Una
laurea in musica e composizione a Yale, la conoscenza della musica
classica ma la passione per il pop
orchestrale ed
un'eccessiva timidezza che Ellis-Ludwig
Leone, il nerd
dietro al progetto San Fermin, ha risolto componendo tutte le
partiture e le liriche dei suoi dischi ma facendole eseguire da una
ventina di musicisti comprese le voci soliste, il baritonale Allen
Tate per il ruolo maschile e le varie turniste per le più
spumeggianti canzoni al femminile. In concerto il nostro si defila
suonando le tastiere nelle retrovie. Piccolo genietto che dopo un
ottimo debutto (San
Fermin, 2013) ed un
buon secondo album aveva cercato col precedente soluzioni alternative
al rischio-ripetitività (con risultati non soddisfacenti), ed ora
torna alle origini con un bel quarto lavoro partorito in due
segmenti, Part I
pubblicato nell'ottobre 2019 e Part
II nel marzo
2020, entrambi di 8 brani per 25 minuti. Versione più contenuta e
meno percussiva del francese Woodkid,
Leone firma con il chamber-pop
asimmetrico che lo contraddistingue (a tratti intimo, in altri
esplosivo) la storia di un essere umano che ripercorre i momenti
significativi della propria vita (dall'infanzia alla vecchiaia,
canzone per canzone) dopo che un cormorano gli ha predetto la morte.
E lo fa con i due caratteri, maschile e femminile, e con momenti di
avvolgente tenerezza alternati ad altri di romantica forza, a
sottolineare l'effimera fragilità umana. L'originale scrittura melodica
ed il gusto per le costruzioni sinfoniche trovano stavolta maggior
concretezza pop e
perfino indie-rock, un
passo a lato rispetto al più bucolico Sufjan Stevens ed invece due
passi incontro al pop tenebroso di The
National e
The
Slow Show,
nonostante si percepisca sempre la formazione classica. Una costante
positiva anche la scelta della bella copertina.
Voto
Microby: 8
Preferite:
The
Saints, The Hunger, Freedom
(Yeah Yeah!)
Per chi scrive Lucinda
Williams, 67 anni ed ora al 14° album in studio, è la migliore
singer-songwriter americana dell’ultimo quarto di secolo.
Affermazione forte, ma non siamo in pochi a pensarla così. Partita
nel lontano 1979 col folk-blues
sudista (nata in Louisana ma cresciuta tra Mississippi, Texas e
Arkansas) di Ramblin’
ed evoluta con paragoni a Townes Van Zandt in un dark-country
dalle sfumature blues e soul fino alla meraviglia di “americana”
Car Wheels On A
Gravel Road (1998),
dopo 22 anni ed una serie di eccellenti lavori in continua
trasformazione/evoluzione torna a collaborare con il produttore di
quel capolavoro, Ray Kennedy, ed insieme al marito Tom Overby,
co-autore di molti brani, pubblica ora il
suo disco più rock.
Affiancata dalla potente band che l’ha accompagnata dal vivo
nell’ultimo lustro, grazie ad essa riesce ad apparire meno dolente
e rassegnata nel dipingere i consueti ritratti personali e pubblici,
locali ed universali del malessere quotidiano, che affronta con la
depressione che l’accompagna nella vita ma che stavolta vince con
una rabbia appassionata ma controllata, con la voce più dolente ed
aspra, amara ed abrasiva di sempre. Il timbro vocale ruvido, pigro,
nasale che la caratterizza è immediatamente identificabile, e per i
pochi detrattori che non lo sopportano risulta un ostacolo
idiosincratico. Se non siete tra questi, oltre alla qualità
compositiva ed alla varietà delle canzoni sarete storditi dalla
muscolare e corrosiva prestazione di Stuart
Mathis,
fantastico chitarrista elettrico che con distorsori, slide, wah-wah e suoni
sporchi tra rock, hard blues e psych richiama le sferragliate
abrasive di Jimi Hendrix e dei Crazy Horse, dando un’impronta
torbida e rabbiosa alle composizioni. Evoluzione efficace ma
inaspettata da parte della Williams, che negli ultimi album si era
invece avvalsa delle altrettanto preziose ma diversissime chitarre
jazz di Greg Leisz e Bill Frisell. Evidentemente l’artista non
vuole prescindere da chitarristi di grande personalità, ma con Good
Souls Better Angels
dimostra che un impianto rock è più nelle sue corde rispetto al
jazz (a mio parere, l’unica escursione non riuscita della sua
carriera è stata quella collaborativa nell’album Vanished
Gardens del
jazzista Charles Lloyd, anno 2018). Chi in questo difficile momento
preferisce affidarsi a suoni levigati e rassicuranti, freschi e
leggeri stia alla larga da GSBA (ma si astenga anche da tutta la
produzione della Williams). Chi cova rabbia sopita e nasconde ferite
non ancora rimarginate, faccia emergere la prima e lenisca le ultime
immergendosi in questo grande disco di rock intenso, emozionante,
viscerale.
Voto
Microby: 8.7
Preferite:
You
Can’t Rule Me, Man Without A Soul, Shadows & Doubts
Da
sempre descritto come “a
jazz singer for the hip-hop generation”
(AllMusic), la definizione più il tempo passa e più calza a
pennello. Il musicista di colore di Minneapolis ha sempre inciso per
la Blue Note (unica eccezione l’attuale lavoro), e cita tra le
influenze principali John
Coltrane e
Marvin Gaye,
ma è anche titolare di due tribute-album a Billie
Holiday e Bill
Withers, ed
ascoltando i suoi dischi non si fatica ad evocare Terry
Callier come
Nat King Cole,
Gil Scott-Heron
come Sam Cooke,
Frank Ocean
come Otis
Redding. Così
come è evidente che le sue influenze vanno dal
soul al jazz, dal rock al funk, dal pop all’hip-hop:
a differenza di altri artisti, a James riesce molto bene ed in modo
apparentemente naturale la crasi tra generi musicali ed ere
differenti. No
Beginning No End 2,
come suggerito dal titolo, è la continuazione dell’omonimo album
del 2013 (curiosamente la copertina del primo capitolo lo ritraeva a
testa rasata, ora invece con il classico fungo afro), ed è
altrettanto bello. Nemmeno la pletora di ospiti (Brett Williams,
Marcus Machado, Aloe Blacc, Lizz Wright, Cecily, Laura Mvula, Taali,
Erik Truffaz tra gli altri) scompagina un assetto raffinato, caldo ed
ordinato, sempre guidato dalla vellutata ed elegante voce (baritonale
o in falsetto) del nostro, che decide di proporre un “primo lato”
più ritmato e di impronta nu-soul ed un “secondo lato” di
ballate romantiche che hanno qualcosa di più del semplice
smooth-jazz. Le due anime sono separate da una bella versione della
Just The Way You Are
di Billy Joel. Potrà non piacere agli specialisti di ogni singolo
genere citato, ma dovrebbe incuriosirli tutti, perché pochissimi
artisti oggi riescono a citare, fondere e masticare così bene mezzo
secolo della nostra musica.
Voto
Microby: 8
Preferite:
Saint
James, Miss Me When I’m Gone, Oracle
Ero impaziente di ascoltare il seguito del bellissimo Through the Night (arrivato nella top 5 delle classifiche d’oltremanica con una serie di recensioni a cinque stelle): ci sono voluti ben 8 anni di attesa, un tempo lunghissimo che faceva pensare ad un disimpegno dalla scena musicale da parte di questa musicista inglese. Del resto non è che abbia passato un bel momento: separatasi dal compagno, dal manager e dal suo contratto ha anche avuto un grave incidente alla colonna vertebrale, tutte condizioni che ne hanno evidentemente quanto meno minato le certezze emotive.
Le citazioni vanno dagli anni ’80 (Kate Bush, Sade, Smiths) per andare indietro a Shirley Bassey e Dusty Springfield o avanti ai giorni nostri con Fiona Apple, Sarah Blasko, Nicole Atkins e soprattutto il pop barocco di Rufus Wainwright. Un disco prevalentemente pop, non banale: l’impressione, tuttavia, è quella di un’operazione un pò confusa e prevedibile che solo in alcuni episodi appare empatica ed ispirata. Insomma, un passo indietro come spesso capita ai secondi lavori: ci può stare.
Non sono molte le recensioni del blog nel genere progressive ma questa volta non bisogna omettere la segnalazione di questo notevole lavoro dei Pendragon, maestri del genere, a distanza di 6 anni dal precedente. Dopo l’abbandono del batterista, unitosi alla band di Steve Hackett, e lasciandosi alle spalle soprattutto i toni oscuri e, diciamolo pure, la noia dei precedenti lavori, le tastiere, gli archi e gli arpeggi acustici hanno ricominciato a farla da padroni, secondo la migliore tradizione del prog più classico. La band vede i due leader in grande spolvero: Nick Barrett alle chitarre e Clive Nolan alle tastiere forniscono alla band un ritmo ricco di sfumature e colori, con brani ricchi di melodie, in downtempo con il sax a fornire una linea musicale dolce ma anche energica.
Un disco senza troppi orpelli (beh, un pò ce ne sono, altrimenti che prog sarebbe....), pieno di classe e raffinatezza, onirico e intenso come solo i grandi del genere sanno fare. Da ascoltare: Afraid Of Everything, Truth And Lies, Water.