MIKE POSNER
(2019) A Real Good Kid
La figura del singer-songwriter
è sempre stata un work in progress adattabile ai tempi:
dall’hobo cantastorie alla Woody Guthrie al solista country alla
Johnny Cash, via via attraverso il cantautore folk alla Bob Dylan, intimo alla Nick Drake,
rock alla Bruce Springsteen, soul alla Van Morrison, pop alla Elvis
Costello, punk alla Billy Bragg, rap alla Eminem. Per non parlare
degli chansonniers francofoni (e derivati) e di tutta la
cultura nera di storytellers di discendenza blues. Con gli
anni ‘90 e l’imporsi dell’hip hop il cantautore ibrido
black&white ha preso a frequentare costantemente le radio
mainstream e le classifiche di vendita. L’intimità ha lasciato il
posto alla coolness, il pudore alla sfrontatezza dei social
media. Il preambolo introduce alla figura di Mike Posner,
trentenne di Detroit già emerso nel 2010 nel mondo pop-rap col
tormentone “Cooler Than Me”, ora esempio illuminato (oltreoceano
la critica ne esalta l’album come si trattasse di un capolavoro) di
“urban singer-songwriter”, dove “urban” non sta
per metropolitano ma si riferisce alla “urban culture”, che per
fermarci solo all’aspetto musicale si nutre di rap, hip hop, trap e
dintorni. Posner ha scritto ed interpretato un bel disco –va detto
subito-- con l’intento dichiarato (in un primo brano di
introduzione parlata in cui non lascia nulla al supposto), e talvolta
fuck-urlato, di elaborare il lutto della morte del padre (il quale,
tanto per essere altrettanto social, in un cameo registrato
prima di morire chiede al figlio “you gonna put that into a
song?”). Lontani mille miglia dalla feroce confessionalità di
Leonard Cohen o dalla sofferenza privata dei Nick (Drake e Cave),
l’album propone la sofferenza al tempo dei “like” e dei
funerali mediatici, e si fa apprezzare se si fa lo sforzo
antroposociologico di non fare confronti con il modo di affrontare il
dolore psichico da parte di chi ora ha 40-50-60 anni, mentre sarà
facile l’approccio empatico da parte di chi è nato dal ‘90 in
poi. Ad un ascolto senza pregiudizi occorre ammettere che, accanto a
testi di tutto rispetto nella totale trasparenza, le linee melodiche
sono piacevolmente appiccicose, gli arrangiamenti semplici ma
efficaci, la drum machine delicata ed i beats sintetici più umani
che metronomici, e che il pop alla Ed Sheeran va a cercare più il
pizzicato soul del Paul Weller acustico che il ritmo hip hop alla
Kendrick Lamar, o se vogliamo abbiamo Bon Iver che va a cercare Frank
Ocean. Insomma una ricetta musicale di tendenza che fotografa però
con efficacia la realtà del millennio: talmente esplicito da
spazzare via la bellezza del mistero, per chi ama intuire anzichè
constatare, e tuttavia rassicurante nell’esprimere sentimenti dati
in pasto a tutti. Per new millennials ma anche per curiosi senza
pregiudizi. “The day my daddy died, i became a man”: ora vediamo
cosa farà Mike Posner da grande.
Voto Microby:
7.8
Preferite:
Wide Open, Move On, Perfect
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