MUMFORD
& SONS (2018) Delta
Dopo il primo ascolto del quarto album della band londinese è stato
forte l’impulso di riporre Marcus Mumford & sodali nell’ampia
cartella degli “ex gruppi preferiti”. Ma qualche buona idea in
fase di scrittura la si intuiva, e quantomeno non soffocata dagli
arrangiamenti innodici e massificati del precedente, deludente
“Wilder Mind” (2015). La curiosità ma soprattutto
l’affetto e la stima per una band che con i primi due lavori aveva
rivitalizzato con sapienza e passione l’incartato folk-rock inglese
(che aveva beneficiato dei precedenti aggiornamenti ormai 30 anni
addietro, con Moving Hearts prima e The Pogues dopo), in questo
prendendosi per mano con gli altrettanto geniali Fleet Foxes, nel
solco della tradizione sull’altra sponda dell’oceano, mi hanno
convinto a riascoltare il disco, che da buon sleeper ora
fatica a staccarsi dal mio lettore. Perché la penna è di ottima
qualità, se si eccettua qualche scivolone (su tutti gli insipidi
electronic-driven “Darkness Invisible” e “Picture
You”, e la melassa di archi del secondo singolo “If I
Say”, accompagnata dal non proprio ungarettiano verso “se
dico che ti amo, allora ti amo” ribadito una trentina di volte,
giusto per chi fosse in astinenza da Gigi D’Alessio) ed una regia
che talvolta strizza l’occhio agli ultimi Coldplay ed Ed Sheeran. E
soprattutto si apprezza, sebbene di strada da fare ne resti ancora
parecchia, un progetto di fusione della musica folk con il
pop-rock da arena degli anni ’80 (d’altronde è forse
questa la musica pop-olare contemporanea) finora riuscito
commercialmente a gruppi qualitativamente minori quali per esempio Of
Monsters And Men, The Head And The Heart, The Lumineers. Non è la
riuscita crasi tra la grande tradizione del folk
anglo-scoto-irlandese col folk-rock americano operata dai Fairport
Convention nei ’70, né col rock tout-court dei Moving
Hearts e col punk dei Pogues negli ’80, ma a mio parere la strada
imboccata è originale sebbene non proprio a fuoco. Non aiutano gli
arrangiamenti promossi da Paul Epworth, già produttore di Adele,
Paul McCartney, U2 e dei Coldplay nel poco riuscito “Ghost
Stories” (2014), guarda caso caratterizzato dalla medesima
mancanza di coesione e dalle incertezze formali (mascherate da
intimità) di “Delta”. A tratti si ha in effetti la non
piacevole sensazione che i Mumfords suonino come i Coldplay che
cercano di suonare come gli U2. Omologati. Con la differenza da
cercare nelle radici: folk, pop e rock rispettivamente, e
nell’ispirazione del momento. Impietosa al riguardo la critica (ma
i Mumfords sono da sempre più amati dal pubblico che dai
giornalisti), sebbene ampiamente divisa con giudizi che vanno dal
capolavoro alla stroncatura: “Delta is their best album yet,
spiritual solace wrapped in secular anthems” (The Telegraph, UK:
10/10); “There is a pulse, but it’s soft and turned electronic.
There is emotion, but it’s been intentionally encased in a digital
cocoon, one that turns Delta into soft, shimmering background music”
(AllMusic, USA: 2,5/5); “Delta brings back the banjo and the big
choruses, but is doing too much of everything” (Spin, USA: 6/10).
Complessivamente Metacritic assegna all’album un
deludente 56/100, risultato della media di 14
recensioni. A mio giudizio troppo severe, forse in considerazione
delle aspettative nei confronti di un gruppo che ha dimostrato finora
di possedere ben più frecce all’arco rispetto alla media. Perchè
a mio parere il prodotto finale è assolutamente piacevole
all’ascolto, celebra le nozze discretamente riuscite tra il banjo e
l’elettronica, come in ogni matrimonio ci fa assistere ad alcune
cadute di tono ma anche a spunti ispirati, manca totalmente di sense
of humour, nel contempo ribadendo la tendenza all’epica già
propria del DNA dei nostri, e che assai verosimilmente si trasformerà
in anthemica nelle arene, dimensione ormai acquisita e
meritata come dimostrano i sistematici worldwide sold-out dei
concerti del quartetto di Londra.
Voto
Microby: 7.7
Preferite:
Guiding Light, Woman, Slip Away
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