lunedì 31 dicembre 2018

TOM ODELL


TOM ODELL (2018) Jubilee Road
Un eccellente debutto nel 2013 a soli 22 anni rovinosamente compromesso da un sophomore album dozzinale (ma ben accolto da critica e mercato USA) facevano temere l’ennesima meteora. Invece il terzo lavoro del ventottenne inglese col DNA ricco di soul e le orecchie impreziosite dalla lezione di Coldplay, Leonard Cohen, Jeff Buckley ed Elton John non delude chi lo attendeva al varco con critica curiosità. Un passo di lato, anziché indietro, che avendo perso l’innocenza (ma anche l’ingenuità) degli esordi non lo allontana dal mainstream pur conservando l’ispirazione ed il grande senso melodico del primo album, e tra i maestri lo posiziona a metà strada tra l’Elton John di "Goodbye Yellow Brick Road" e l’appeal radiofonico soft-rock di Bruce Hornsby, tra il pianismo sincopato del primo e quello brillante del secondo. Pochi altri strumenti (oltre alla sezione ritmica, occasionali spunti di chitarra e fiati con funzione di sostegno e di sax con ruolo da solista) completano un suono nel complesso ricco ed a tratti, quando i cori si fanno pregnanti come da lezione gospel-soul, perfino enfatico. Non mancano quindi né testa, né anima né cuore ad un artista che temevamo seguisse il sentiero da "pop for the masses" di qualità come James Blunt, o che sposasse la causa dell’alternative R&B, molto cara al mercato americano. Avremmo perso un artista innamorato del pop-soul dei seventies in grado di ammaliare con la formula di allora i 50-60enni di oggi ma anche di far breccia nel cuore degli adolescenti non hip-hop dipendenti.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Queen od Diamonds, If You Wanna Love Somebody, Jubilee Road

WEST FARGO


WEST FARGO (2018) Cose preziose

A due anni dal bell’esordio “Strade” (2016), in scia geografica e stilistica ai Timoria dei ’90, col difetto di essere fuori tempo massimo per essere apprezzato secondo il merito, la band camuna pubblica il secondo album dopo un rimpasto dei musicisti. Sostituiti infatti i già bravi Andrea Lo Furno (chitarra elettrica) e Luca Finazzi (batteria), il tasso tecnico acquista ulteriore solidità nel ritmo (Matteo Zelaschi) e qualità con la solista di Roberto Roncalli, ma anche maggior coesione e brillantezza con l’innesto delle tastiere di Pierluigi Capretti. Soprattutto gli ultimi due nuovi membri dell’attuale quintetto danno una forma più classic-rock (segnatamente seventies) ad uno scheletro che al debutto guardava più al rock chitarristico post-new wave dei ’90. La chitarra elettrica aumenta sensibilmente il tiro rock (a tratti d’impronta hard rock), mentre le tastiere vintage ammorbidiscono la trama con un tocco seventies che richiama il prog: ironia della sorte, il metaforico concept di “Strade” non aveva nulla di progressive, mentre il non-concept di “Cose preziose” ha più di un addentellato musicale (nei suoni, più che nella costruzione dei brani) a gruppi hard rock dei ’70 con influenze prog, come gli americani Kansas e Rush o, in patria, il comasco Biglietto per l’Inferno. Buona la disposizione melodica, d’impatto i riff di chitarra e trascinanti oltre che tecnicamente eccellenti gli assolo di Roncalli, al solito notevole ed emozionante l’estensione vocale di Davide Balzarini (che ha migliorato anche la qualità dei testi), ed da applausi l’artwork (di Nick Neim, al secolo Nicola Fedriga) ed il packaging in cartoncino con miniposter e liriche accluse. Poche purtroppo le speranze di fare breccia nel mercato discografico, allineato attualmente con altri generi e stili, nonostante l’utilizzo della lingua italiana (tanto che il gruppo ha in progetto un viraggio all’inglese, più adatto alla ricetta musicale). Dal vivo i nostri sono potenti e coinvolgenti, da non perdere in tale dimensione anche nei progetti collaterali (il bassista Domenico Ducoli è membro anche dei Ducolis, garage/punk’n’roll band di tutti Ducoli, tra i quali anche il musicista irregolare ben noto in valle Alessandro Ducoli, presente come ospite in "Cose preziose" in un brano --Il primo giorno senza te-- assai diverso dal contesto e che meglio sarebbe considerare come bonus track). Ma non trascurino l’ascolto gli appassionati di rock chitarristico italiano che parte dai ’70 ed arriva ai ’90.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Il fuggitivo, Big Sandy Creek, Selene

giovedì 20 dicembre 2018

MUSE


MUSE (2018) Simulation Theory



Diciamolo subito: l’ottavo lavoro in studio del trio britannico è un bel disco. E’ vero che al primo ascolto quella di trovarsi davanti ad una kitcherie è molto più che un’impressione, ed al critico snob-rock quella di gettare il disco tra la paccottiglia risulta molto più che un’intenzione. Alcune caratteristiche nella scelta degli arrangiamenti appaiono in effetti (volutamente?) fuorvianti: la chitarra dobro di “Propaganda” non trasforma il brano in un blues, così come il clangore metallico dell’elettrica in “Break It To Me” non ne fa un manifesto industrial, e lo scratch nel medesimo brano non è un esempio di hip-hop, né la ritmica martellante di tutto l’album si sposa con il dance-floor (semmai si gemella con i Queen di “Radio Ga Ga”); ed è altrettanto sbagliato pensare che Simulation Theory sia un lavoro di progressive-rock solo perché è un concept-album (sulla realtà virtuale, la vita nel tempo dei social media, secondo i musicisti stessi “l’idea che la fantasia possa diventare realtà, che le simulazioni siano ormai parte della nostra vita quotidiana”, concetti in parte ispirati dalla serie TV “Black Mirror”). In realtà il fulcro dell’ultima fatica dei Muse è il synth-pop anni ‘80 creativamente sposato con il glam e l’epica melodrammatica che li contraddistingue, e shakerato con la passione prog (a braccetto con l’inalterata espressività visionaria della band) ed il recente flirt con l’elettronica che ha caratterizzato (in modo meno brillante) gli ultimi album. Il tutto condito con l’attrazione cinematica sci-fi che si può ricondurre alle colonne sonore del maestro John Carpenter e ad un’estetica che richiama sfacciatamente “Tron” e che manderà in sollucchero gli appassionati del genere, risultando invece una pacchianata per gli altri. Dimentichino i fans della prima ora le poderose asprezze chitarristiche e le ardite architetture ritmiche della band. La totale mancanza di ironia suggella un’opera che può apparire greve e che invece è, a mio parere, meritevole di assoluto rispetto perché Matthew Bellamy e sodali hanno dimostrato da sempre sincerità e non calcolo, talento e non solo (abilissimo) mestiere. Molti i singoli potenziali, al solito eccessivi ed insieme romantici, tra i più potenti ed incisivi usciti dalla penna della band del Devon, e ben coesi con un corpus che non è solo di sostegno. Anche per il sottoscritto, non esattamente un estimatore delle note sintetiche degli eighties, un ascolto piacevole e coinvolgente.
Voto Microby: 7.8
Preferite: The Dark Side, Get Up And Fight, Something Human

martedì 11 dicembre 2018

MUMFORD & SONS


MUMFORD & SONS (2018) Delta


Dopo il primo ascolto del quarto album della band londinese è stato forte l’impulso di riporre Marcus Mumford & sodali nell’ampia cartella degli “ex gruppi preferiti”. Ma qualche buona idea in fase di scrittura la si intuiva, e quantomeno non soffocata dagli arrangiamenti innodici e massificati del precedente, deludente “Wilder Mind” (2015). La curiosità ma soprattutto l’affetto e la stima per una band che con i primi due lavori aveva rivitalizzato con sapienza e passione l’incartato folk-rock inglese (che aveva beneficiato dei precedenti aggiornamenti ormai 30 anni addietro, con Moving Hearts prima e The Pogues dopo), in questo prendendosi per mano con gli altrettanto geniali Fleet Foxes, nel solco della tradizione sull’altra sponda dell’oceano, mi hanno convinto a riascoltare il disco, che da buon sleeper ora fatica a staccarsi dal mio lettore. Perché la penna è di ottima qualità, se si eccettua qualche scivolone (su tutti gli insipidi electronic-driven “Darkness Invisible” e “Picture You”, e la melassa di archi del secondo singolo “If I Say”, accompagnata dal non proprio ungarettiano verso “se dico che ti amo, allora ti amo” ribadito una trentina di volte, giusto per chi fosse in astinenza da Gigi D’Alessio) ed una regia che talvolta strizza l’occhio agli ultimi Coldplay ed Ed Sheeran. E soprattutto si apprezza, sebbene di strada da fare ne resti ancora parecchia, un progetto di fusione della musica folk con il pop-rock da arena degli anni ’80 (d’altronde è forse questa la musica pop-olare contemporanea) finora riuscito commercialmente a gruppi qualitativamente minori quali per esempio Of Monsters And Men, The Head And The Heart, The Lumineers. Non è la riuscita crasi tra la grande tradizione del folk anglo-scoto-irlandese col folk-rock americano operata dai Fairport Convention nei ’70, né col rock tout-court dei Moving Hearts e col punk dei Pogues negli ’80, ma a mio parere la strada imboccata è originale sebbene non proprio a fuoco. Non aiutano gli arrangiamenti promossi da Paul Epworth, già produttore di Adele, Paul McCartney, U2 e dei Coldplay nel poco riuscito “Ghost Stories” (2014), guarda caso caratterizzato dalla medesima mancanza di coesione e dalle incertezze formali (mascherate da intimità) di “Delta”. A tratti si ha in effetti la non piacevole sensazione che i Mumfords suonino come i Coldplay che cercano di suonare come gli U2. Omologati. Con la differenza da cercare nelle radici: folk, pop e rock rispettivamente, e nell’ispirazione del momento. Impietosa al riguardo la critica (ma i Mumfords sono da sempre più amati dal pubblico che dai giornalisti), sebbene ampiamente divisa con giudizi che vanno dal capolavoro alla stroncatura: “Delta is their best album yet, spiritual solace wrapped in secular anthems” (The Telegraph, UK: 10/10); “There is a pulse, but it’s soft and turned electronic. There is emotion, but it’s been intentionally encased in a digital cocoon, one that turns Delta into soft, shimmering background music” (AllMusic, USA: 2,5/5); “Delta brings back the banjo and the big choruses, but is doing too much of everything” (Spin, USA: 6/10). Complessivamente Metacritic assegna all’album un deludente 56/100, risultato della media di 14 recensioni. A mio giudizio troppo severe, forse in considerazione delle aspettative nei confronti di un gruppo che ha dimostrato finora di possedere ben più frecce all’arco rispetto alla media. Perchè a mio parere il prodotto finale è assolutamente piacevole all’ascolto, celebra le nozze discretamente riuscite tra il banjo e l’elettronica, come in ogni matrimonio ci fa assistere ad alcune cadute di tono ma anche a spunti ispirati, manca totalmente di sense of humour, nel contempo ribadendo la tendenza all’epica già propria del DNA dei nostri, e che assai verosimilmente si trasformerà in anthemica nelle arene, dimensione ormai acquisita e meritata come dimostrano i sistematici worldwide sold-out dei concerti del quartetto di Londra.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Guiding Light, Woman, Slip Away

giovedì 6 dicembre 2018

THE MEN


THE MEN (2018) Drift

Chi conosce i The Men punk/hardcore degli esordi li dimentichi, così come chi li ha apprezzati nella versione blue collar rock/garage ’60 di Tomorrow’s Hits (2014). Conservi invece la chiosa della recensione di quell’album sul nostro blog: “tutto suona come una calda e riuscita dichiarazione d’amore al rock del passato”. Perché Mark Perro e sodali imbastiscono una sorta di compilation autografa dei disparati generi musicali che evidentemente hanno nelle corde. Così i nove brani in scaletta vestono nell’ordine gli abiti 1. Post-punk/No wave alla Gang of Four/James Chance 2. Pop alla 10CC/Todd Rundgren 3. Krautrock alla Gong 4. Folk-rock acido westcoastiano alla Hot Tuna/Jefferson Airplane 5. Acoustic ballad da Laurel Canyon 6. Proto-punk alla Stooges 7. Raga lisergici alla It’s A Beautiful Day 8. Psych-rock desertico tra Giant Sand e Friends of Dean Martinez 9. Cantautorato alla Tim Buckley. Confusi? La band di Brooklyn non sembra, perché la qualità media dei brani è davvero buona, e se manca la coesione (per nulla inseguita dal gruppo) si acquista in varietà: come le musicassette di autori vari che, tanto tempo fa e distanti dalla logica delle hits, registravamo per gli amici o per ascoltarle in auto. Chi è cresciuto musicalmente tra gli anni ’60 e gli ’80 apprezzerà.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Rose On Top of The World, Secret Light, Killed Someone

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