domenica 16 giugno 2019

Recensione: Bruce Springsteen - Western Stars (2019)

BRUCE SPRINGSTEEN . Western Stars (2019)


E’ difficile riuscire a recensire un disco del genere, così diverso da ciò cui siamo stati abituati. Ascoltandolo più e più volte tuttavia non riesco a levarmi da dosso una sensazione di ansia e di appesantimento, emotivamente lontana da tutto ciò che avrei mai potuto pensare di una sua evoluzione musicale. Evidentemente i grandi vecchi sentono il bisogno di celebrare alcuni tra i loro riferimenti giovanili (e Bob Dylan, infatti, ha fatto lo stesso nei suoi ultimi dischi sinatriani). Un disco dalla veste decisamente pop orchestrale, volutamente ispirato alla musica californiana anni sessanta e settanta, con riferimenti a Glen Campbell, Burt Bacharach, Jimmy Webb, John Denver e compagnia bella. E’ un pò come se, che so, De Gregori, si mettesse a ispirarsi a Bruno Martino o Gino Paoli o ripescasse arrangiamenti di Gorni Kramer o Lelio Luttazzi. Niente di immorale, per carità, ma ridatemi la E Street Band.  
Voto:


5 commenti:

microby ha detto...

BRUCE SPRINGSTEEN : Non è mai facile recensire un disco del Boss, visto che l’auspicata imparzialità del critico musicale è sempre minata dalla considerazione inattaccabile dell’uomo-Springsteen. Così anche lo snobismo insopportabile del critico-rock, sempre pronto a sparare sull’outsider diventato stella (gli esempi sono centinaia), con l’artista del New Jersey si infrange contro il muro di incondizionata approvazione internazional-popolare ma anche, oggettivamente, al mediamente elevato livello qualitativo del Boss anche quando opta per inattesi cambi di rotta musicale (a mio avviso nel nuovo millennio un solo disco è sotto la sufficienza: Working On A Dream nel 2009). Ho perciò affrontato Western Stars con timore non reverenziale, piuttosto già prevenuto ad una smorfia di disapprovazione visto che leggevo di svolta hollywoodiana, archi a profusione, rimandi all’easy listening californiano dei ’60-’70… tutti fattori estranei al mito-Springsteen. Ho ascoltato per la prima volta la sua ultima fatica dopo aver letto la tua recensione, Luca, e sapendo quanto stimi ed ami il Boss mi sono preparato mentalmente ad una delusione. Invece, già al primo ascolto ho avuto l’impressione di belle canzoni con arrangiamenti fuori fuoco. Quantomeno per il Boss. Ma non per le canzoni stesse, che agli ascolti successivi invece di perdere mordente si sono dimostrate epiche anzichè enfatiche, da pioniere della conquista del West invece che da cantore della classe operaia della East Coast (ma non erano epiche Jungleland, o Thunder Road, o Born To Run? E non erano romantiche senza essere melliflue, nonostante l’orchestra, 4th of July-Sandy o New York City Serenade?). Un’impressione totalmente diversa da quella prodotta dal recente Bob Dylan sinatriano, stonato, pretenzioso e fuori contesto. Se riascolti Western Stars ripensando alle medesime canzoni, ma arrangiate nelle varie fogge dallo Springsteen rockettaro o da quello folk o persino gospel, non puoi che coglierne l’intrinseca qualità. Certo concordo con la tua ultima affermazione: ridateci la E Street Band! Ma che interpreti sul palco quest’ultimo album: anche i pochi attuali detrattori sarebbero convinti della bontà di questa scrittura. Pochi scrivevo, ed in modo sorprendente visto gli arrangiamenti totalmente fuori-stile Springsteen (mi sovviene il paragone con Sarri giacca-e-cravatta alla Juve…).

microby ha detto...

CONTINUA... : Metacritic fissa ad 84/100 (universal acclaim) la valutazione della media delle più importanti testate giornalistiche musicali nel mondo (con 27 recensioni favorevoli ed una sola negativa; con Pitchfork, sito di prestigio ma tradizionalmente legato ad un pubblico giovane, indie e di intenditori vagamente snob, che assegna a Western Stars un sorprendente 7.8). E stato giustamente scritto, da tempo ormai, che il Boss è il più autorevole cantore dell’America degli ultimi 50 anni (Dylan è più universale), e lo è anche e sorprendentemente nel ritrarre personaggi che hanno ora la sua età (quasi 70 anni), che non hanno mai flirtato con il power-flower ed amato l’epopea rock, ma che guardano indietro alla propria vita negli States con i medesimi occhi di Springsteen. Così come giustamente è stato sottolineato che quest’ultimo è l’album più cinematografico mai pubblicato dall’artista di Freehold, NJ, quello in cui John Ford e John Wayne rappresentano molto più che un immaginario. A partire dalla copertina, emblema dell’album: bellissima o tamarra a seconda della prospettiva dalla quale la si osserva. Le canzoni di Western Stars avrebbero brillato, con altri arrangiamenti, anche su Nebraska o su The River o persino su We Shall Overcome. E, senza l’eccesso (ma per mia formazione musicale, non adusa al miele west coast dei ‘60) di archi qua e là (vedi le altrimenti belle Chasin’ White Horses e There Goes My Miracle), potrei concordare con i molti che considerano Western Stars l’ennesimo ed inaspettato capolavoro del Boss. Si affianca invece ai suoi molti buoni lavori del nuovo millennio, distinguendosi dagli altri per la coraggiosa svolta musicale. Riascoltalo Luca, non te ne pentirai…
Voto Microby: 7.8
Preferite: Tucson Train, Hitch Hikin’, Moonlight Motel

lucaf ha detto...

Sono girate una marea di recensioni e pareri diversi sull'ultimo disco del Boss e mi sembra interessante pubblicare quella di Marco Denti, collaboratore part-time del Busca, ma soprattutto grande esperto ed appassionato.

Come i personaggi che cerca ancora di raccontare, Springsteen è incastrato in un meccanismo da cui non sa o non vuole uscire. Questione di status, più che di soldi, ma Springsteen non è soltanto il troubadour che viene a raccontarci le sue storie, è un onesto lavoratore con scadenze e impegni da rispettare. Un argomento di cui è vietato parlare, ma che ha un peso specifico non relativo sull’esistenza di Western Stars , e anche sulla sua peculiare natura. Di fatto dopo il famigerato contratto da cento milioni di dollari del 2005, Springsteen ne ha rinegoziato un altro (con un anticipo di trenta milioni) che prevede, dal 2015 al 2027 13 album (esattamente uno all’anno) di cui 4 di inediti in studio. La tabella di marcia è stata rispettata per quanto riguarda i box retrospettivi (il primo era The Ties That Bind: The River Collection , seguiranno in ordine sparso Born In The USA , Nebraska e qualcosa di molto simile a Tracks 2 ) e i dischi dal vivo (saranno cinque, il primo è stato Broadway , con risultati non esaltanti) con il fuori programma di Chapter & Verse . Per inciso, e per avere una vaga idea delle dimensioni del patteggiamento totale, Springsteen ha ottenuto di poter continuare a pubblicare i “live” digitali, a sua discrezione, e ha imposto una rigorosa verifica delle royalties da tutti i paesi in cui è distribuito al netto delle tasse e della fiscalità di ogni nazione. Immagino le parcelle degli avvocati, ma questo (e non un altro) è il mondo in cui vive Springsteen. Un mucchio di soldi, e un sacco di dischi da mettere insieme.  Quelli in studio dovevano arrivare alla media di uno ogni tre anni (i calendari non sono un’opinione), ma già il primo, Western Stars, salta il turno, arriva in ritardo e segna una sorta di linea di demarcazione. Nei prossimi otto anni, Springsteen dovrà incidere altri tre album in studio, partorire tre box e quattro dischi dal vivo. È qualcosa in più di un album all’anno: è una catena di montaggio. Questa, con un pizzico di realismo, è la condizione di Springsteen, oggi. Lasciamo perdere le questioni personali e autobiografiche. Non facciamo finta che Springsteen sia il profeta che viene a raccontarci cosa sta succedendo in America (e comunque non lo sta facendo). In tutta onestà, Springsteen gioca in un ruolo che si è scelto e questo, per dirlo con le sue parole, è il prezzo di pagare. La libertà ha un altro valore, e chiedete a John Mellencamp che negozia disco per disco (e i risultati sono lì da vedere). Western Stars è il primo album di inediti del nuovo contratto, proprio come High Hopes (ricordate?) era l’ultimo tassello della precedente trattativa. È un disco montato ad arte attorno a un concept (attenzione, non a un concept album) che è stato sviluppato per sommi capi, seguendo delle indicazioni altalenanti e qualche falsa pista. C’è stato un grande lavoro (persino eccessivo) nel creare attorno a Western Stars un’aura che ha generato commenti con un’enfasi pari soltanto a quella del disco, ma è tutto frutto di quel concept che Springsteen ha prima annunciato come un album di “pop californiano” (qualsiasi cosa significhi) e poi, grazie a una sottile e pervicace campagna di marketing, ha indirizzato verso il West in generale. (...). CONTINUA

lucaf ha detto...

CONTINUA (SECONDA PARTE)
Lo stesso Springsteen si è prestato a interpretare il concept di Western Stars con ogni ammennicolo del caso (cappello, stivali, giaccone), ma qui l’abbaglio è plateale, se lo si vuol vedere. Già dal titolo, Springsteen gioca con uno dei grandi miti americani, il West, ma la sua visione è da cartolina, limitata, e anche un po’ troppo patinata (in questo molto legata alle sonorità scelte con Ron Aniello). Una svista non da poco, che pare fare il bis con quella, a suo tempo, della location di Broadway. (...) In Western Stars , l’effetto, grazie anche alla colonna sonora cinematica, è quello di una serie di fotogrammi in technicolor, affascinanti, ma un po’ sgranati, dove si possono cogliere brevi e intensi momenti strumentali, ma la visione d’insieme, per quanto si tratti di un disco uniforme e coerente come non capita da tempo a Springsteen, non è per niente approfondita ed è limitata a piccoli dettagli che dovrebbero costruire le singole storie, ma che si limitano a essere particolari sparsi. Suggestioni, impressioni, frammenti: le canzoni reggono a forza di cliché e di luoghi comuni e il principio narrativo “kick the stone”, ovvero prendi un personaggio, mettilo sulla strada e guarda un po’ cosa succede, a volte funziona, a volte no. Ma non è quello il punto: le caratteristiche dello stuntman ( Drive Fast ), dell’autostoppista ( Hitch Hikin’ ), del viandante ( The Wayfarer ), dell’attore ( Western Stars ) e, buon ultimo, del songwriter ( Somewhere North of Nashville ) sono un’altra cosa rispetto all’America blue collar di Springsteen dove, bene o male, magari non si arrivava a nessuna terra promessa, ma un approdo comunque lo si trovava. (...) L’impianto sonoro è funzionale allo scopo: molte decorazioni, un sacco di strumenti stratificati uno dentro l’altro, nessuna vera funzione specifica se non quella di ricordare, con una dose letale di nostalgia, le colonne sonore di vecchi film o rendere omaggio a Roy Orbison (l’unico, valido motivo per ascoltare There Goes My Miracle ). Niente di nuovo o di sorprendente sul fronte occidentale: tanto assemblaggio e riciclaggio, ovvero molto mestiere che porta a canzoni buone per ogni stagione ( Tucson Train, Sundown, Hello Sunshine ) ma tutto sommato innocue, per quanto perfettamente inserite nel contesto di Western Stars. E nessuna sorpresa anche per le reazioni a caldo che, come già per Broadway , sono state dettate e guidate dall’emotività, fonte di una prosopopea ricca di elogi e superlativi, ma spesso del tutto priva di attinenza al merito, e alla sostanza. Il motivo è molto semplice: Western Stars è un disco di una malinconia indicibile perché è fin troppo evidente che inquadra con un’istantanea impietosa uno Springsteen che ha ancora qualcosa da dire, non sa bene come farlo, ma lo deve fare. Lo dovrà fare. E lasciamo stare l’età, che ognuno ha quella che ha. Il prossimo concept, già annunciato (a riprova che gli ingranaggi girano a tempo pieno) diventa inquietante (tour compreso): non sia mai che l’album con la E Street Band si risolva in qualcosa di simile alla reunion di Graham Parker & The Rumour: grandi (grandissimi) rock’n’roller, ormai un po’ attempati, che sfornano della buona musica, ma la scintilla, il brivido, la scossa sono ormai alle spalle. Almeno in questo, per quanto a livello inconscio, Western Stars è molto più sincero. Addio al miracolo. All’ovest, l’orizzonte è quello del declino. Ci arriveremo a tappe forzate.

microby ha detto...

Tristemente interessante. Anche ad un doloroso esame di realtà, di fronte all'ascolto di un disco fermiamoci a quel che conta :mi è o non mi è piaciuto... A me sì

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