Molte
le (personali) attese nei confronti del secondo album del quartetto
(ora trio) pop britannico, dopo che l’esordio An
Awesome Wave era stato mio disco dell’anno
nel 2012. I ragazzi dimostrano ancora una classe superiore rispetto
alla media, pur rimescolando le carte rispetto a quanto fatto finora.
Già l’incipit (Intro,
appunto) del nuovo lavoro esprime originalità assoluta, mischiando
melodie pop a cappella con ritmi sincopati, dub e voce filtrata; ai
primi ascolti si solleva qualche perplessità, ma ne occorrono
parecchi perché l’album piaccia definitivamente, convincendo anche
se con qualche ombra. Sarà che ora manca l’effetto-sorpresa, ma
rispetto al debutto vi è meno immediatezza pop e coesione tra i
brani, nonostante la release
rappresenti un concept.
Certo quanto proposto è unico, per scrittura, soluzioni melodiche ed
arrangiamenti, rispetto a quanto si ascolta in giro. Che i tre
genietti stiano inventando il prog 2.0?
Aspettiamo il terzo disco per confermare i nostri nell’Olimpo, ma
già ora sono semidei.
Voto
Microby: 8
Preferite:
Nara, Bloodflood Pt. II, Intro
NICOLE
ATKINS (2014) Slow Phaser
Terzo
album per l’americana: bella presenza, voce potente e versatile,
scrittura brillante, territori battuti quelli di un pop
catchy, radiofonico. Non le manca nulla per
l’assalto alle classifiche. Forse due caratteristiche lo
impediscono (per ora): musicalmente, la varietà dei generi (sembra
uno strano ibrido tra Nelly Furtado,
le Bangles e Shivaree,
con richiami al pop-country più mainstream
anni ’70, vedi Linda Ronstadt e Karla Bonoff; ma non mancano cori
alla Jesus Christ Superstar
e un synth da Genesis ’80 post-Gabriel), che la rende poco
catalogabile, quindi di difficile scelta per le radio di settore.
Seconda: i testi non proprio
politically correct
(My god is a holy shit / my god is a son of bitch,
per dirne una…). Ma in auto si ascolta
che è un piacere, e la varietà, freschezza, orecchiabilità dei
brani stimola il repeat…
Voto
Microby: 7.6
Preferite:
Who Killed The
Moonlight, Cool People, The Worst Hangover
JOHN
HIATT (2014) Terms of My Surrender
Il
blues ha sempre fatto
parte del background del grande singer-songwriter
di Indianapolis, ma mai come in quest’ultimo album è stato l’humus
centrale del lavoro. I puristi delle 12 battute lo troveranno solo
marginale, ma chi segue Hiatt lo percepirà in ogni piega rock,
folk, gospel, in una forma rurale che ricorda
un gruppo di amici che si trova per suonare insieme. Spontaneità e
produzione asciutta rappresentano insieme il pregio ed il limite del
disco, che si fa apprezzare senza entusiasmare. In una discografia in
cui abbondano i lavori eccellenti, l’attuale appare prescindibile.
Voto
Microby: 7.2
Preferite:
Long Time Comin’,
Old People, Nothin’ I Love
1 commento:
ALT J - E' vero manca un po' la sorpresa del primo album ma anche questo è su ottimi livelli: ho trovato bellissime anche "Warm Foothills" (sarà perché è calda e piena di cuore, e mi ricorda Fleet Foxes o Bon Iver) e "Left Hand Free". Voto: ☆☆☆1/2
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