Pur
riconoscendo la fondamentale importanza storica dei Pavement
(“the most influential and distinctive band in the american
underground in the 90’s”, AllMusic Guide; “da inconsapevoli
pionieri dell’estetica Lo-Fi a semidei del cosmo Indie Rock, i
californiani Pavement hanno definito gli anni 90 tanto quanto
Nirvana, Pearl Jam e Oasis”, Il dizionario del Pop-Rock
Zanichelli), seminali propulsori dell’indie-rock per i decenni a
venire, non ho mai amato la band di Stockton, CA. Troppo asimmetrici,
sghembi, distonici rispetto ai miei gusti. Per gli stessi motivi non
ho mai seguìto con grande interesse le evoluzioni soliste del loro
fondatore e frontman, Stephen Malkmus, altrettanto sfuggente ad ogni
tipo di catalogazione. Ma dopo numerosi dischi per lo più apprezzati
dalla critica, e mai di successo su larga scala, in cui l’artista
ha non solo ampliato il concetto di indie rock, ma anche esplorato i
territori limitrofi (la psichedelia, il garage sound, il british
folk, il prog più urticante dei ’70, il guitar pop più
scorticato), mi trovo ora a stupirmi per la bellezza di un disco che
corre solo superficialmente fuori dal seminato del nostro. La
passione del momento per Stephen Joseph Malkmus è lo psych-folk
prevalentemente acustico di Traditional
Techniques, che
rimanda allo psych-prog-folk
british dei ’70,
leggi Fairport
Convention più
acidi, The
Incredible String Band
meno eterea e Comus
meno prog, intersecato con l’acid-folk west coast dei ’60, con i
Velvet
Underground
lisergici del primo album e con lo spirito hippie
tramandato fino al contemporaneo Devendra
Banhart. La
costruzione melodica è solo apparentemente familiare, da tutti
insieme su una spiaggia attorno al fuoco; nella realtà i variegati
intrecci di corde e plettri sono ben studiati (Matt Sweeney alle
chitarre), ed intorno alla loro trama si sbizzarriscono flauti da
inizio seventies
e chitarre elettriche acide come solo Richard Thompson poteva. Pur
non inventando nulla di nuovo (lo trovo l’unico limite),
Traditional
Techniques è un
lavoro ispiratissimo, a tratti geniale, tuttavia non di facile
ascolto per chi è cresciuto musicalmente nei ’70, quindi
probabilmente urticante per chi in adolescenza si pasceva di
synth-pop, e forse nemmeno concepibile per i millennials.
A maggior ragione, nel mio ruolo di non-tifoso del musicista
californiano, gli riconosco il grande merito sia del coraggio che
della realizzazione di un album così controcorrente e fuori mercato,
ed insieme così riuscito.
Voto
Microby: 8.4
Preferite:
Xian
Man, Shadowbanned, The Greatest Own In Legal History
A 40 anni e 20 album dal suo esordio, in quei primi ’80 che furono un periodo di grande recupero del soul-blues (era il periodo in cui sugli schermi veniva proiettato il film dei Blues Brothers), a RC sembra che gli anni non passino mai. Il suo stile è intriso della tradizione di Albert Collins e Curtis Mayfield ma è tutt’altro che retrò, dimostrando come il blues migliore e più innovativo debba essere aperto a contaminazioni R&B, gospel e funky.
Nel complesso l’album rappresenta un altro capitolo straordinario della lunga carriera di Robert Cray: a 66 anni non è più il nuovo ragazzo sulla scena ma il suo vigore musicale è sempre lo stesso. Chissà se Eric Clapton, suo grande amico, se lo porterà con lui nel tour italiano come spesso succedeva in passato (a proposito, i concerti previsti per giugno 2020 sono stati rimandati a maggio 2021). Da ascoltare: Anything You Want, Hot. Voto: ☆☆☆☆
SONNY LANDRETH - Blacktop Run (2020)
Icona assoluta della chitarra, Sonny Landreth ha anche sempre avuto il pregio di mantenere costantemente un alto livello della sua discografia: Bound By The Blues, Outward Bound, South Of I-10, Levee Town, Anything You Wanted ed il doppio Recorded Live In Lafayette sono autentici gioielli blues-rock, caratterizzati dal perfetto mix acustico ed elettrico. Dopo due nomination ai Grammy e numerose partecipazioni al Crossroads Music Festival di Eric Clapton, SL in questo nuovo disco non smentisce la sua ispirazione, brillante connubio di blues acustico e rock ritmico ed elettrico, improntato su ballate della sua Luisiana, patria del suo imprinting musicale. Ma quello che più lo caratterizza è la sua chitarra, immediatamente identificabile per il tocco grintoso e la tecnica sopraffina, così composte da sembrare semplici e perfettamente lineari. Da ascoltare: Blacktop Run. Voto: ☆☆☆1/2
Primo avviso ai naviganti: chi
nell’attuale progetto realizzato da Dave
Alvin si
aspetta la consueta esplosiva miscela di rock-country-blues-roots cui
ci ha (ben) abituato l’ex Blasters, se lo dimentichi. Ma se ne
faccia (secondo avviso) una splendida ragione, perché l’album
omonimo dei The Third Mind non è un capolavoro solo perché composto
di cover e soprattutto collocato mezzo secolo dopo l’epoca d’oro
della musica realizzata, quella psichedelica
della libera improvvisazione su canovacci vuoi folk vuoi blues della
generazione hippie della seconda metà dei ’60. Lo spunto ad Alvin
viene dalla biografia di Miles Davis, dalla quale apprende che il
mitico jazzista aveva composto, editato e pubblicato alcuni
capolavori “raccogliendo grandi musicisti in uno studio, scegliendo
una chiave ed un groove
e poi registrando tutto dal vivo per diversi giorni”. Da lì l’idea
di realizzare un album con la stessa metodica. L’accolita di grandi
musicisti, per uno del suo spessore, è cosa semplice, e la genesi di
un supergruppo underground (non nomi altisonanti, ma turnisti che
chiunque vorrebbe in studio) è cosa fatta: la band è composta da
Dave Alvin (chitarra e voce), David
Immergluck
(chitarre, fantastico), Michael Jerome (batteria), Victor
Krummenacher (basso), cui si affiancano come ospiti Jesse Sykes,
D.J. Bonebrake e Jack Rudy. La scaletta non può che ispirarsi al
periodo di massima libertà della musica rock, quello del
power-flower.
Niente jazz né Miles Davis, eccetto l’ispirazione iniziale. Si
parte con una sognante Journey
In Satchidananda di
Alice Coltrane, si prosegue con lo splendido The
Dolphins di Fred
Neil (Alvin al canto), seguono Claudia
Cardinale
(strumentale in orbita Peter
Green, unico
brano composto dalla band), Morning
Dew (autografato
dalla canadese Bonnie Dobson ma immortalato dai Grateful
Dead e
centinaia di altri, e qui cantato da Jesse Sykes), una spettacolare
versione di East-West
(in origine della Paul
Butterfield Blues Band),
ed una chiusura di impronta psych-hard rock (Reverberation,
di Rocky Erykson). Brani lunghi, dilatati, elettrici, atmosfera
lisergica, musicisti in stato di grazia, consapevolmente indifferenti
al fatto di proporre musica al di fuori dei binari correnti. The
Third Mind è uno
di quei dischi fuori tempo nonostante non siano fuori tempo massimo e
si riferiscano ad un tempo ben preciso, che probabilmente rimarrà
isolato perchè fotografa un hic
et nunc temporale,
umano ed artistico di grazia raramente recidivante. Se ne stiano alla
larga gli ascoltatori per i quali la musica è cominciata negli anni
’80, o se ne facciano un trip
pensando a quando i loro genitori avevano i capelli lunghi.
Partita nel 2007 come "string
and brass band"
da Venice, California, la larga formazione (fino a 15 elementi,
attualmente 8) capitanata da Zach
Lupetin ha da
sempre egregiamente combinato tutti i suoni delle radici americane,
da quelle bianche di folk,
bluegrass e
country old-time
a quelle nere del jazz
tra le guerre e lo swing
successivo. Il risultato è sempre stato allegro e colorato come
nelle feste patronali, con gran trionfo di strumenti acustici
tradizionali (chitarra, banjo, mandolino, accordeon, violino,
clarinetto, tromba, trombone, piano, basso ed un'estrosa batteria)
guidati dalle voci di Lupetin e della controparte femminile Liz
Beebe. Col
tempo (il presente è il quinto album) tra gli ingredienti ha preso
più consistenza un afflato pop-soul
che ha reso più commestibile (più che commerciale in senso
mainstream)
la loro proposta. Che attualmente, anche grazie alla produzione di
Sam Kassirer (Josh Ritter, Lake Street Dive), si allinea alla musica
popolare moderna ma dalle radici antiche di cui sono alfieri Zach
(sarà un caso?) Condon/Beirut
ed Andrew Bird,
ed ancora prima sui due versanti dell'oceano Dexys Midnight Runners e
Paul Simon, fino ai contemporanei Hurray
For The Riff Raff
e Lake Street
Dive ed al pop
fantasmagorico dei primiFanfarlo.
Apparentemente semplice, l'album è invece un intricato dedalo di
suoni ben amalgamati che stupisce al primo ascolto ma conquista
definitivamente con i repetita.
Se vi piacciono i numi tutelari di riferimento, non perdetevi
la ricchissima, scoppiettante, allegra e variopinta proposta dei
Dustbowl Revival.
Punk jazz, jazz fusion, darkwave, post-punk, hip hop, trip hop,
jazz rap, dub, sono solo alcune delle etichette che sono state affibbiate alla musica di King Krule, al secolo Archy Ivan Marshall, giovanissimo londinese di Southwark, senz'altro la più interessante novità degli ultimi anni nel panorama musicale contemporaneo. Ciò non fosse altro perché è uno di quelli che riesce a sedere sui giganti del passato e allo stesso tempo creare un'impronta stilistica e creativa tutta propria e avanti anni luce rispetto agli altri musicisti del suo tempo.
Man alive è il suo quarto album, il terzo col nome d'arte di KK, e arriva dopo l'acclamato e pluripremiato The Ooz, un lavoro che esprimeva in modo totalmente istintivo una poetica che lascia trasparire senza troppi fronzoli l'infanzia e adolescenza borderline, caratterizzate da auto-isolamento, conflittualità col padre e diverse sedute dallo psichiatra per attestare la sua salute intellettiva. Man alive, pur mantenendo la stessa chiave introspettiva, è invece un lavoro di maturità, ragionato ma non per questo meno appassionato, composto con sonorità che, partendo da citazioni esplicite a icone degli anni '60 e '70, spaziano da David Bowie a Caetano Veloso, sempre comunque disciolte in chiave punk jazz... o jazz fusion?... o darkwave?... In ogni caso uno di quei lavori che più lo senti e più ci entri dentro, più ne gusti la profondità e la complessità, e più te lo godi.
Chi ama il chamber-pop avrà di che rallegrarsi:
è tornata la regina del genere. Non particolarmente prolifica (l’attuale è il
quarto album in un decennio), la danese non ha mai spostato il baricentro
musicale da melodie a seconda dei dischi più pop (nell’accezione 4AD del
termine, quindi onirica, misteriosa, austera, colta e non certo pop-olare) o
più cameristiche classicheggianti (come accade in Myopia, non a caso pubblicato dalla Deutsche Grammophon). Gli
strumenti utilizzati sono al solito quelli consueti della musica da camera
(viola, violoncello, violino, pianoforte), con delicati contrappunti
elettronici e percussivi, e l’eterea voce della Obel quale strumento aggiunto.
Tre brani solo strumentali intersecano sette composizioni che evocano la Enya
meno commerciale, i Dead Can Dance più ariosi, la Penguin Cafè più raccolta, la
Kate Bush più intima ed il Michael Nyman più commestibile, per un lavoro che
ancora una volta soddisfa i palati più fini (ebbene sì, è musica di nicchia adatta
all’intimità ed alla meditazione, ed assai poco alle corse in auto) tanto
quanto è lontano dal mainstream radiofonico imperante. L’ennesimo centro di
un’artista defilata ma preziosa.
Non fosse che quello di
Nathaniel Rateliff è un ritorno al cantautorato mentre quello di
Marcus King è un esordio da solista, dopo che entrambi hanno raccolto il plauso
della critica e soddisfazioni commerciali esibendosi con la propria
band, il percorso dei due artisti sarebbe paragonabile: entrambi
additati come il presente ed il futuro del soul tradizionale
(southern-soul per il chitarrista elettrico di Greenville, South
Carolina, country-soul per il musicista di Denver, Colorado), i due fanno
invece un passo chi di lato (King, dedicatosi da solista ad un buon
album di retro-soul, solo troppo pulito fino a perdere di
originalità) chi indietro (Rateliff, che ritorna parzialmente al
singing-songwriting acustico degli esordi in proprio). Senza i The
Night Sweats, che
coloravano di Stax, Otis Redding e Van Morrison le canzoni di Nathaniel Rateliff, scrittura ed esecuzione attuali orientano verso un
outlaw-country
agrodolce quando non amaro, con riflessioni alla Johnny
Cash ma anche
aperture bizzarre alla Micah
P. Hinson, e
solo screziature soul. Dichiaratamente figlio dell’improvvisa
perdita dell’amico produttore Richard Swift (tramite con The Night
Sweats ed artefice del suono con la band) e del tumultuoso divorzio
dalla moglie, scritto con l’intento di rappresentare un mondo
personale ed intimo alla Harry Nilsson (ed in tal senso fuori rotta,
chè mai il cantautore dei ’70 viene evocato all’ascolto del
disco), And It’s
Still Alright
potrà anche essere servito a Nathaniel Rateliff a guisa di
psicoterapia individuale, ma certo seppur apprezzabile nell’intento
non è lavoro per cui spellarsi le mani. Per lui e per Marcus King:
tornate con le rispettive bands, please!