Siamo al decimo anno di
carriera per Timothy
Showalter,
unico titolare del progetto Strand of Oaks, ed ogni album ha
migliorato quello precedente. Innamorato dei suoni elettroacustici
degli anni ’70 così come del synth-pop degli ’80, le sue ricette
musicali hanno sempre sposato il classic
rock con
l’indie rock
, ma l’amore per i suoni sintetici degli eighties ha comportato
dismetrie talvolta kitsch negli arrangiamenti, a scapito
dell’omogeneità del tutto. La scrittura tuttavia è sempre stata
di livello più che buono. D’altra parte non è l’equilibrio che
si chiede ad un artista dalla vita personale quantomeno disordinata e
che dichiara come principali influenze musicali Neil Young con i
Crazy Horse, Kate Bush ed i Tangerine Dream (!). Con Eraserland
sembra che l’artista originario dell’Indiana abbia trovato la
corretta proporzione di ingredienti, con canzoni intense di heartland
rock,
prevalentemente chitarristiche ed elettriche, misurati tocchi di
synth umano e non gommoso come in passato, globalmente più vicina
nel risultato finale ai Waterboys
dell’ultimo lustro piuttosto che agli attuali, troppo metronomici
The War On Drugs, cui spesso la produzione musicale di Showalter è
stata accostata. Showalter non rinuncia ad un tocco di eccentricità,
chiudendo il lavoro con un brano tra lo space
rock e l’ambient
di quasi venti minuti. Ma nel complesso l’album suona al solito non
studiato, ma spontaneamente e sinceramente naif, pronto a scaldare i
cuori più che a sollecitare i neuroni. Consigliato.
Dalla rinascita qualitativa
che ha caratterizzato l’ultimo lustro, a suon di rock-soul anche
mainstream (di rango), la band scozzese saldamente nelle dotate mani
di Mike Scott segna il primo passo a vuoto pleonastico, più che
debole. Gli ingredienti musicali sono i medesimi dell’eccellente
Modern Blues
(2015) e dell’ottimo Out
of All This Blue (2017),
tuttavia difficilmente una delle canzoni di Where
The Action Is
avrebbe trovato spazio nei due precedenti lavori, vista la qualità
(compositiva innanzitutto) chiaramente inferiore. Al punto da far
pensare che l’attuale sia un album di outtakes dei precedenti
(tuttavia non dichiarato dagli autori), fatto che giustificherebbe
anche la scarsa omogeneità del progetto, costituito da un
pout-pourri di
brani R’n’B, punk-pop, heartland rock, folk-rock celtico, di
ballads
cantautorali, o di poetry di derivazione letteraria. Livello
qualitativo discreto e sensazione comunque di spontaneità festaiola
in famiglia, più che prodotto calcolato per il mercato. Nulla
tuttavia che porti il risultato finale oltre il già ascoltato. I
nostri sanno fare ben di meglio.
Voto
Microby: 7.2
Preferite:
In
My Time on Earth, Where The Action Is, Piper At The Gates of Dawn
E’ difficile riuscire a recensire un disco del genere, così diverso da ciò cui siamo stati abituati. Ascoltandolo più e più volte tuttavia non riesco a levarmi da dosso una sensazione di ansia e di appesantimento, emotivamente lontana da tutto ciò che avrei mai potuto pensare di una sua evoluzione musicale. Evidentemente i grandi vecchi sentono il bisogno di celebrare alcuni tra i loro riferimenti giovanili (e Bob Dylan, infatti, ha fatto lo stesso nei suoi ultimi dischi sinatriani). Un disco dalla veste decisamente pop orchestrale, volutamente ispirato alla musica californiana anni sessanta e settanta, con riferimenti a Glen Campbell, Burt Bacharach, Jimmy Webb, John Denver e compagnia bella. E’ un pò come se, che so, De Gregori, si mettesse a ispirarsi a Bruno Martino o Gino Paoli o ripescasse arrangiamenti di Gorni Kramer o Lelio Luttazzi. Niente di immorale, per carità, ma ridatemi la E Street Band.
Si fa un gran parlare del
debutto su lunga distanza di questa ventitreenne londinese, di padre
turco e madre antillana (Barbados), entrambi artisti. Ed in termini
solo positivi. Nonostante melodie ad alto potenziale radiofonico, gli
arrangiamenti non suonano lineari e facilmente fruibili (solo ad un
ascolto distratto le canzoni di NY appaiono semplici), né aiuta
l’estrema varietà dei generi affrontati (indie-rock,
alt-pop, electro-pop, nu-soul, alt-R’n’B),
o la proposizione di 12 brani intercisi da 5 brevi e pleonastici
interludi che interrompono la fluidità del lavoro. Sia i testi che
le soluzioni musicali, così come la voce utilizzata su più registri
anche nel medesimo brano, comunicano aggressività inibita,
adrenalina trattenuta, ansia palpabile, come un’adolescente che non
sa con chi può confidarsi e fino a che punto può fidarsi del mondo.
Meglio la prima parte, nutrita dagli echi dei più morbidi Pixies,
P.J. Harvey e Mitski, che la seconda in cui prevale l’influenza
nu-soul alla Frank Ocean (sebbene personalizzata). L’impressione di
testa è che ben 8 produttori diversi abbiano nuociuto all’amalgama,
piuttosto che colorato le diversità di genere (un produttore inglese
mirato, butto lì un John Parish, penso avrebbe potuto cavare dal
cappello un capolavoro). Ma l’impressione di cuore è che di questa
talentuosa inglesina sentiremo parlare ancora a lungo.
Ottavo album per il gruppo svedese, in oltre 20 anni di carriera: tra i migliori esponenti continentali di baroque pop melodico, Magnus Carlson e soci per questo lavoro hanno prodotto una sorta di concept album sui cambiamenti climatici (del resto, con Greta Thunberg, la Svezia è assurta a nazione guida nel sottolineare il nostro disastroso impatto ambientale). Album prodotto da Barry Adamson (fondatore dei Bad Seeds, il gruppo di Nick Cave e collaboratore di Iggy Pop e David Lynch), che ne conferisce un’impronta quasi cinematografica ispirandosi a Scott Walker ed Ennio Morricone. Un disco di ottimo pop, impreziosito da atmosfere retro-soul, country e jazz
Rimandi: Style Council, Morrissey, Ryan Adams, ma soprattutto Divine Comedy e Richard Hawley.
Da ascoltare: There's No Hiding Place, Let Go, Endless Sleep. Voto: ☆☆☆☆1/2
Al decimo lavoro in 20 anni di carriera, in quest’ultimo album prodotto da John Isbell e con l’aiuto della sua fedele backing band 400 Unit, il folksinger dell’Idaho allarga la sua ispirazione dalle sue tradizionali ballad acustiche “Americana”, al blues-rock ed al country-pop. Sempre all’inseguimento del suo mito Bob Dylan, Josh si lascia stavolta trascinare dalle cure musicali di Isbell virando verso ispirazioni decisamente più roots e southern e appoggiandosi ed arrangiamenti più avvolgenti. Da segnalare i brani The Torch Committee, una specie di crescendo lirico tra Leonard Cohen, Ryan Adams e Nick Cave, e All Some Kind of Dream, stupenda ballata tipicamente dylaniana.
Ennesima conferma di un ottimo cantautore, meritevole di ben altri successi, vitale e ricco di idee: sicuramente tra i migliori album country-folk dell’anno.
Da ascoltare: All Some Kind of Dream, The Torch Committee, Silver Blade. Voto: ☆☆☆☆1/2