martedì 11 dicembre 2018

MUMFORD & SONS


MUMFORD & SONS (2018) Delta


Dopo il primo ascolto del quarto album della band londinese è stato forte l’impulso di riporre Marcus Mumford & sodali nell’ampia cartella degli “ex gruppi preferiti”. Ma qualche buona idea in fase di scrittura la si intuiva, e quantomeno non soffocata dagli arrangiamenti innodici e massificati del precedente, deludente “Wilder Mind” (2015). La curiosità ma soprattutto l’affetto e la stima per una band che con i primi due lavori aveva rivitalizzato con sapienza e passione l’incartato folk-rock inglese (che aveva beneficiato dei precedenti aggiornamenti ormai 30 anni addietro, con Moving Hearts prima e The Pogues dopo), in questo prendendosi per mano con gli altrettanto geniali Fleet Foxes, nel solco della tradizione sull’altra sponda dell’oceano, mi hanno convinto a riascoltare il disco, che da buon sleeper ora fatica a staccarsi dal mio lettore. Perché la penna è di ottima qualità, se si eccettua qualche scivolone (su tutti gli insipidi electronic-driven “Darkness Invisible” e “Picture You”, e la melassa di archi del secondo singolo “If I Say”, accompagnata dal non proprio ungarettiano verso “se dico che ti amo, allora ti amo” ribadito una trentina di volte, giusto per chi fosse in astinenza da Gigi D’Alessio) ed una regia che talvolta strizza l’occhio agli ultimi Coldplay ed Ed Sheeran. E soprattutto si apprezza, sebbene di strada da fare ne resti ancora parecchia, un progetto di fusione della musica folk con il pop-rock da arena degli anni ’80 (d’altronde è forse questa la musica pop-olare contemporanea) finora riuscito commercialmente a gruppi qualitativamente minori quali per esempio Of Monsters And Men, The Head And The Heart, The Lumineers. Non è la riuscita crasi tra la grande tradizione del folk anglo-scoto-irlandese col folk-rock americano operata dai Fairport Convention nei ’70, né col rock tout-court dei Moving Hearts e col punk dei Pogues negli ’80, ma a mio parere la strada imboccata è originale sebbene non proprio a fuoco. Non aiutano gli arrangiamenti promossi da Paul Epworth, già produttore di Adele, Paul McCartney, U2 e dei Coldplay nel poco riuscito “Ghost Stories” (2014), guarda caso caratterizzato dalla medesima mancanza di coesione e dalle incertezze formali (mascherate da intimità) di “Delta”. A tratti si ha in effetti la non piacevole sensazione che i Mumfords suonino come i Coldplay che cercano di suonare come gli U2. Omologati. Con la differenza da cercare nelle radici: folk, pop e rock rispettivamente, e nell’ispirazione del momento. Impietosa al riguardo la critica (ma i Mumfords sono da sempre più amati dal pubblico che dai giornalisti), sebbene ampiamente divisa con giudizi che vanno dal capolavoro alla stroncatura: “Delta is their best album yet, spiritual solace wrapped in secular anthems” (The Telegraph, UK: 10/10); “There is a pulse, but it’s soft and turned electronic. There is emotion, but it’s been intentionally encased in a digital cocoon, one that turns Delta into soft, shimmering background music” (AllMusic, USA: 2,5/5); “Delta brings back the banjo and the big choruses, but is doing too much of everything” (Spin, USA: 6/10). Complessivamente Metacritic assegna all’album un deludente 56/100, risultato della media di 14 recensioni. A mio giudizio troppo severe, forse in considerazione delle aspettative nei confronti di un gruppo che ha dimostrato finora di possedere ben più frecce all’arco rispetto alla media. Perchè a mio parere il prodotto finale è assolutamente piacevole all’ascolto, celebra le nozze discretamente riuscite tra il banjo e l’elettronica, come in ogni matrimonio ci fa assistere ad alcune cadute di tono ma anche a spunti ispirati, manca totalmente di sense of humour, nel contempo ribadendo la tendenza all’epica già propria del DNA dei nostri, e che assai verosimilmente si trasformerà in anthemica nelle arene, dimensione ormai acquisita e meritata come dimostrano i sistematici worldwide sold-out dei concerti del quartetto di Londra.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Guiding Light, Woman, Slip Away

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