lunedì 30 marzo 2020

STEPHEN MALKMUS


STEPHEN MALKMUS (2020) Traditional Techniques

Pur riconoscendo la fondamentale importanza storica dei Pavement (“the most influential and distinctive band in the american underground in the 90’s”, AllMusic Guide; “da inconsapevoli pionieri dell’estetica Lo-Fi a semidei del cosmo Indie Rock, i californiani Pavement hanno definito gli anni 90 tanto quanto Nirvana, Pearl Jam e Oasis”, Il dizionario del Pop-Rock Zanichelli), seminali propulsori dell’indie-rock per i decenni a venire, non ho mai amato la band di Stockton, CA. Troppo asimmetrici, sghembi, distonici rispetto ai miei gusti. Per gli stessi motivi non ho mai seguìto con grande interesse le evoluzioni soliste del loro fondatore e frontman, Stephen Malkmus, altrettanto sfuggente ad ogni tipo di catalogazione. Ma dopo numerosi dischi per lo più apprezzati dalla critica, e mai di successo su larga scala, in cui l’artista ha non solo ampliato il concetto di indie rock, ma anche esplorato i territori limitrofi (la psichedelia, il garage sound, il british folk, il prog più urticante dei ’70, il guitar pop più scorticato), mi trovo ora a stupirmi per la bellezza di un disco che corre solo superficialmente fuori dal seminato del nostro. La passione del momento per Stephen Joseph Malkmus è lo psych-folk prevalentemente acustico di Traditional Techniques, che rimanda allo psych-prog-folk british dei ’70, leggi Fairport Convention più acidi, The Incredible String Band meno eterea e Comus meno prog, intersecato con l’acid-folk west coast dei ’60, con i Velvet Underground lisergici del primo album e con lo spirito hippie tramandato fino al contemporaneo Devendra Banhart. La costruzione melodica è solo apparentemente familiare, da tutti insieme su una spiaggia attorno al fuoco; nella realtà i variegati intrecci di corde e plettri sono ben studiati (Matt Sweeney alle chitarre), ed intorno alla loro trama si sbizzarriscono flauti da inizio seventies e chitarre elettriche acide come solo Richard Thompson poteva. Pur non inventando nulla di nuovo (lo trovo l’unico limite), Traditional Techniques è un lavoro ispiratissimo, a tratti geniale, tuttavia non di facile ascolto per chi è cresciuto musicalmente nei ’70, quindi probabilmente urticante per chi in adolescenza si pasceva di synth-pop, e forse nemmeno concepibile per i millennials. A maggior ragione, nel mio ruolo di non-tifoso del musicista californiano, gli riconosco il grande merito sia del coraggio che della realizzazione di un album così controcorrente e fuori mercato, ed insieme così riuscito.
Voto Microby: 8.4    

Preferite: Xian Man, Shadowbanned, The Greatest Own In Legal History

domenica 29 marzo 2020

Recensioni blues-rock: Robert Cray - That's What I Heard; Sonny Landreth - Blacktop Run

ROBERT CRAY - That’s What I Heard (2020)

A 40 anni e 20 album dal suo esordio, in quei primi ’80 che furono un periodo di grande recupero del soul-blues (era il periodo in cui sugli schermi veniva proiettato il film dei Blues Brothers), a RC sembra che gli anni non passino mai. Il suo stile è intriso della tradizione di Albert Collins e Curtis Mayfield ma è tutt’altro che retrò, dimostrando come il blues migliore e più innovativo debba essere aperto a contaminazioni R&B, gospel e funky. 
Nel complesso l’album rappresenta un altro capitolo straordinario della lunga carriera di Robert Cray: a 66 anni non è più il nuovo ragazzo sulla scena ma il suo vigore musicale è sempre lo stesso. Chissà se Eric Clapton, suo grande amico, se lo porterà con lui nel tour italiano come spesso succedeva in passato (a proposito, i concerti previsti per giugno 2020 sono stati rimandati a maggio 2021). Da ascoltare: Anything You Want, Hot. Voto:


SONNY LANDRETH - Blacktop Run (2020) 


Icona assoluta della chitarra, Sonny Landreth ha anche sempre avuto il pregio di mantenere costantemente un alto livello della sua discografia: Bound By The Blues, Outward Bound, South Of I-10, Levee Town, Anything You Wanted ed il doppio Recorded Live In Lafayette sono autentici gioielli blues-rock, caratterizzati dal perfetto mix acustico ed elettrico. Dopo due nomination ai Grammy e numerose partecipazioni al Crossroads Music Festival di Eric Clapton, SL in questo nuovo disco non smentisce la sua ispirazione, brillante connubio di blues acustico e rock ritmico ed elettrico, improntato su ballate della sua Luisiana, patria del suo imprinting musicale. Ma quello che più lo caratterizza è la sua chitarra, immediatamente identificabile per il tocco grintoso e la tecnica sopraffina, così composte da sembrare semplici e perfettamente lineari. Da ascoltare: Blacktop Run. Voto: 1/2 

mercoledì 25 marzo 2020

THE THIRD MIND


THE THIRD MIND (2020) The Third Mind

Primo avviso ai naviganti: chi nell’attuale progetto realizzato da Dave Alvin si aspetta la consueta esplosiva miscela di rock-country-blues-roots cui ci ha (ben) abituato l’ex Blasters, se lo dimentichi. Ma se ne faccia (secondo avviso) una splendida ragione, perché l’album omonimo dei The Third Mind non è un capolavoro solo perché composto di cover e soprattutto collocato mezzo secolo dopo l’epoca d’oro della musica realizzata, quella psichedelica della libera improvvisazione su canovacci vuoi folk vuoi blues della generazione hippie della seconda metà dei ’60. Lo spunto ad Alvin viene dalla biografia di Miles Davis, dalla quale apprende che il mitico jazzista aveva composto, editato e pubblicato alcuni capolavori “raccogliendo grandi musicisti in uno studio, scegliendo una chiave ed un groove e poi registrando tutto dal vivo per diversi giorni”. Da lì l’idea di realizzare un album con la stessa metodica. L’accolita di grandi musicisti, per uno del suo spessore, è cosa semplice, e la genesi di un supergruppo underground (non nomi altisonanti, ma turnisti che chiunque vorrebbe in studio) è cosa fatta: la band è composta da Dave Alvin (chitarra e voce), David Immergluck (chitarre, fantastico), Michael Jerome (batteria), Victor Krummenacher (basso), cui si affiancano come ospiti Jesse Sykes, D.J. Bonebrake e Jack Rudy. La scaletta non può che ispirarsi al periodo di massima libertà della musica rock, quello del power-flower. Niente jazz né Miles Davis, eccetto l’ispirazione iniziale. Si parte con una sognante Journey In Satchidananda di Alice Coltrane, si prosegue con lo splendido The Dolphins di Fred Neil (Alvin al canto), seguono Claudia Cardinale (strumentale in orbita Peter Green, unico brano composto dalla band), Morning Dew (autografato dalla canadese Bonnie Dobson ma immortalato dai Grateful Dead e centinaia di altri, e qui cantato da Jesse Sykes), una spettacolare versione di East-West (in origine della Paul Butterfield Blues Band), ed una chiusura di impronta psych-hard rock (Reverberation, di Rocky Erykson). Brani lunghi, dilatati, elettrici, atmosfera lisergica, musicisti in stato di grazia, consapevolmente indifferenti al fatto di proporre musica al di fuori dei binari correnti. The Third Mind è uno di quei dischi fuori tempo nonostante non siano fuori tempo massimo e si riferiscano ad un tempo ben preciso, che probabilmente rimarrà isolato perchè fotografa un hic et nunc temporale, umano ed artistico di grazia raramente recidivante. Se ne stiano alla larga gli ascoltatori per i quali la musica è cominciata negli anni ’80, o se ne facciano un trip pensando a quando i loro genitori avevano i capelli lunghi.
Voto Microby: 8.5   

Preferite: East-West, Morning Dew, Claudia Cardinale

giovedì 19 marzo 2020

DUSTBOWL REVIVAL


DUSTBOWL REVIVAL (2020) Is It You, Is It Me

Partita nel 2007 come "string and brass band" da Venice, California, la larga formazione (fino a 15 elementi, attualmente 8) capitanata da Zach Lupetin ha da sempre egregiamente combinato tutti i suoni delle radici americane, da quelle bianche di folk, bluegrass e country old-time a quelle nere del jazz tra le guerre e lo swing successivo. Il risultato è sempre stato allegro e colorato come nelle feste patronali, con gran trionfo di strumenti acustici tradizionali (chitarra, banjo, mandolino, accordeon, violino, clarinetto, tromba, trombone, piano, basso ed un'estrosa batteria) guidati dalle voci di Lupetin e della controparte femminile Liz Beebe. Col tempo (il presente è il quinto album) tra gli ingredienti ha preso più consistenza un afflato pop-soul che ha reso più commestibile (più che commerciale in senso mainstream) la loro proposta. Che attualmente, anche grazie alla produzione di Sam Kassirer (Josh Ritter, Lake Street Dive), si allinea alla musica popolare moderna ma dalle radici antiche di cui sono alfieri Zach (sarà un caso?) Condon/Beirut ed Andrew Bird, ed ancora prima sui due versanti dell'oceano Dexys Midnight Runners e Paul Simon, fino ai contemporanei Hurray For The Riff Raff e Lake Street Dive ed al pop fantasmagorico dei primi Fanfarlo. Apparentemente semplice, l'album è invece un intricato dedalo di suoni ben amalgamati che stupisce al primo ascolto ma conquista definitivamente con i repetita. Se vi piacciono i numi tutelari di riferimento, non perdetevi la ricchissima, scoppiettante, allegra e variopinta proposta dei Dustbowl Revival.  
Voto Microby: 8.2    
Preferite: Dreaming, Enemy, Mirror

sabato 14 marzo 2020

King Krule - Man alive


Punk jazz, jazz fusion, darkwave, post-punk, hip hop, trip hop,
jazz rap, dub, sono solo alcune delle etichette che sono state affibbiate alla musica di King Krule, al secolo Archy Ivan Marshall, giovanissimo londinese di Southwark, senz'altro la più interessante novità degli ultimi anni nel panorama musicale contemporaneo. Ciò non fosse altro perché è uno di quelli che riesce a sedere sui giganti del passato e allo stesso tempo creare un'impronta stilistica e creativa tutta propria e avanti anni luce rispetto agli altri musicisti del suo tempo.
Man alive è il suo quarto album, il terzo col nome d'arte di KK, e arriva dopo l'acclamato e pluripremiato The Ooz, un lavoro che esprimeva in modo totalmente istintivo una poetica che lascia trasparire senza troppi fronzoli l'infanzia e adolescenza borderline, caratterizzate da auto-isolamento, conflittualità col padre e diverse sedute dallo psichiatra per attestare la sua salute intellettiva. Man alive, pur mantenendo la stessa chiave introspettiva, è invece un lavoro di maturità, ragionato ma non per questo meno appassionato, composto con sonorità che, partendo da citazioni esplicite a icone degli anni '60 e '70, spaziano da David Bowie a Caetano Veloso, sempre comunque disciolte in chiave punk jazz... o jazz fusion?... o darkwave?... In ogni caso uno di quei lavori che più lo senti e più ci entri dentro, più ne gusti la profondità e la complessità, e più te lo godi.


 

AGNES OBEL


AGNES OBEL (2020) Myopia


Chi ama il chamber-pop avrà di che rallegrarsi: è tornata la regina del genere. Non particolarmente prolifica (l’attuale è il quarto album in un decennio), la danese non ha mai spostato il baricentro musicale da melodie a seconda dei dischi più pop (nell’accezione 4AD del termine, quindi onirica, misteriosa, austera, colta e non certo pop-olare) o più cameristiche classicheggianti (come accade in Myopia, non a caso pubblicato dalla Deutsche Grammophon). Gli strumenti utilizzati sono al solito quelli consueti della musica da camera (viola, violoncello, violino, pianoforte), con delicati contrappunti elettronici e percussivi, e l’eterea voce della Obel quale strumento aggiunto. Tre brani solo strumentali intersecano sette composizioni che evocano la Enya meno commerciale, i Dead Can Dance più ariosi, la Penguin Cafè più raccolta, la Kate Bush più intima ed il Michael Nyman più commestibile, per un lavoro che ancora una volta soddisfa i palati più fini (ebbene sì, è musica di nicchia adatta all’intimità ed alla meditazione, ed assai poco alle corse in auto) tanto quanto è lontano dal mainstream radiofonico imperante. L’ennesimo centro di un’artista defilata ma preziosa.

Voto Microby: 7.8    

Preferite: Broken Sleep, Island of Doom, Myopia

martedì 3 marzo 2020

NATHANIEL RATELIFF


NATHANIEL RATELIFF (2020) And It’s Still Alright

Non fosse che quello di Nathaniel Rateliff è un ritorno al cantautorato mentre quello di Marcus King è un esordio da solista, dopo che entrambi hanno raccolto il plauso della critica e soddisfazioni commerciali esibendosi con la propria band, il percorso dei due artisti sarebbe paragonabile: entrambi additati come il presente ed il futuro del soul tradizionale (southern-soul per il chitarrista elettrico di Greenville, South Carolina, country-soul per il musicista di Denver, Colorado), i due fanno invece un passo chi di lato (King, dedicatosi da solista ad un buon album di retro-soul, solo troppo pulito fino a perdere di originalità) chi indietro (Rateliff, che ritorna parzialmente al singing-songwriting acustico degli esordi in proprio). Senza i The Night Sweats, che coloravano di Stax, Otis Redding e Van Morrison le canzoni di Nathaniel Rateliff, scrittura ed esecuzione attuali orientano verso un outlaw-country agrodolce quando non amaro, con riflessioni alla Johnny Cash ma anche aperture bizzarre alla Micah P. Hinson, e solo screziature soul. Dichiaratamente figlio dell’improvvisa perdita dell’amico produttore Richard Swift (tramite con The Night Sweats ed artefice del suono con la band) e del tumultuoso divorzio dalla moglie, scritto con l’intento di rappresentare un mondo personale ed intimo alla Harry Nilsson (ed in tal senso fuori rotta, chè mai il cantautore dei ’70 viene evocato all’ascolto del disco), And It’s Still Alright potrà anche essere servito a Nathaniel Rateliff a guisa di psicoterapia individuale, ma certo seppur apprezzabile nell’intento non è lavoro per cui spellarsi le mani. Per lui e per Marcus King: tornate con le rispettive bands, please!
Voto Microby: 7.2

Preferite: Mavis, All or Nothing, You Need Me

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