martedì 24 febbraio 2015

The Unthanks - Mount the Air

THE UNTHANKS - Mount the Air (2015)
Disco più strumentale che vocale, arricchito dagli arrangiamenti neoclassici di Adrian McNally più che dalle deliziose ed espressive voci di Rachel (sua moglie) e Becky Unthank, si appoggia alla tradizione celtica folk, con la consueta eleganza e raffinatezza. A 4 anni dall’ultimo lavoro in studio (e dopo tre dischi dal vivo, sotto il nome “Diversions”, e una colonna sonora), tornano alla gentile malinconia di Last.  Difficile catalogarlo come un disco di vero classico folk celtico: le sonorità jazzy con quei fiati alla Chet Baker e Nils Landgren, l’incedere epico alla Sigur Ros, i ritmi più vicini a quelli del compianto John Martyn e di Robert Wyatt, ne fanno un disco di rara qualità e bellezza. Le più belle: Mount The Air, Died For Love, Last Lullaby. Voto: ☆☆☆☆1/2

sabato 21 febbraio 2015

DUKE GARWOOD, JACK SAVORETTI


DUKE GARWOOD (2015) Heavy Love
Il 45enne polistrumentista londinese è più noto per la sua stretta collaborazione con Mark Lanegan che per essere titolare, con l’ultimo, di 5 dischi a proprio nome. Heavy Love è la logica prosecuzione di Black Pudding, la fatica del 2013 frutto della collaborazione tra Lanegan e Garwood. L’artista americano lo considera un genio musicale (e non è l’unico collega): tradotto su disco, tanto talento si esprime in un folk-blues dalle atmosfere malate, notturne, brumose, dal ritmo lento, servito da suoni scarnificati e da una bellissima voce cavernosa e drammatica. Si potrebbe opinare che questa è la descrizione di un qualunque album acustico/semiamplificato di Mark Lanegan, ed in effetti è il limite principale del lavoro di Garwood: sembrare il clone del proprio mèntore. Aggiungiamo una spruzzata dei Daniel Lanois e J.J. Cale più ombrosi, ed un pizzico di blues maliano. Ma se siete in astinenza del Lanegan d’annata, l’ascolto non vi deluderà.
Voto Microby: 7.2
Preferite: Disco Lights, Suppertime In Hell, Burning Seas
 
 
JACK SAVORETTI (2015) Written In Scars
Il singer-songwriter anglo-italiano, dal piglio cantautorale più americano che britannico, era accostabile per qualità espresse nei 3 albums finora pubblicati ai primi Ray LaMontagne, Steve Forbert, John Mayer, ma con una pericolosa tendenza all’enfasi. Forte di ottime capacità relazionali (verificate lo scorso anno in occasione di una sua veloce comparsata a Brescia), di un live-act pare strepitoso (testimoniato da Stefano che vi ha assistito a Roma), di un viso da attore e di indubbie capacità di scrittura (parte come poeta), il nostro sceglie purtroppo la derapata pop commerciale alla Gavin DeGraw (e tanti altri simili). Non si capisce altrimenti la scelta di arrangiamenti vistosi, addirittura fracassoni nella sezione ritmica, degli insistiti coretti uh-oh-oh perfetti per una platea adolescenziale da arena, a rovinare un’ispirazione ancora buona ed una voce abrasiva e calda come sempre. Speriamo per lui, vista la simpatia del personaggio, in un grande riscontro commerciale. Oppure in un buco nell’acqua, in modo che torni ad essere il cantautore raffinato che conoscevamo. Non che si perda in mezzo al guado, e con lui tutte le doti innate.
Voto Microby: 7
Preferite: Written In Scars, Back To Me, Nobody ‘cept You

venerdì 20 febbraio 2015

Recensioni: Gretchen Peters, The Charlatans

GRETCHEN PETERS - Blackbirds (2015)
La 57enne GP, uno dei grandi pilastri del country-folk-rock di Nashville, per la verità da sempre con una carriera poco considerata (solo lo scorso anno è stata inclusa nella Hall of Fame dei cantautori della sua città), dedica un album quasi esclusivamente al tema della morte: meditazioni e tematiche inquietanti ed profondamente personali, ballate evocative e commoventi che ricordano Joni Mitchell, Martina McBride, Roseanne Cash o Faith Hill. Scritto con l’aiuto del cantautore irlandese Ben Glover e dalla sua amica Matraca Berg l’album ha dei brani di grande bellezza quali Pretty Things, When All You Got Is A Hammer e Black Ribbons. Ok, c’è tristezza in questo album, ma il suo sound è luminoso e ci mostra la strada giusta. Voto: ☆☆☆☆

THE CHARLATANS - Modern Nature (2015)

Ascoltando questo disco ho pensato a quello appena sentito dei Belle & Sebastian: là dove mi sembrava tutto poco sincero, qui invece, anche se sicuramente altrettanto leggera, la loro scrittura è ispirata ed efficace. E pensare che dopo la morte del batterista Jon Brookes, peraltro sostituito egregiamente da Pete Salisbury dei Verve e da Stephen Morris dei New Order, il gruppo di Manchester avrebbe potuto implodere e perdersi definitivamente dopo 25 anni di carriera. Invece eccoli al loro 12° album: pop raffinato sorretto da cadenze soul-funk, con una attitudine decisamente innovativa per la band. Melodico, robusto e non sempre immediato, va riascoltato ed allora lo si potrà inserire tra i loro migliori, accanto a Between 10t to 11th e Tellin Stories, Brani da downloadare: Let the Good Times Be Never Ending, Come Home Baby, So Oh. Voto: ☆☆☆1/2.

giovedì 19 febbraio 2015

BELLE AND SEBASTIAN, SLEATER-KINNEY


BELLE AND SEBASTIAN (2015) Girls In Peacetime Want To Dance
Decimo disco in studio nel quasi ventennale di carriera, e Stuart Murdoch e sodali da Glasgow non smettono di deliziarci con il loro pop gentile e riconoscibilissimo. Con la differenza che i toni morbidi ed educati che rendevano bucolico il loro pop degli esordi sono diventati più accesi: la sezione ritmica è decisa, con la batteria più prepotente ed il basso saltellante e talvolta gommoso, a ricordare le produzioni disco anni ’80. Cambiano gli arrangiamenti, non le belle melodie cui gli scozzesi ci hanno abituato: tutto nel nuovo lavoro è dicotomico, come copertina (drammatica) e titolo (spensierato), come brani pop ariosi (tipici dei nostri) alternati a sorprendenti brani dance perfetti per la pista da ballo (ma sempre colorati), come una prima parte eccellente ed una seconda solo discreta. Il tutto suona gioioso e disimpegnato, radiofonico senza vergogna, perché comunque di classe superiore.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Nobody’s Empire, Allie, The Party Line

SLEATER-KINNEY (2015) No Cities To Love
Corin Tucker, Carrie Brownstein e Janet Weiss da Olympia, Washington, città natale del movimento delle riot grrrl, si confermano non solo la punta di diamante di quel tipo di rock feroce, incazzato, abrasivo, diretto discendente del punk dei primordi anzichè parente del coevo punk-pop targato Green Day/Offspring, ma anche la band al femminile più importante della storia della musica rock. Words and Guitars recitavano nel 1997: e l’intreccio di 2 voci e 2 chitarre urgenti, arrabbiate, su melodie sghembe, suoni taglienti, costruzioni dissonanti ma interpretate con perizia tecnica fotografano ancora la cifra stilistica del terzetto, ormai di donne mature. Irregolare, aspro, potente, sincero, questo ritorno dopo uno iato di 10 anni ci restituisce le Sleater-Kinney al top della forma: ascolto imperdibile per chi si nutre di punk-rock, ma piacevolmente doveroso anche per chi, come il sottoscritto, non è mai stato un fan delle riot grrrl.
Voto Microby: 7.7
Preferite: No Cities To Love, Fangless, Price Tag


venerdì 13 febbraio 2015

Recensioni: Gaz Coombes, Rhiannon Giddens

GAZ COOMBES - Matador (2015)
A distanza di tre anni dal precedente, bello, Here Comes The Bomb, l’ex leader dei Supergrass pubblica il suo secondo album solista. Così come per Damon Albarn, Noel Gallagher e Thom Yorke anche loro leaders di un grande gruppo d’oltremanica ed autori di recenti lavori solisti, probabilmente la crisi di mezz’età ha imposto di trovare una propria strada personale: certamente i Supergrass non sono neanche lontanamente comparabili con Blur, Oasis o i Radiohead, commercialmente su un altro pianeta , ma Gaz Coombes non appare assolutamente sfigurare, anzi, tra i 4 solo Damon Albarn ne avvicina qualitativamente lo spessore.  Niente a che fare con il Brit-Pop; piuttosto una sorta di electro-pop, con sentori ora soul (20/20), ora dub (Buffalo), ora glam (The Girl who fell to Earth che fa il verso a David Bowie), più vicino agli Arcade Fire che non al suo gruppo originario. Un disco elegante, lineare, maturo, ipnotico. I Brani migliori: 20/20, Needles Eye, Detroit, To The Wire.  Voto: ☆☆☆☆

RHIANNON GIDDENS - Tomorrow is my turn (2015)
Non c’è dubbio che la cantante dei Carolina Chocolate Drop sia anche un po' la leader del gruppo, tra i migliori nuovi esponenti del movimento di revival del folk-spiritual tradizionale. Merito del solito T Bone Burnett, scopritore di talenti e grande motivatore, colpito dalla sua performance in occasione della kermesse musicale in onore del film dei fratelli Coen Inside Llewyn Davis (ispirato alla scena musicale folk newyorkese degli anni’60), averla convinta a provarci da solista producendone il lavoro. Ne risulta un album ricco di intensità, con ballate gospel, accanto a ritmi folk-blues, country, jazz e addirittura a canzoni da chansonnier (la title-track è di Charles Aznavour, l’aveva già ripresa Nina Simone). Tutte le canzoni sono cover già interpretate o scritte da donne e solo l’ultima canzone “Angel City” è un originale scritto da Rhiannon stessa: in ognuna di queste canzoni emerge la sua voce cristallina, assolutamente meravigliosa. Grazie a Gigi della segnalazione. Brani migliori: Up Above My Head, Angel City. Voto: ☆☆☆☆


lunedì 9 febbraio 2015

THE WATERBOYS, BILL FAY, BOB DYLAN


THE WATERBOYS (2015) Modern Blues
La band scozzese, da sempre identificata con il suo leader Mike Scott, polistrumentista ed unico musicista stabile del gruppo, ha firmato un solo capolavoro (Fisherman’s Blues, 1988) ma in trent’anni ha sempre mantenuto un buon profilo: più new wave passionale agli esordi, folk-rock trascinante e spirituale negli anni d’oro (1985-90), folk cantautorale negli anni zero. Col nuovo lavoro Scott torna ad arricchire di blues il titolo (solo quello), ma evidentemente porta fortuna, dal momento che Modern Blues è il miglior lavoro dei Waterboys da Fisherman’s Blues: il più americano, elettrico, vitale, contagioso, senza una canzone debole che si tratti di ballads scot-irish-soul o di rock trascinanti, vuoi blue collar, white soul, fifties, heartland. Gli strumentisti sono in stato di grazia, con plauso per gli infuocati duetti tra le chitarre elettriche di Jay Barclay e Zach Ernst e lo storico, scatenato violino di Steve Wickham: Album che cita Petty, Springsteen, Dylan, Van Morrison, Bob Seger, ma che mantiene una fisionomia propria, e che promette faville dal vivo.
Voto Microby: 8.5
Preferite: Destinies Entwined, Long Strange Golden Road, Still A Freak

BILL FAY (2015) Who Is The Sender?
Bill Fay possiede una storia personale ed una cifra stilistica che da sole invitano all’ascolto dei suoi quadretti profondamente introspettivi e malinconici. Riscoperto nel 2012 da un DJ americano dopo 40 anni di latitanza, il cantautore inglese si ripresenta oggi con la consueta struttura piano-voce, entrambi semplici e struggenti, ma eccede ancora negli arrangiamenti d’archi, e le stesse canzoni non sono all’altezza del precedente Life Is People. Siamo lontani dalla profonda, solitaria intensità del Johnny Cash degli American Recordings, operazione analoga targata Rick Rubin, ma l’ascolto è pur sempre apprezzabile se si è in cerca di raccoglimento ed intimità.
Voto Microby: 7
Preferite: Order of The Day, How Little, A Page Incomplete
BOB DYLAN (2015) Shadows In The Night
Che ci azzecca Bob Dylan con Frank Sinatra? Da lungo tempo inseguito il desiderio di interpretare alcuni evergreen dell’American Songbook (tutti già proposti da centinaia di artisti, ma le cui covers più note sono quelle del crooner italo-americano), il menestrello di Duluth rinuncia all’orchestra ed alla tentazione di fare l’originale a tutti i costi con versioni stravolte (scelte coraggiose), ma cade in quella della monotona ovvietà. Un quintetto acustico asseconda la sua voce, da chi amata e da chi odiata per i medesimi motivi (rotta, catramata, nasale, sgraziata, cartavetrata ma intensissima), ma assolutamente inadatta alle canzoni proposte (numerosissime le stonature, soprattutto sui timbri estremi). Ma non è un confronto con le corde vocali di “The voice” a deludere: è la piattezza di interpretazione, l’eccessiva timidezza nell’affrontare canzoni immortali. Il tutto si traduce in una noia che rende faticoso arrivare alla fine dei (per fortuna) soli 35 minuti. Forse il medesimo, troppo rispettoso ossequio nei confronti del più grande cantautore di sempre ha ottuso le orecchie di molti recensori, visto che Shadows In The Night è molto apprezzato dalla critica worldwide (Metacritic, che riassume decine di recensioni delle principali riviste musicali, gli assegna un 90, che sta per “universal acclaim”!). Forse sono io che devo lavarmi le orecchie, ma Dylan che ci azzecca con Sinatra?
Voto Microby: 5.5
Da salvare: Where Are You?, Full Moon And Empty Arms, I’m A Fool To Want You

lunedì 2 febbraio 2015

BENJAMIN CLEMENTINE, THE DECEMBERISTS, DAN MANGAN + BLACKSMITH


BENJAMIN CLEMENTINE (2015) At Least For Now
Natali londinesi di famiglia ghanese, il 26enne Benjamin Sainte-Clementine arriva al debutto dopo aver fatto l’artista di strada a Parigi ed aver recentemente impressionato alla TV britannica. Come? Nessun produttore di grido né appoggi extra-artistici: solo puro talento musicale, che non inventa nulla di nuovo ma riesce ad interpretare 50 anni di musica black & white forgiandola in un unicum personalissimo. Tra le dita del suo pianoforte e le dotate corde vocali (da tenore con timbro brillante e lievemente nasale) scorrono il soul elegante di John Legend, il jazz di Nina Simone, il pop lirico di Antony Hegarty, il romanticismo intenso di Edith Piaf. Il tutto, con l’aiuto di archi e percussioni, suona originale rispetto alle influenze, ma insieme rispettoso. Ora potrà suonare pop, blues, soul, easy listening, avantgarde o cantare in chiesa o per strada: ha il talento per fare quello che vuole, speriamo non lo sprechi. Ci ha comunque già fatto dono di un piccolo, grande disco.
Voto Microby: 8.5
Preferite: London, Winston Churchill’s Boy, Condolence

THE DECEMBERISTS (2015) What A Terrible World, What A Beautiful World
Amati dalla critica e giustamente premiati anche dal successo col precedente The King Is Dead (2011), il gruppo di Portland, Oregon riesce a confermare la propria evoluzione che ha portato Colin Meloy e sodali fuori dalle secche dell’iniziale concept/prog-folk (peraltro di ottima fattura) all’attuale, brillante folk-pop di impronta british-folk revival (con in testa i Fairport Convention) ma con intrusioni anche di pop anni ’60, di fiati alla Of Monsters And Men, di roots rivisitate alla maniera dei Fleet Foxes, di radiofonia alla Fanfarlo, di eleganza alla The Leisure Society. Il loro album più vario, in una discografia di qualità mai meno che buona.
Voto Microby: 8
Preferite: Cavalry Captain, Philomena, Make You Better
DAN MANGAN + BLACKSMITH (2014) Club Meds
Avevamo lasciato il cantautore di Vancouver vincitore del Juno Prize per il bellissimo Oh Fortune nel 2011, lavoro sospeso tra Micah P. Hinson e gli Arcade Fire. Ritorna per un quarto album molto diverso, in cui si fa accompagnare da una backing band ma soprattutto esplora la psichedelia con composizioni oniriche (ma dai sogni turbati), mood agrodolce, temi sociali, impianto elettroacustico. Ne risulta uno sforzo riuscito in parte, che risente dell’influenza alt-pop di Radiohead, Grizzly Bear, TV On The Radio, Alt-J, che parte bene ma non riesce mai a decollare, accartocciandosi un po’ su se stesso.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Vessel, Mouthpiece, Offred

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