lunedì 28 aprile 2014

MARK McGUIRE, THE MEN, SOHN


MARK McGUIRE (2014) Along The Way
Molta critica musicale ha la memoria decisamente corta: dopo aver sparato sul progressive dal 1976 (l’avvento del punk) ad oggi, è pronta ad incensare ogni disco prog (vabbè, di valore) che oggi venga pubblicato a condizione di non definirlo prog. Come fosse d’obbligo vergognarsi di aver amato King Crimson, Genesis, Yes, EL&P, Jethro Tull, P.F.M., B.M.S. e compagnia bella. Così il nostro americano di turno, forte di un passato decennale da chitarrista sperimentale shakerato con un’elettronica minimale – con la band Emeralds o da solista – se ne esce con un album strumentale (più cori estatici, per una suite in 4 movimenti e 13 brani) che sembra partorito dal Mike Oldfield dei ’70 e viene osannato con etichette che lo dipingono per quel che non è, cioè un innovatore: “electronic music”, “contemporary new age”, “experimental ambient”, “post-rock”, “cosmic guitar meditation”, addirittura “adult modern creative guitarist like Bill Frisell”! Nella realtà siamo di fronte ad uno (splendido) tuffo nel passato prog, ricco di chitarre, piani, mandolini, cori trasognati insieme a beats elettronici, drum machine, samples, ma soprattutto creatività. Orgogliosi di aver amato la fonte di ispirazione primaria: Tubular Bells!
Voto Microby: 7.7
Preferite: In Search of The Miraculous, The Instinct, Turiya (The Same Way)
THE MEN (2014) Tomorrow's Hits
Ovviamente ironico il titolo del quinto lavoro della band di Brooklyn, dal momento che il baricentro musicale è ben piantato nei ’60-’70. Rapida l’evoluzione che in 5 anni ha portato The Men dal punk/hardcore degli esordi all’attuale rock’n’roll gravitante intorno al blue collar rock alla Bruce Springsteen, con influenze che vanno dal garage-sound ’60 ai Rolling Stones prima maniera, dall’”americana” alla Tom Petty al pub-rock alla Dr. Feelgood. Tutto, dai fiati alla E Street Band alla spontaneità garage, dai riffs di chitarra stonesiani al jingle-jangle pettyano, suona come una calda e riuscita dichiarazione d’amore al rock del passato.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Dark Waltz, Another Night, Get What You Give
SOHN (2014) Tremors
Il londinese SOHN, al secolo Toph Taylor ed attivo a Vienna dal 2010, è il musicista elettronico più trendy del momento: eppure la sua proposta artistica è tutt’altro che originale, col suo tenersi in bilico tra l’elettronica minimalista e malinconica di James Blake e la robotica glaciale dei Kraftwerk, il synth-pop degli Orchestral Manoevres In The Dark ed il new-romantic anni ’80. Un debutto all’insegna di beats elettronici “umani”, da ascolto più che da dancefloor, ben costruito ma di scarsa creatività.
Voto Microby: 6.9
Preferite: Artifice, Veto, The Wheel



lunedì 21 aprile 2014

La morte di Hurricane.



Domenica 20 aprile l'ex pugile del New Jersey Rubin Carter è morto, a 76 anni. La sua storia è diventata celebre perché aveva trascorso  in prigione quasi vent’anni della sua vita, dopo essere stato condannato ingiustamente all'ergastolo per triplice omicidio nel 1966. Indirettamente è grazie a lui che ho cominciato a conoscere ed amare Bob Dylan che, nel 1976, scrisse la splendida canzone "Hurricane" per farci aprire gli occhi sulla sua storia.  In quell'anno era impossibile non ascoltare quella canzone:  la sentivi ovunque, anche se ancora non c'era internet a diffonderla in un attimo per il mondo intero.  Ricordo che andai a comperare il 45 giri (giocandomi la paghetta settimanale): il brano, di circa 8 minuti di durata, era curiosamente diviso tra le le due facciate del disco e quel ritmo e quella voce incalzante erano state ipnotiche per un ragazzo di 13 anni. All'inizio del brano Dylan ci aveva già detto tutto: “Questa è la storia di Hurricane, l’uomo a cui le autorità diedero la colpa per qualcosa che non aveva mai commesso, sbattuto in una cella, ma una volta sarebbe potuto diventare campione del mondo”.  

Recensioni americane: John Gorka, Whiskey Myers, Marc Ford

JOHN GORKA - Bright Side of Down (2014)
JG, nativo del New Jersey, ha iniziato a fare musica 30 anni fa, prima con un gruppo (gli “I Know”) e grazie alla collaborazione di una allora giovane promessa (Shawn Colvin) e poi in solitario, girando in lungo ed in largo il suo paese. Il suo stile è neo-folk: chitarra acustica, arrangiamenti curati e intimisti, voce calda e malinconica. In questo disco (il suo dodicesimo), è aiutato dalla voce di Lucy Kaplanski e Antje Duvekot e dimostra con grande classe come deve essere fatto un disco folk: testi semplici e profondi, canzoni che immagini suonate per strada, chitarra al collo, con un gruppo di amici intorno. Voto: ☆☆

WHISKEY MYERS - Early Morning Shakes (2014)
Texani genuini, fanno un Southern Rock che si ispira a piene mani alla tradizione di Allman Brothers, Marshall Tucker o Lynyrd Skynyrd. Lo so, è roba che magari l’hai già sentita un milione di volte ma niente eguaglia il piacere di ascoltare ballate che sanno di sudore, di fumo e whisky, con chitarrone, armoniche, banjo e pedal steel suonate comediocomanda. Voto: ☆☆1/2

MARC FORD - Holy Ghost (2014)

Allontanato dai Black Crowes di cui è stato chitarrista (tra il 1991 ed il 1997) di grande qualità (pare per abuso di droga), per un pò di tempo ha collaborato con i Gov’t Mule, Ben Harper, Marc Olson e Ryan Bingham ma qualche anno fa aveva deliziato con un gruppo da lui fondato (Neptune Blues Band). Ora ha pubblicato questo bel lavoro (il suo quinto da solista) di puro genere “Americana”, condito di ballate country-rock vecchio stile (pedal steel, chitarre acustiche e tastiere delicate). Un disco onesto, solido che non può non piacere agli amanti del genere. Voto: ☆☆

mercoledì 16 aprile 2014

SOPHIE ZELMANI, THE WAR ON DRUGS, CARLA BOZULICH


SOPHIE ZELMANI (2014) Going Home

La timida e bruna svedese (l’opposto dell’immaginario italiano delle scandinave) non sbaglia un colpo: dopo 18 anni e 10 dischi lascia la Sony ed incide per la propria etichetta autogestita un album contenente solo nuove versioni di vecchi brani più un inedito (Aftermath). E lo fa riproponendo non una serie di hits da classifica, ma stimolando i palati fini con arrangiamenti acustici dall’impalcatura semplice ma dai dettagli (chitarre acustiche, piano, fiati, archi) raffinatissimi, sontuosi nel rispetto delle pause e del passo lento di tutto il lavoro, certamente il più intimo della produzione della cantautrice. Da ascoltare in solitaria lasciando decantare dolcemente le note, e da non accostare ai cantautori nordamericani depressi/confessionali (leggi William Fitzsimmons, Bon Iver, Neil Halstead… ) ma piuttosto ai lavori acustici di Bill Frisell, Pat Metheny, Mark Knopfler (ah, quanto si sentirebbero “a casa” partecipando ad un disco della Zelmani!), o alle colleghe altrettanto dotate Laura Marling, Clara Luzia, Feist, Ane Brun, Lisa Hannigan, Anna Luca…
Voto Microby: 8
Preferite: Going Home, Happier Man, Got To Stop
THE WAR ON DRUGS (2014) Lost In The Dream


Adam Granduciel e Kurt Vile avevano pubblicato nel 2008 uno splendido esordio, Wagonwheel Blues, figlio bastardo di Bob Dylan e dell’elettricità confusa dei ’90. Separatisi subito dopo, Granduciel chiariva presto di essere poco interessato alla forma-canzone come invece Vile (con buoni risultati), ed al terzo album a nome TWOD una batteria eccessivamente metronomica traccia brani dilatati in cui a farla da padrone sono la voce sofferta del nostro e la chitarra elettrica ipnotica, riverberata, rallentata ma tesa. Lost In The Dream suona come se i Waterboys interpretassero un’americana psichedelica, con echi qua e là di Dylan, Young, Springsteen e Arcade Fire. Meglio del precedente lavoro, ma lontano dall’esordio.
Voto Microby: 7.5
Preferite: An Ocean In Between The Waves, Burning, Red Eyes
CARLA BOZULICH (2014) Boy
L’artista losangelena, già attiva nel post-punk/industrial anni ’80, ha proseguito negli anni e sotto varie spoglie (Evangelista il moniker più noto) la sua ricerca nell’avanguardia rock fino ad arrivare all’attuale Boy che viene giudicato dalla stessa autrice il suo lavoro più “pop”. Molto tra virgolette, aggiungiamo, perché i richiami più immediati sono la no-wave di Lydia Lunch, il Nick Cave più grezzo, oscuro, disturbante, la PJ Harvey più urticante e drammatica. Nei brani più accessibili (perché è vero che questo è l’album meno difficile della nostra) l’approccio vocale ricorda Patti Smith, ma la Bozulich è più declamatoria e cupa, e nuota immersa tra percussioni tra il tribale ed il sepolcrale e chitarre elettriche e tastiere spesso dissonanti. Fuori dalle virgolette, è un rock sperimentale certamente intenso ma per nulla facile, anzi probabilmente noioso per i non appassionati del genere.
Voto Microby: 7.1
Preferenze: Drowned To The Light, Danceland, What Is It Baby?


sabato 12 aprile 2014

LOOKING INTO YOU: A TRIBUTE TO JACKSON BROWNE (2014)

Ho approcciato questo disco con grande curiosità ma anche con un pizzico di scetticismo perchè credo che nessuno sia in grado di suonare Jackson Browne meglio di lui stesso. JB è senza dubbio uno dei migliori cantautori americani degli ultimi 40-50 anni e non a caso la maggior parte dei più ispirati musicisti e folk-singer (vecchi e giovani promesse) è stata coinvolta nel tributo.

Scorrendo qua e là i brani che fanno parte di questa magnifica compilation bisogna notare These Days, uno dei primi brani scritti da JB (aveva solo 16 anni, dannazione!!), poi inciso da Nico, Nitty Gritty, Gregg Allman. Suonata qui da Don Henley (Eagles) e dai Blind Pilot è l’emblema della raffinatezza di JB.  Fountain of Sorrow è in assoluto la mia preferita: è il brano chiave di “Late for the sky”, disco assolutamente fantastico e qui le due Indigo Girls la interpretano in modo rispettoso dell’originale ma con eccezionali armonie, come del resto si conviene loro (e poi al piano c’è Chuck Leavell..).  For Everyman del texano Jimmy LaFave, Barricades of Heaven suonata da Griffin House (considerato non a caso uno dei “cloni” di JB), Our Lady of the Well da Lyle Lovett, sono fatte in modo perfetto con melodie avvolgenti che confermano come JB abbia fatto la storia del West Coast Sound.  Before the Deluge cantata da Eliza Gilkyson (che ha appena pubblicato il suo nuovo disco, molto bello) riesce ad esaltare sia il brano originale che l’espressività della sua voce.  Non bisogna dimenticare poi i Venice (in For a Dancer), Karla Bonhoff (Something Fine), Marc Cohn aiutato da Joan as a Police Woman (Too Many Angels), Ben Harper (Jamaica Say you Will) e non potevano mancare il boss, suo grande amico (Linda Paloma) e JD Souther per i saluti finali (My Opening Farewell).  Grandissimo disco. Qualcuno venga a portarmelo via perchè non faccio che ascoltarlo da giorni e giorni. Voto: ☆☆☆1/2

venerdì 11 aprile 2014

Jonatha Brooke - My Mother Has 4 Noses

Nata a Chicago, non si faceva sentire dal 2008 (il bellissimo “The Works”). In questi anni si era dedicata ad assistere la madre, accompagnata attraverso la malattia e poi il cancro, la demenza e la morte. Quest’ultimo album è il racconto, appassionato ed ironico, del suo rapporto con la madre ed il suo declino mentale ed è anche il soggetto di una “piece” teatrale in cui ripercorre la sua stessa infanzia ed il difficile rapporto familiare. Musicalmente: una sorta di concept, pieno di emozione, elegante e coinvolgente. Folk-rock di assoluto livello, che attinge a piene mani dalle cose migliori di Rickie Lee Jones, Suzanne Vega e Joni Mitchell: sicuramente uno degli album più belli ascoltati in questi primi tre mesi.
Voto: ☆☆☆1/2

lunedì 7 aprile 2014

DEATH VESSEL, LOST IN THE TREES, MICAH P. HINSON


DEATH VESSEL (2014) Island Intervals

Death Vessel è il moniker di Joel Thibodeau, al terzo album dall’esordio nel 2005 sotto forma di un indie-folk acclamato dalla critica. Il suo precedente lavoro Nothing Is Precious Enough, già evoluto in indie folk-pop, si era conquistato la mia top ten nel 2008, ma da allora si erano perse le tracce di questo promettente americano di Providence (Maine). Torna dopo uno iato di 6 anni e dopo aver accompagnato i concerti di Sigur Ròs/Jònsi ed essersi trasferito per breve tempo in Islanda. E si sente. Registrato a Reykjavik con collaboratori di Mùm e Sigur Ròs e con ospite Jònsi, Island Intervals completa la metamorfosi in un indie-pop sognante, di malinconica ed eterea bellezza, aiutato da arpeggi e tasti acustici, e soprattutto dalla voce femminea, quasi fanciullesca del nostro. Immaginate se i Sigur Ròs comprimessero i loro sogni musicali in un album di canzoni pop, ed avrete idea dell’attuale Death Vessel.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Mercury Dime, Ilsa Drown, Ejecta

LOST IN THE TREES (2014) Past Life

Ari Picker, mente, cantante e chitarrista del gruppo americano LITT, ha condotto i compagni (più volte sostituiti) dall’indie-folk degli esordi nel 2007 all’indie-pop moderno del quarto album. Musica per sottrazione: pianoforte minimale a sostenere le trame, voce malinconica con tappeto di cori eterei, sezione ritmica mai invasiva, per un suono dalle belle melodie e tuttavia poco radiofonico perché cerebrale. Uno strano pop non popular, come hanno insegnato gli Alt-J (e prima di loro gli XTC), non di facile ascolto perché richiede dedizione, fortunatamente originale rispetto all’imperante revivalismo eighties a base di tastiere sintetiche e batteria metronomica.
Parecchi ascolti giovano, ma non siamo ancora all’altezza dei maestri.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Past Life, Daunting Friend, Glass Harp


MICAH P. HINSON (2014) And The Nothing

Una decina di anni fa, al suo esordio, avrei scommesso che questo americano, allora poco più che ventenne ma già dalla biografia da romanzo bukowskiano, sarebbe entrato nell’olimpo dei grandi della nostra musica. Come era stato, per simili attitudini bio-musicali, per Tom Waits, Johnny Cash o Shane MacGowan (cui assomiglia anche fisicamente). Invece, dopo 2 dischi-capolavoro, la natura anarchica del nostro lo portava a disperdersi in progetti minimali/collaterali o massimali (leggi orchestrali) condotti con mano non sempre sicura. And The Nothing è stato partorito dopo un terribile incidente con il van durante il tour spagnolo del 2011: MPH rischiò la vita e perse momentaneamente l’uso delle braccia (I Ain’t Movin’). Il ritorno a casa (On The Way Home To Abilene) lo ha portato a riprendere confidenza con la propria terra, il folk essenziale, il country dei padri, le emozioni trattenute, le angosce di nuovo pudiche: a scrivere in sostanza il suo lavoro più asciutto e scarno di sempre (non tragga in inganno l’isolato incipit punk), con molti echi di un Tom Waits di mezzo innamoratosi per una volta della campagna americana. Dominano la voce rotta del nostro ed il pianoforte, in compagnia di banjo , chitarra acustica e slide. Non il suo album migliore, ma certamente il suo più sincero, per qualità inferiore solo all’accoppiata degli esordi.
Voto Microby: 7.6
Preferite: I Ain’t Movin’, On The Way Home (To Abilene), The Life, Living, Death of


domenica 6 aprile 2014

Rufus Wainwright in concerto, Teatro Grande, Brescia 4 aprile 2014


Da solo con il piano o la chitarra: quasi due ore di concerto che sicuramente possono lasciare l’amaro in bocca a chi si aspettava i suoi abituali gesti grandiosi, gli abiti glam, i mix di archi e corni, gli arrangiamenti riccamente barocchi. Per promuovere il suo primo “best of” ha invece scelto di celebrare i suoi successi in modo assai disadorno, “stripped down”, aiutato in soli due-tre pezzi dal controcanto della sorellastra Lucy. Ma in realtà sono sufficienti la sua grande presenza personale e la sua voce, mai sotto tono, a trasmettere un senso di intimità con il pubblico ed affascinarlo. Le canzoni coprono tutto l’arco della sua brillante produzione, aprendo con Grey Gardens e passando via via per The Maker Makes, Jericho, Out of the Game, Me & Liza, Gay Messiah (suonata con un minimo di provocazione visti i trascorsi sanremesi) per poi passare alla fantastica parte finale con I Don’t Know What It Is, Cigarettes & Chocolate ma soprattutto con Art Teacher, Hallelujah e Poses.

sabato 5 aprile 2014

Jamestown Revival e Dawn Landes

Jamestown revival – Utah (2014)

Nell’universo del nuovo country folk americano spunta questo duo di ragazzi texani con base a Los Angeles, quest’anno al loro primo disco.
Si nota fin da subito che Jonathan Clay e Zach Chance sono cresciuti a pane e Creedence Clearwater Revival con qualche spruzzatina di Willie Nelson e magari Loggins and Messina. Il risultato finale è un buon disco che mette insieme tipiche ballate folk con pezzi più country rock realmente piacevoli all’ascolto per chi apprezza il genere.
Segnalo California (Cast iron soul), la turbolenta Revival (con una pedal steel da Eagles prima maniera) e Home (il pezzo con le venature più rock che chiude il disco)


Dawn Landes – Bluebird (2014)

Nata a Louisville in Kentucky ma cresciuta musicalmente a New York City, sposa Josh Ritter nel 2009 e durante il loro matrimonio, durato solo 18 mesi, pubblica due album, Fireproof e Sweet heart rodeo, che la fanno emergere come una cantautrice ispirata senz’altro da atmosfere country-folk ma in grado anche di percorrere altre vie più pop/rock.
Bluebird, che spezza un silenzio durato più di 4 anni è il disco del suo divorzio, un lavoro molto intimo e maturo che riprende le suggestioni dei due dischi precedenti e, in 10 tracce e poco più di 30 minuti di musica, ci conduce, anche con la collaborazione di Norah Jones che canta e suona il piano in “Cry no more” e “Love song”, attraverso una serie di pezzi tutti ben congegnati e in grado di trasmettere emozioni diverse.

Un disco piacevolissimo da ascoltare nei momenti di tranquillità e riflessione senza mai scadere nel crepuscolare. Oltre ai due pezzi già citati segnalo la title-track e “Try to make a fire burn again” per me la migliore, arrangiata con un delizioso finger-picking

mercoledì 2 aprile 2014

Recensioni al volo: Amy Ray, Bap Kennedy, Panic Room

AMY RAY - Goodnight tender (2014)
Per chi non lo sapesse, Amy Ray è una delle due Indigo Girls (insieme ad Emily Saliers) e questo è il suo sesto album da solista. Già il fatto che uno dei brani si intitoli “Duane Allman” (in cui le voci sono curate da Susan Tedeschi), o che tra gli ospiti vi siano Justin Vernon (= Bon Iver), Heather McEntire (Mount Moriah) è un notevole biglietto da visita. Un buon disco country, molto piacevole. Da ascoltare. Voto: ☆☆

BAP KENNEDY - Let’s start again (2014)
L’album del 2012 (“The tailor’s revenge”) del  musicista irlandese era stato senz’altro uno dei migliori di quell’anno; questo è il suo settimo lavoro e conferma l’enorme qualità dell’ex Energy Orchard. Rispetto al precedente questo disco suona sicuramente più “americano” non essendovi più traccia delle melodie celtiche del precedente. Piuttosto ci sentiamo Steve Earle, il Bob Dylan di Desire, le melodie tex-mex dei Los Lobos o il country di Lyle Lovett. Voto: ☆☆

PANIC ROOM - Incarnate (2014)

E’ sempre piacevole sentire un bel disco prog, genere musicale cui tutti (nessuno escluso!) siamo nella testa e nel cuore grati di avere allietato i nostri anni migliori. Tra i più ispirati e innovativi va menzionato sicuramente questo gruppo gallese i cui componenti si dividono tra questa stessa band ed altre di un certo rilievo nella scena prog contemporanea, quali i Mostly Autumn ed i Luna Rossa. La voce di Anne-Marie Helder ricorda quella di Christina Booth (Magenta), gallese come lei; le tastiere sono alla moda dei Supetramp, la musica è un bel prog contaminato da chitarre blues e riffs quasi jazzati. Voto: ☆☆

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