STEPHEN
MALKMUS (2020) Traditional Techniques
Pur
riconoscendo la fondamentale importanza storica dei Pavement
(“the most influential and distinctive band in the american
underground in the 90’s”, AllMusic Guide; “da inconsapevoli
pionieri dell’estetica Lo-Fi a semidei del cosmo Indie Rock, i
californiani Pavement hanno definito gli anni 90 tanto quanto
Nirvana, Pearl Jam e Oasis”, Il dizionario del Pop-Rock
Zanichelli), seminali propulsori dell’indie-rock per i decenni a
venire, non ho mai amato la band di Stockton, CA. Troppo asimmetrici,
sghembi, distonici rispetto ai miei gusti. Per gli stessi motivi non
ho mai seguìto con grande interesse le evoluzioni soliste del loro
fondatore e frontman, Stephen Malkmus, altrettanto sfuggente ad ogni
tipo di catalogazione. Ma dopo numerosi dischi per lo più apprezzati
dalla critica, e mai di successo su larga scala, in cui l’artista
ha non solo ampliato il concetto di indie rock, ma anche esplorato i
territori limitrofi (la psichedelia, il garage sound, il british
folk, il prog più urticante dei ’70, il guitar pop più
scorticato), mi trovo ora a stupirmi per la bellezza di un disco che
corre solo superficialmente fuori dal seminato del nostro. La
passione del momento per Stephen Joseph Malkmus è lo psych-folk
prevalentemente acustico di Traditional
Techniques, che
rimanda allo psych-prog-folk
british dei ’70,
leggi Fairport
Convention più
acidi, The
Incredible String Band
meno eterea e Comus
meno prog, intersecato con l’acid-folk west coast dei ’60, con i
Velvet
Underground
lisergici del primo album e con lo spirito hippie
tramandato fino al contemporaneo Devendra
Banhart. La
costruzione melodica è solo apparentemente familiare, da tutti
insieme su una spiaggia attorno al fuoco; nella realtà i variegati
intrecci di corde e plettri sono ben studiati (Matt Sweeney alle
chitarre), ed intorno alla loro trama si sbizzarriscono flauti da
inizio seventies
e chitarre elettriche acide come solo Richard Thompson poteva. Pur
non inventando nulla di nuovo (lo trovo l’unico limite),
Traditional
Techniques è un
lavoro ispiratissimo, a tratti geniale, tuttavia non di facile
ascolto per chi è cresciuto musicalmente nei ’70, quindi
probabilmente urticante per chi in adolescenza si pasceva di
synth-pop, e forse nemmeno concepibile per i millennials.
A maggior ragione, nel mio ruolo di non-tifoso del musicista
californiano, gli riconosco il grande merito sia del coraggio che
della realizzazione di un album così controcorrente e fuori mercato,
ed insieme così riuscito.
Voto
Microby: 8.4
Preferite:
Xian
Man, Shadowbanned, The Greatest Own In Legal History