DAVID
BOWIE (2016) Blackstar
Non
amo per vocazione fare il bastian contrario, ma recensendo l’ultimo
album di Bowie so di schierarmi contro la critica che scrive quasi
unanimemente di capolavoro. Che a mio parere non è per un motivo
molto semplice: non è innovativo. Né è migliore di altri lavori
(anche suoi) non rivoluzionari ma eccellenti nella scrittura,
produzione ed esecuzione. Pubblicato l’8 gennaio, giorno del suo
69° compleanno, riceve la spinta dai brani Sue
e ‘This A Pity She Was A Whore,
due (ottimi) scarti del precedente The Next
Day: come in quest’ultimo il suono è
saturo, la voce spesso riverberata, ma il tiro non è propriamente
rock. Certo non jazz, come sostenuto da molti: perché lo sia non
basta aver recentemente collaborato con l’orchestra jazz di Maria
Schneider ed essersi circondato per la realizzazione di Blackstar
di artisti di estrazione jazz (la resa tecnica è comunque
eccezionale: su tutti il sax di Donny McCaslin e la batteria di Mark
Guiliana). Il risultato finale, comunque da applauso, concettualmente
non è nulla che non abbiamo già ascoltato nelle differenti
declinazioni frippiane dei King Crimson,
o ancora prima in molte schegge krautrock
o della scena Canterbury,
o dopo in intuizioni dei Radiohead post-OK
Computer o nell’attività del David Sylvian
post-Japan. Il tutto filtrato dalla trilogia
berlinese, Lodger
e Sound+Vision
del camaleontico duca bianco. Unico, geniale nel tastare il polso
musicale del presente e nell’intuirne gli sviluppi futuri. Ma, come
sostenuto (troppo modestamente) da cotanta mente già nel 1972: “Sono
soltanto una collezione di idee di altre persone”.
Voto
Microby: 7.8
Preferite:
‘This
A Pity She Was A Whore, Lazarus, I Can’t Give Everything Away
RUBY
AMANFU (2015) Standing Still
Ha
finora raccolto meno successo di quanto meritasse la nativa ghanese
ma cresciuta a Nashville. Al terzo album dall’esordio nel 1999,
compreso un duo roots-soul Sam & Ruby nel 2005, nonostante sia
anche autrice si propone qui in veste di interprete di brani altrui
(strepitosa la versione di Not Dark Yet
di Bob Dylan), con un’anima soul che non lascia spazio alle
viscere. Nulla richiama la vicina Memphis e i suoni Stax/Motown,
abbiamo piuttosto un lavoro di sottrazione in termini di
arrangiamenti come se fosse una novella Roberta
Flack prodotta da Daniel Lanois con un
progetto simile a quello realizzato con i Neville Brothers negli ’80.
Timbro vocale morbido, ovattato, trattenuto nonostante la bella
estensione, delicato tappeto sonoro di piano elettrico, pedal steel
guitar e percussioni gentili per un soul-pop
moderno, equidistante dal soul classico e dal nu-soul, ma con le
caratteristiche dell’evergreen.
Voto
Microby: 7.7
Preferite:
Not
Dark Yet, Shadow On The Wall, Anyone Who Knows What Love Is
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