giovedì 20 dicembre 2018

MUSE


MUSE (2018) Simulation Theory



Diciamolo subito: l’ottavo lavoro in studio del trio britannico è un bel disco. E’ vero che al primo ascolto quella di trovarsi davanti ad una kitcherie è molto più che un’impressione, ed al critico snob-rock quella di gettare il disco tra la paccottiglia risulta molto più che un’intenzione. Alcune caratteristiche nella scelta degli arrangiamenti appaiono in effetti (volutamente?) fuorvianti: la chitarra dobro di “Propaganda” non trasforma il brano in un blues, così come il clangore metallico dell’elettrica in “Break It To Me” non ne fa un manifesto industrial, e lo scratch nel medesimo brano non è un esempio di hip-hop, né la ritmica martellante di tutto l’album si sposa con il dance-floor (semmai si gemella con i Queen di “Radio Ga Ga”); ed è altrettanto sbagliato pensare che Simulation Theory sia un lavoro di progressive-rock solo perché è un concept-album (sulla realtà virtuale, la vita nel tempo dei social media, secondo i musicisti stessi “l’idea che la fantasia possa diventare realtà, che le simulazioni siano ormai parte della nostra vita quotidiana”, concetti in parte ispirati dalla serie TV “Black Mirror”). In realtà il fulcro dell’ultima fatica dei Muse è il synth-pop anni ‘80 creativamente sposato con il glam e l’epica melodrammatica che li contraddistingue, e shakerato con la passione prog (a braccetto con l’inalterata espressività visionaria della band) ed il recente flirt con l’elettronica che ha caratterizzato (in modo meno brillante) gli ultimi album. Il tutto condito con l’attrazione cinematica sci-fi che si può ricondurre alle colonne sonore del maestro John Carpenter e ad un’estetica che richiama sfacciatamente “Tron” e che manderà in sollucchero gli appassionati del genere, risultando invece una pacchianata per gli altri. Dimentichino i fans della prima ora le poderose asprezze chitarristiche e le ardite architetture ritmiche della band. La totale mancanza di ironia suggella un’opera che può apparire greve e che invece è, a mio parere, meritevole di assoluto rispetto perché Matthew Bellamy e sodali hanno dimostrato da sempre sincerità e non calcolo, talento e non solo (abilissimo) mestiere. Molti i singoli potenziali, al solito eccessivi ed insieme romantici, tra i più potenti ed incisivi usciti dalla penna della band del Devon, e ben coesi con un corpus che non è solo di sostegno. Anche per il sottoscritto, non esattamente un estimatore delle note sintetiche degli eighties, un ascolto piacevole e coinvolgente.
Voto Microby: 7.8
Preferite: The Dark Side, Get Up And Fight, Something Human

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