lunedì 11 gennaio 2016

DAVID BOWIE, RUBY AMANFU


DAVID BOWIE (2016) Blackstar


Non amo per vocazione fare il bastian contrario, ma recensendo l’ultimo album di Bowie so di schierarmi contro la critica che scrive quasi unanimemente di capolavoro. Che a mio parere non è per un motivo molto semplice: non è innovativo. Né è migliore di altri lavori (anche suoi) non rivoluzionari ma eccellenti nella scrittura, produzione ed esecuzione. Pubblicato l’8 gennaio, giorno del suo 69° compleanno, riceve la spinta dai brani Sue e ‘This A Pity She Was A Whore, due (ottimi) scarti del precedente The Next Day: come in quest’ultimo il suono è saturo, la voce spesso riverberata, ma il tiro non è propriamente rock. Certo non jazz, come sostenuto da molti: perché lo sia non basta aver recentemente collaborato con l’orchestra jazz di Maria Schneider ed essersi circondato per la realizzazione di Blackstar di artisti di estrazione jazz (la resa tecnica è comunque eccezionale: su tutti il sax di Donny McCaslin e la batteria di Mark Guiliana). Il risultato finale, comunque da applauso, concettualmente non è nulla che non abbiamo già ascoltato nelle differenti declinazioni frippiane dei King Crimson, o ancora prima in molte schegge krautrock o della scena Canterbury, o dopo in intuizioni dei Radiohead post-OK Computer o nell’attività del David Sylvian post-Japan. Il tutto filtrato dalla trilogia berlinese, Lodger e Sound+Vision del camaleontico duca bianco. Unico, geniale nel tastare il polso musicale del presente e nell’intuirne gli sviluppi futuri. Ma, come sostenuto (troppo modestamente) da cotanta mente già nel 1972: “Sono soltanto una collezione di idee di altre persone”.
Voto Microby: 7.8
Preferite: ‘This A Pity She Was A Whore, Lazarus, I Can’t Give Everything Away



RUBY AMANFU (2015) Standing Still



Ha finora raccolto meno successo di quanto meritasse la nativa ghanese ma cresciuta a Nashville. Al terzo album dall’esordio nel 1999, compreso un duo roots-soul Sam & Ruby nel 2005, nonostante sia anche autrice si propone qui in veste di interprete di brani altrui (strepitosa la versione di Not Dark Yet di Bob Dylan), con un’anima soul che non lascia spazio alle viscere. Nulla richiama la vicina Memphis e i suoni Stax/Motown, abbiamo piuttosto un lavoro di sottrazione in termini di arrangiamenti come se fosse una novella Roberta Flack prodotta da Daniel Lanois con un progetto simile a quello realizzato con i Neville Brothers negli ’80. Timbro vocale morbido, ovattato, trattenuto nonostante la bella estensione, delicato tappeto sonoro di piano elettrico, pedal steel guitar e percussioni gentili per un soul-pop moderno, equidistante dal soul classico e dal nu-soul, ma con le caratteristiche dell’evergreen.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Not Dark Yet, Shadow On The Wall, Anyone Who Knows What Love Is
 

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