7.2
Preferite: Mountains
of Gold, Show Love, Cane
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