La
band scozzese, da sempre identificata con il suo leader Mike Scott,
polistrumentista ed unico musicista stabile del gruppo, ha firmato un
solo capolavoro (Fisherman’s Blues,
1988) ma in trent’anni ha sempre mantenuto un buon profilo: più
new wave passionale agli esordi, folk-rock
trascinante e spirituale negli anni d’oro (1985-90), folk
cantautorale negli anni zero. Col nuovo lavoro Scott torna ad
arricchire di blues il titolo (solo quello), ma evidentemente porta
fortuna, dal momento che Modern Blues
è il miglior lavoro dei Waterboys da Fisherman’s
Blues: il più americano, elettrico, vitale,
contagioso, senza una canzone debole che si tratti di ballads
scot-irish-soul o di rock trascinanti, vuoi blue collar, white soul,
fifties, heartland. Gli strumentisti sono in stato di grazia, con
plauso per gli infuocati duetti tra le chitarre elettriche di Jay
Barclay e Zach Ernst e lo storico, scatenato violino di Steve
Wickham: Album che cita Petty, Springsteen, Dylan, Van Morrison, Bob
Seger, ma che mantiene una fisionomia propria, e che promette faville
dal vivo.
Voto
Microby: 8.5
Preferite:
Destinies Entwined,
Long Strange Golden Road, Still A Freak
BILL FAY (2015) Who Is The Sender?
Bill
Fay possiede una storia personale ed una cifra stilistica che da sole
invitano all’ascolto dei suoi quadretti profondamente introspettivi
e malinconici. Riscoperto nel 2012 da un DJ americano dopo 40 anni di
latitanza, il cantautore inglese
si ripresenta oggi con la consueta struttura piano-voce, entrambi
semplici e struggenti, ma eccede ancora negli arrangiamenti d’archi,
e le stesse canzoni non sono all’altezza del precedente Life
Is People. Siamo lontani dalla profonda,
solitaria intensità del Johnny Cash
degli American Recordings, operazione analoga targata Rick Rubin, ma
l’ascolto è pur sempre apprezzabile se si è in cerca di
raccoglimento ed intimità.
Voto
Microby: 7
Preferite:
Order of The Day,
How Little, A Page Incomplete
BOB DYLAN (2015) Shadows In The Night
Che
ci azzecca Bob Dylan con Frank Sinatra?
Da lungo tempo inseguito il desiderio di interpretare alcuni
evergreen dell’American Songbook
(tutti già proposti da centinaia di artisti, ma le cui covers più
note sono quelle del crooner italo-americano), il menestrello di
Duluth rinuncia all’orchestra ed alla tentazione di fare
l’originale a tutti i costi con versioni stravolte (scelte
coraggiose), ma cade in quella della monotona ovvietà. Un quintetto
acustico asseconda la sua voce, da chi amata e da chi odiata per i
medesimi motivi (rotta, catramata, nasale, sgraziata, cartavetrata ma
intensissima), ma assolutamente inadatta alle canzoni proposte
(numerosissime le stonature, soprattutto sui timbri estremi). Ma non
è un confronto con le corde vocali di “The voice” a deludere: è
la piattezza di interpretazione, l’eccessiva timidezza
nell’affrontare canzoni immortali. Il tutto si traduce in una noia
che rende faticoso arrivare alla fine dei (per fortuna) soli 35
minuti. Forse il medesimo, troppo rispettoso ossequio nei confronti
del più grande cantautore di sempre ha ottuso le orecchie di molti
recensori, visto che Shadows In The Night
è molto apprezzato dalla critica worldwide (Metacritic, che riassume
decine di recensioni delle principali riviste musicali, gli assegna
un 90, che sta per “universal acclaim”!). Forse sono io che devo
lavarmi le orecchie, ma Dylan che ci azzecca con Sinatra?
Voto
Microby: 5.5
Da
salvare: Where Are
You?, Full Moon And Empty Arms, I’m A Fool To Want You
3 commenti:
BOB DYLAN: Da non crederci... Credo per la prima volta in vita mia, sono d'accordo sul commento fatto dall'"Osservatore romano" all'ultimo lavoro di Dylan, stroncato con le parole: "Un disco di cui non si sentiva il bisogno". Devo preoccuparmi???
Un giorno mi spigherai perché vai a leggerti le recensioni musicali sull'osservatore romano.
Oops.... ne parlo solo col mio psicoanalista...
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