mercoledì 30 gennaio 2019

MIKE POSNER


MIKE POSNER (2019) A Real Good Kid



La figura del singer-songwriter è sempre stata un work in progress adattabile ai tempi: dall’hobo cantastorie alla Woody Guthrie al solista country alla Johnny Cash, via via attraverso il cantautore folk alla Bob Dylan, intimo alla Nick Drake, rock alla Bruce Springsteen, soul alla Van Morrison, pop alla Elvis Costello, punk alla Billy Bragg, rap alla Eminem. Per non parlare degli chansonniers francofoni (e derivati) e di tutta la cultura nera di storytellers di discendenza blues. Con gli anni ‘90 e l’imporsi dell’hip hop il cantautore ibrido black&white ha preso a frequentare costantemente le radio mainstream e le classifiche di vendita. L’intimità ha lasciato il posto alla coolness, il pudore alla sfrontatezza dei social media. Il preambolo introduce alla figura di Mike Posner, trentenne di Detroit già emerso nel 2010 nel mondo pop-rap col tormentone “Cooler Than Me”, ora esempio illuminato (oltreoceano la critica ne esalta l’album come si trattasse di un capolavoro) di “urban singer-songwriter”, dove “urban” non sta per metropolitano ma si riferisce alla “urban culture”, che per fermarci solo all’aspetto musicale si nutre di rap, hip hop, trap e dintorni. Posner ha scritto ed interpretato un bel disco –va detto subito-- con l’intento dichiarato (in un primo brano di introduzione parlata in cui non lascia nulla al supposto), e talvolta fuck-urlato, di elaborare il lutto della morte del padre (il quale, tanto per essere altrettanto social, in un cameo registrato prima di morire chiede al figlio “you gonna put that into a song?”). Lontani mille miglia dalla feroce confessionalità di Leonard Cohen o dalla sofferenza privata dei Nick (Drake e Cave), l’album propone la sofferenza al tempo dei “like” e dei funerali mediatici, e si fa apprezzare se si fa lo sforzo antroposociologico di non fare confronti con il modo di affrontare il dolore psichico da parte di chi ora ha 40-50-60 anni, mentre sarà facile l’approccio empatico da parte di chi è nato dal ‘90 in poi. Ad un ascolto senza pregiudizi occorre ammettere che, accanto a testi di tutto rispetto nella totale trasparenza, le linee melodiche sono piacevolmente appiccicose, gli arrangiamenti semplici ma efficaci, la drum machine delicata ed i beats sintetici più umani che metronomici, e che il pop alla Ed Sheeran va a cercare più il pizzicato soul del Paul Weller acustico che il ritmo hip hop alla Kendrick Lamar, o se vogliamo abbiamo Bon Iver che va a cercare Frank Ocean. Insomma una ricetta musicale di tendenza che fotografa però con efficacia la realtà del millennio: talmente esplicito da spazzare via la bellezza del mistero, per chi ama intuire anzichè constatare, e tuttavia rassicurante nell’esprimere sentimenti dati in pasto a tutti. Per new millennials ma anche per curiosi senza pregiudizi. “The day my daddy died, i became a man”: ora vediamo cosa farà Mike Posner da grande.

Voto Microby: 7.8

Preferite: Wide Open, Move On, Perfect

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