Continua il viaggio di Dylan tra i differenti stili musicali dell’America del secolo scorso. Promettente l’inizio col primo singolo, Duquesne Whistle, un folk-swing che starebbe bene nei films di Woody Allen. E poi la voce, mai così bella, sempre meno ipernasale ed invece più piena, calda, rauca, quasi waitsiana; da promuovere insieme alla buona qualità della scrittura. Entusiasmo che si stempera nella svogliatezza generale dell’esecuzione: ciascun brano muore come nasce, senza mai un cambio di passo, di ritmo, una variazione del tema musicale, un breve assolo, uno sforzo mentale per trovare una chiusura adeguata alle canzoni, che finiscono tutte in dissolvenza. Ascoltare Narrow Way, Early Roman Kings, Tin Angel e la lunghissima title track (che da sole fanno 35 minuti!) ed anelare ad un pizzico di fantasia come fosse una boccata d’ossigeno equivale ad una sofferenza cui ci si sottrae facilmente skippando le canzoni al secondo ascolto. Per non parlare dei blues, che sarebbero statici anche per Muddy Waters. A che serve una backing band eccellente se la costringi ad un mero accompagnamento scolastico? Senza leggere/comprendere i testi, è come pretendere che un americano possa apprezzare Radici di Guccini: probabilmente lo troverebbe noioso, ripetitivo, musicalmente povero, e di sicuro skipperebbe (bestemmia!) La locomotiva. Noia che traspare poco nella prima parte, fatta di canzoni più varie e brevi, e che si merita un 7.5, ma che ti abbraccia inesorabile durante i lunghi/ssimi e monocordi brani della seconda parte, da 6.5. In conclusione un lavoro di transizione, che sembra (nonostante nella realtà non lo sia) fondato su scarti degli ultimi 4-5 albums, da Time Out of Mind (1997) in poi.
Preferite: Duquesne Whistle, Pay In Blood, Soon After Midnight
Voto Microby: 7/10