MUSE (2018)
Simulation Theory
Diciamolo subito:
l’ottavo lavoro in studio del trio britannico è un bel disco. E’
vero che al primo ascolto quella di trovarsi davanti ad una kitcherie
è molto più che un’impressione, ed al critico snob-rock quella di
gettare il disco tra la paccottiglia risulta molto più che
un’intenzione. Alcune caratteristiche nella scelta degli
arrangiamenti appaiono in effetti (volutamente?) fuorvianti: la
chitarra dobro di “Propaganda” non trasforma il brano in un
blues, così come il clangore metallico dell’elettrica in “Break
It To Me” non ne fa un manifesto industrial,
e lo
scratch
nel
medesimo brano
non è un esempio di hip-hop,
né la ritmica martellante di tutto l’album si sposa con il
dance-floor
(semmai si gemella con i Queen di “Radio Ga Ga”); ed è
altrettanto sbagliato
pensare che Simulation
Theory sia
un lavoro di progressive-rock
solo perché è un concept-album (sulla realtà virtuale, la vita nel
tempo dei social media,
secondo i musicisti stessi
“l’idea che la fantasia possa diventare realtà, che le
simulazioni siano ormai parte della nostra vita quotidiana”,
concetti in parte ispirati dalla serie TV “Black Mirror”). In
realtà il fulcro dell’ultima fatica dei Muse è il synth-pop
anni ‘80 creativamente
sposato con il glam
e l’epica melodrammatica
che li contraddistingue, e shakerato
con la passione prog (a
braccetto con l’inalterata espressività visionaria della band)
ed il recente flirt
con l’elettronica che ha caratterizzato (in modo meno brillante)
gli ultimi album. Il tutto condito con l’attrazione cinematica
sci-fi
che si può ricondurre alle colonne sonore del maestro John Carpenter
e ad un’estetica che richiama sfacciatamente “Tron” e che
manderà in sollucchero gli appassionati del genere, risultando
invece una pacchianata per gli altri. Dimentichino
i fans della prima ora le poderose asprezze chitarristiche e le
ardite architetture ritmiche della band. La
totale mancanza di ironia suggella un’opera che può apparire greve
e che invece è, a mio parere, meritevole di assoluto rispetto perché
Matthew Bellamy e sodali hanno dimostrato da sempre sincerità e non
calcolo, talento e non solo (abilissimo) mestiere. Molti i singoli
potenziali, al
solito eccessivi ed insieme romantici,
tra i più potenti ed incisivi usciti dalla penna della
band
del Devon, e ben coesi con un corpus
che non è solo di sostegno. Anche per il sottoscritto, non
esattamente un estimatore delle note sintetiche degli
eighties, un ascolto piacevole e coinvolgente.
Voto
Microby: 7.8Preferite: The Dark Side, Get Up And Fight, Something Human
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