GARY CLARK JR. (2015) The Story
of Sonny Boy Slim
Jimmie
Vaughan ed Eric Clapton avevano detto di lui, incantati dalle sue
doti di chitarrista elettrico, che rappresentava il futuro del blues.
Per nulla interessato all’idea di diventare l’ennesima icona
della chitarra blues, e da sempre affascinato da tutta la cultura
musicale black, il texano di colore ha invece percorso la sua strada,
fatta di tradizione blues, soul, gospel
ma anche di modernità rock, R’n’B e
hip-hop. Chi non apprezza l’immobilità
delle 12 battute del blues canonico né la staticità ritmica
dell’hip-hop, chi non distingue il blues del delta del Mississippi
da quello di Chicago, chi ritiene troppo leccato il nu-soul e troppo
algido l’alt-R’n’B, chi trova noioso John Lee Hooker, troppo
nero Muddy Waters, troppo bianco John Mayall, troppo soul Robert
Cray, troppo rock Warren Haynes, troppo pop Eric Clapton, troppo
blues Buddy Guy, troppo sporco Jimi Hendrix, troppo pulito Mark
Knopfler, troppo mainstream Lenny Kravitz, troppo moderno Prince
troverà pane per i suoi denti. The Story of
Sonny Boy Slim è un buon disco, a tratti (la
prima parte) eccellente, ma non un capolavoro; Gary Clark Jr. ha già
fatto di meglio con Blak and Blu
(2012) e l’infuocato Live
dello scorso anno. Il texano non rappresenta in sé il futuro del
blues, ma certamente indica la strada perché il blues del futuro
possa vivere di contaminazioni aderendo al melting
pot culturale dell’attualità.
Voto
Microby: 7.6
Preferite:
Grinder,
The Healing, Hold On
LAST DAYS OF APRIL (2015) Sea
Of Clouds
La
band svedese, dopo un esordio post-hardcore ed un percorso tra emo ed
indie rock, arriva al 9° album a percorrere i territori
alt-country/americana
già esaltati da Jayhawks
e Wilco
(peraltro la voce di Karl Larsson richiama a volte quella di Jeff
Tweedy ed altre quella di Marc Olson), con qualche puntata di scuola
Byrds. Le
chitarre languide e calde la fanno da padrona, in particolare la
pedal steel guitar di Lars Taberman, ma anche gli squisiti quadretti
pop, dall’umore nostalgico, si fanno ricordare. Musica derivativa
americana nel continente sbagliato, ma nelle mani giuste per farsi
apprezzare.
Voto
Microby: 7.4
Preferite:
The
Thunder & The Storm, The Artist, Every Boy’s Dream
THE STAVES (2015) If I Was
Secondo
lavoro per le tre sorelle inglesi Emily, Jessica e Camilla
Staveley-Taylor, prodotto da Justin Vernon-Bon Iver dopo che
l’esordio aveva visto alla consolle un’altra leggenda, Glyn
Johns. Tanto investimento giustifica due buoni lavori di folk
revival inglese nel solco tracciato dalle
più dotate conterranee e coeve The
Unthanks e Smoke
Fairies, ma anche accenni alla Joni
Mitchell del Laurel Canyon come per
un’altra grande attuale della terra d’Albione, Laura Marling.
Quindi accordi di chitarra acustica, armonie vocali a tre, misurato
sostegno ritmico e delicati interventi di archi, fiati e tastiere;
contenute le aperture elettriche, segno tuttavia di una possibile
evoluzione verso Smoke Fairies e First Aid Kit. Buone, ma non ancora
delle fuoriclasse.
Voto
Microby: 7.4
Preferite:
Blood
I Bled, Black & White, Steady
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