giovedì 8 dicembre 2016

Recensioni: Heidi Talbot, Phish, Lori Cullen

HEIDI TALBOT - Here We Go, 1, 2, 3 (2016)

Al quinto album, tre anni ed un figlio dopo il precedente, bellissimo, Angels Without Wings, Heidi Talbot, irlandese della contea di Kildare vicina a Dublino (ma ora residente in Scozia), torna a deliziare con il suo folk acustico elegante e sopraffino. HT affonda le sue radici nel coro della chiesa diretto dalla madre e nelle scuole di canto del conservatorio di Dublino: trasferitasi per qualche anno a New York entra nel giro folk locale, pubblica i suoi primi lavori e riceve varie nominations agli Indie Acoustic Awards (2008), Irish Music Awards e ai BBC Radio Folk Awards, facendola emergere come una delle voci più interessanti degli ultimi anni.  Il suo stile attraversa le epoche passando dal folk acustico, all’Americana, al pop classico. In quest’ultimo disco i ritmi folk, lievemente upbeat, guidati da armonica e violini sono rincorsi dalla voce alternativamente gioiosa e malinconica di Heidi. La cover di Motherland di Natalie Merchant sembra quasi volerci far comprendere che sia lei ora a prendere il suo testimone. Da ascoltare: Here We Go 1,2,3, Time to Rest, The Year That I Was Born. Voto: ☆☆☆☆ 1/2



PHISH - Big Boat (2016)

Ancora una volta i Phish si confermano come una delle migliori jam band americane del momento. Dal vivo sono una delle band più attive ed i loro concerti sono tradizionalmente considerati tra i migliori cui si possa assistere: in studio ultimamente apparivano non particolarmente brillanti anche se non mancavano lavori molto buoni (Joy del 2009, Fuego del 2014 e quello solista di Anastasio del 2015 non mi erano assolutamente dispiaciuti). Con Big Boat sembra di tornare alla discografia pre 2004 (anno della loro momentanea separazione) con un bel gruppo di canzoni che, grazie alla formidabile chitarra di Trey Anastasio ed alle tastiere di McConnell, appaiono richiamare il sound che amavamo negli anni ’90.  Pop-rock energico e sintetizzato alternato a classiche ballad rock ma soprattutto le proverbiali canzoni-jam ricche di cambi di ritmo e soluzioni melodiche alla Jerry Garcia. Da ascoltare: Home, Breath and Burning, Blaze On. Voto: ☆☆☆☆


LORI CULLEN - Sexsmith Swinghammer Songs (2016) 


Nuovo disco per la corista canadese, compagna di Kurt Swinghammer e grande amica di Ron Sexsmith dei quali ha pensato di registrare composizioni appositamente scritte per lei e per la sua voce purissima. Dodici tracce ricche di morbidezza ed intimità, con echi dei conterranei Joni Mitchell e Gordon Lightfoot, profumi di bossanova, abbondanti spruzzate di Bacharach e jazz soffuso. Da ascoltare: Then There Were Three, New Love, Strange Is This Life. Voto: ☆☆☆

martedì 6 dicembre 2016

PIERS FACCINI, DAMIEN JURADO


PIERS FACCINI (2016) I Dreamed An Island




E’ inarrestabile l’evoluzione del cantautore anglo-italo-francese dagli esordi (Leave No Trace, 2004) nella scia degli interpreti intimisti, che con Damien Rice avevano riportato in classifica la poesia umbratile di Nick Drake, alla musica folk europea. Il gioiello The Wilderness (2011) aveva segnato lo spartiacque tra uno dei più dotati ma numerosi singer-songwriters del genere e la scoperta/proposta dei suoni antichi ed universali della musica folk, apolidi come il suo DNA ma ristretti al bacino d’influenza idealmente chiuso tra la terra d’Albione, i Balcani, l’Arabia ed il Sahara. Il nostro canta in inglese, francese, italiano (e dialetti), arabo senza inficiare l’omogeneità di un disco dai profumi del british folk revival come mediorientali e maghrebini, in un’esplorazione che lo accomuna a John Martyn ed ai Fairport Convention (senza però oltrepassare musicalmente l’Oceano come loro) ma anche alla mediterraneità di Mauro Pagani, Fabrizio De Andrè e Cesare Basile. Negli anni ’70 sarebbe stato un capolavoro di grande influenza per il folk a venire. Attualmente rappresenta la miglior crasi musicale, in chiave acustica, tra la vecchia Europa e l’attuale melting pot culturale creatosi con l’ ondata migratoria dal medioriente all’Inghilterra. Niente di più contemporaneo.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Bring Down The Wall, To Be Sky, Anima


 
DAMIEN JURADO (2016) Visions of Us On The Land



Occorre che smettiamo di pensare all’artista di Seattle come ad una giovane promessa, chè almeno altre due generazioni di singer-songwriters si sono succedute dopo la sua. D’altra parte il dodicesimo album del cantautore partito avendo come stella polare Bob Dylan e Neil Young ma anche la scrittura urbana di Lou Reed certifica uno stile che è ormai personale, ormai virato nelle ultime 4 prove sotto la guida del produttore Richard Swift verso una psichedelia gentile, più Love che Pink Floyd (come invece ultimamente Ray La Montagne, che partito dal country-folk ha avuto una simile deviazione del percorso musicale), più Joseph Arthur che Syd Barrett. L’alternarsi di ballate acustiche tra Dylan, Young ed Elliott Smith con i continui giochi di chitarra e voce riverberate non nuoce né annoia, nonostante la lunghezza del progetto attuale (17 canzoni), e testimonia di un artista mai sotto la soglia della buona qualità ma che altrettanto non ha mai prodotto un capolavoro.
Voto Microby: 7.5
Preferite: QACHINA, Lon Bella, TAQOMA


 

venerdì 25 novembre 2016

AGNES OBEL, MORELAND & ARBUCKLE, STEVE GUNN


AGNES OBEL (2016) Citizen of Glass




Un album ogni 3 anni per la danese che al precedente disco ho definito (e confermo il giudizio) la miglior interprete femminile del cosiddetto chamber pop: a piano e voce si accompagnano gli strumenti classici da camera (viola, violoncello, violino, arpa, chitarra e sporadiche percussioni). Invece di seguire la via più facile del pop (l’esordio era stato di platino nei paesi del nord Europa), la nostra ha accentuato l’austerità derivante dagli studi classici, e pubblica un lavoro che non accetta deroghe all’ascolto esclusivo e molto attento. Si viene ripagati da canzoni che rimarranno nel tempo pur partendo dalla polifonia corale elisabettiana. A tratti mi ricorda un’interprete olandese che avevo molto apprezzato negli anni ’80 e ’90, Mathilde Santing, nei suoi lavori più scarni e meno adesi agli arrangiamenti del tempo. L’ascoltatore che non avesse in mente tali presupposti considererebbe probabilmente pedante, noioso e perfino artefatto Citizen of Glass. La pazienza premia con un gioiellino.
Voto Microby: 8
Preferite: Familiar, Golden Green, Trojan Horses



MORELAND & ARBUCKLE (2016) Promised Land Or Bust



Il British Blues Revival esportato negli USA e nel mondo negli anni ’60 da Alexis Korner e John Mayall rivive, ben sporcato col Delta Blues ed il Boogie, nella chitarra ruvida (più hard-garage che virtuosistica, come siamo abituati ad ascoltare in quasi tutto il rock-blues recente) di Aaron Moreland e nell’armonica infuocata del vocalist Dustin Arbuckle, che non imita (come la massa) il timbro vocale dei neri ma canta da bianco che ha il blues nell’anima. Il duo del Kansas è completato dal batterista Kendall Newby, membro effettivo del trio, e da alcuni ospiti. Non si ascolta questo album per stupirsi degli assoli (come per Joe Bonamassa, ad esempio), ma per fare il pieno di energia, che trasuda da tutte le note, come fosse una registrazione in presa diretta. Un rock-blues antico, che trae ispirazione da entrambe le sponde dell’oceano e dei due generi, il rock ed il blues, e per questo piacerà sia a chi ama John Mayall ed i Cream sia a chi va matto per Black Keys o Jon Spencer Blues Explosion.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Mean And Evil, Take Me With You (When You Go), When The Lights Are Burning Low



STEVE GUNN (2016) Eyes On The Lines



Il giovane chitarrista fingerstyle, dopo le esperienze da session man con Michael Chapman e Jack Rose e come membro dei Violators, la backing band di Kurt Vile, ha lentamente mollato gli ormeggi ed ora, alla terza esperienza da solista, pare pronto ad esprimersi anche in forma di scrittore di canzoni e cantante. Perfettibili entrambi, nonostante la qualità sia già attualmente buona. Certo la matrice psichedelica fine anni ’60 la fa da padrona, così ci si compiace di ascoltare dei fraseggi di chitarra, per lo più elettrica o semiamplificata, che sembrano appartenuti ai Grateful Dead più concisi o ai Velvet Underground più liquidi e melodici. Con la speranza che possa esplorare anche territori musicali più personali.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Conditions Wild, Ancient Jules, Heavy Sails

 
 

giovedì 17 novembre 2016

Leonard Cohen - I 10 pezzi migliori


L'aveva preannunciata lui stesso. Nel suo ultimo album troppi erano i riferimenti alla morte per non introdurcela con la sua solita poesia e passione.
Ripensando alla sua carriera ecco una lista di 10 brani da ricordare.


1. Hallelujah (Various Positions, 1984). Sicuramente il suo brano più popolare, grazie alle numerose cover (su tutte quella di John Cale e Rufus Wainwright, ma soprattutto quella magnifica ed inarrivabile di Jeff Buckley). Non ebbe un gran successo, all'inizio;  ad oggi se ne contano almeno 300 cover. Unico aspetto positivo di questi tristi giorni è che no, la canzone non era di Jeff Buckley. 
2. Going Home (Old Ideas, 2012). Dopo otto anni di silenzio Cohen torna sul palco e pubblica un nuovo disco, scarnificando al massimo la sua musica. In questo brano, solo delicatamente sfiorato da archi e tastiere Cohen ricorda il Dylan di Time Out of Mind. La rivista Rolling Stone l'ha inserita tra le venti migliori canzoni del 2012.
3. So Long, Marianne (Songs of Leonard Cohen, 1967) Dedicata a Marianne Ihlen, incontrata ed amata di nascosto (era sposata ad uno scrittore norvegese) e scomparsa anch'ella quest'anno.
4. Suzanne (Songs of Leonard Cohen, 1967). Fu il suo singolo di esordio e, insieme ad Hallelujah, sicuramente la sua canzone più famosa.  Anche questa, come la precedente, era dedicata ad una donna, Suzanne Verdal, che Cohen conobbe a Montreal e poi perse di vista. Una decina di anni fa un programma televisivo americano indagò sulla sua identità e scoprì che lei viveva in un'automobile a Venice Beach in California: al giornalista disse che con Cohen non c'era stato niente. L'hanno ripresa in tantissimi, Fabrizio De Andrè (nel 1972), Francesco De Gregori (nel 1970) e Nick Cave (sicuramente il suo discepolo più fedele) tra gli altri.
5. Bird on a wire (Songs from a Room, 1969). Scritta su un'isola greca dove aveva soggiornato per 7 anni facendo vita da bohémienne (insieme a Marianne Ihlen) è una sorta di apologia alla solitudine ed alla libertà. Anche grazie al successo di questo brano, insieme a quelli del precedente lavoro, Cohen viene invitato al festival dell'isola di Wight del 1970, ottenendo una popolarità planetaria.
6. Famous Blue Raincoats (Songs of Love and Hate, 1971). Racconta la storia di un triangolo amoroso tra il narratore, una donna di nome Jane ed un altro uomo, definito con rancore "mio fratello, il mio assassino".
7. Chelsea Hotel no. 2 (New skin for the old Ceremony, 1974). Una delletante canzoni dedicate al famoso hotel di downtown Manhattan, che negli anni ha ospitato praticamente tutti i più grandi della musica (Patti Smith, Bob Dylan, Jimi Hendrix, Joni Mitchell, Nico, Janis Joplin e Leonard Cohen stesso). In questo brano celebra la sua breve relazione con Janis Joplin ("mi dicesti che preferivi gli uomini belli, ma per me avresti fatto un'eccezione"), incontrata per caso in un ascensore dell'hotel.
8. Tower of Song (I'm Your Man, 1988). Autobiografica ed autoironica ("I was born like this / I had no choice /I was born with the gift of a golden voice"). Il testo di questo brano fu letto in occasione dell'inserimento nella Rock'n'roll Hall of Fame nel suo discorso di ringraziamento.
9. First we Take Manhattan (I'm Your Man, 1988). Testo agghiacciante e ritmi elettronici (eravamo negli anni del synth-pop): sempre attuale visti i riferimenti al fascino delle posizioni estreme ed aggressive. Bella la cover di Joe Cocker.
10. On That Day (Dear Heather, 2004). Canzone sull'11 settembre in risposta a ciò che si sentiva in giro: "qualcuno dice che ce lo siamo meritati, per i nostri peccati contro Dio, o i crimini contro l'umanità. Non so, io mi limito a tenere duro, dal giorno in cui ferirono New York. Qualcuno dice che ci odiamo da sempre, per le nostre donne svelate, per i nostri schiavi e il nostro oro. Non so, io mi limito a tenere duro. Ma voi ditemi una cosa, e io non vi giudicherò: siete impazziti o vi siete arruolati, quel giorno? Quel giorno che ferirono New York?"

lunedì 14 novembre 2016

THE DIVINE COMEDY, THE JAYHAWKS, SOPHIA



THE DIVINE COMEDY (2016) Foreverland


Così come a scuola per La Divina Commedia, da sempre per il gruppo a conduzione egemone da parte del nordirlandese Neil Hannon non esistono mezze misure: lo si ama o lo si odia. Nella vita personaggio dandy ed avulso dalla realtà, anche artisticamente il suo pop orchestrale è atemporale: melodico, romantico, enfatico, da feuilleton rosa fin dagli esordi nel 1990. Incurante del grunge, del brit-pop, del synth-pop, dell’hip-hop, del trip-hop, del new acoustic movement che imperavano nella contingenza, Hannon è sempre andato dritto per la sua strada inanellando una serie di eccellenti album (seppur non adesi al momento musicale, come un vaso cinese in un contesto Bauhaus), con uno stile riconoscibilissimo e unico. Anche quest’ultimo sforzo, buono seppur non fra i suoi migliori (i miei preferiti restano Casanova del 19996 e Regeneration del 2001) piacerà a chi apprezza Rufus Wainwright, Adam Green, Richard Hawley, Pulp e sarà rigettato da chi ama suoni freddi, o moderni, o essenziali, o grezzi. Chi lo segue non lo perda in concerto a Brescia il 10 febbraio 2017 nel suo contesto ideale, il Teatro Grande.
Voto Microby: 7.7
Preferite: To The Rescue, Napoleon Complex, Catherine The Great



THE JAYHAWKS (2016) Paging Mr. Proust



La definitiva fuoriuscita di Marc Olson da uno dei gruppi seminali dell'alt-country ha scompaginato l'assetto musicale dei Jayhawks, da sempre brillantemente in equilibrio tra folk, country e pop, tra Byrds, Beatles e tradizione rurale americana. Il re-styling ha prodotto un lavoro indeciso (come la copertina) tra vecchio e nuovo, in cui l'anima predominante resta quella melodica e beatlesiana dell'attuale leader unico, Gary Louris, tuttavia in molte canzoni tale attitudine è sporcata da un suono elettrico alla Neil Young con i Crazy Horse. Progetto interessante nelle intenzioni e affatto estraneo al background della band, tuttavia quel che manca è l'amalgama tra le due opposte direzioni, chè i brani in sè godono di buona scrittura ed esecuzione. Ma dai fuoriclasse è lecito pretendere di più. Disegno da sviluppare, completare, colorare meglio.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Quiet Corners & Empty Spaces, Lovers of The Sun, The Devil Is In Her Eyes



SOPHIA (2016) As We Make Our Way – Unknown Harbours



La band, da considerare a tutti gli effetti il moniker di Robin Proper-Sheppard dopo lo scioglimento dei God Machine, sembrava dissolta dopo 7 anni di silenzio seguìti ad un penultimo album il cui titolo appare ora come programmatico (There Are No Goodbyes). E invece eccoci con un nuovo lavoro che dispiega le varie anime di RPS: dalle note malinconiche della voce profonda e colloquiale che lo accomuna da sempre a Tindersticks e Smiths più romantici, allo shoegaze amato in gioventù, al pop jingle-jangle, all'indie-rock più raffinato. Troppe influenze per una carne sul fuoco che non è figlia dell'ispirazione dei tempi migliori, per un risultato finale che è di piacevole ascolto ma non raccomandabile se paragonato ad una discografia passata che è di qualità superiore.
Voto Microby: 7
Preferite: California, Don't Ask, The Drifter


















 
 

Canzoni del cumenda - pezzi caldi novembre 2016

Ricevo e giro una nuova lista di brani "caldi" proposti da El Cumenda. Come sempre un elenco di brani molto stimolanti e interessanti (con ben 4 italiani)!

1. Skye & Ross - How to fly
2. Glenn Hughes - Nothing's the same
3. Giorgia - Per non pensarti
4. Jacob Collier - In my room
5. Barock Project - My silent sea
6. Wow - Aria
7. Norah Jones - Carry on
8. Amos Lee - New Love
9. Flo - Vulìo
10. Airbag - Disconnected



lunedì 31 ottobre 2016

Recensioni: Beth Hart, Leonard Cohen

BETH HART - Fire on the Floor (2016)
Dopo l’accoppiata di cover album insieme a Joe Bonamassa ed il molto interessante Better Than Home, in quest’ultimo lavoro si circonda di musicisti di prim’ordine (Michael Landau e Waddy Wacthel alle chitarre, Brian Allen al basso, Dean Parks all’acustica, Ivan Neville all’organo) e ne esce fuori un album veramente di grande spessore.  Beth esplora vari generi musicali: lo swing-jump anni 50 (“Jazzman”), il blue-eyed soul (“Love gangster”), il blues-tributo a Billie Holiday (“Coca Cola”), ma soprattutto le sue classiche ballate blues intrise di soul e R&B che pervadono tutto l’album e che rappresentano in modo migliore la sua classe. Probabilmente il suo disco migliore, in cui finalmente riesce a raggiungere un equilibrio che riesce ad abbracciare il suo bagaglio emotivo ed i suoi stili musicali. Da ascoltare: Picture in a frame, Love gangster, Fire on the floor. Voto: ☆☆☆☆


LEONARD COHEN - You Want it Darker (2016)


Alla veneranda età di 82 anni, Cohen prosegue, imperterrito ed ispirato, il suo recente percorso musicale che da Old Ideas e Popular Problems, appare sempre più recitativo e omogeneo (anche in questo caso lascia ad un coro, stavolta a quello delle sinagoga di Montreal il compito di dare l’apporto melodico). Il figlio Adam (produttore del disco) fornisce una splendida base fatta di archi dolenti e chitarre folk-soul, odorose di sacralità e di ombre. Voce sussurrata, violini struggenti, armonie a volte quasi arabeggianti, toni soffusi e romantici, in cui ammette senza vergogna il dolore, la solitudine e la paura della morte.  Un disco denso, struggente, imponente e toccante. Da ascoltare: You Want it Darker, Steer Your Way. Voto: ☆☆☆☆

sabato 29 ottobre 2016

ED HARCOURT, VAN MORRISON


ED HARCOURT (2016) Furnaces






Con gli ultimi due lavori il polistrumentista inglese sembrava essersi avviato verso soluzioni musicali più scarne, essenziali, quasi da cantautore puro piano-voce, peraltro riuscendo bene anche in questa scelta più intimista rispetto al pop orchestrale ed al brit-pop del primo decennio di attività. E invece ci troviamo di fronte al primo album che di cantautorale ha poco, che anzi sembra il prodotto di una band. La scelta del produttore Flood (già al lavoro in passato con U2, PJ Harvey, Nick Cave, Nine Inch Nails) ha spostato l’atmosfera generale al decennio fine-‘80/fine-’90, con suoni più marcati ed attuali rispetto alle note influenze classiche (soprattutto nell’uso del pianoforte), senza sottrarre la pregnante carica soulful e gospel, spesso melodrammatica tanto da farlo spesso accostare a Rufus Wainwright (senza barocchismi). Furnaces è in brillante equilibrio tra il pop orchestrale di Lustre (2011), la semplicità di Back Into The Woods (2013) e le ballate minimaliste di Time of Dust (EP 2014): i riferimenti restano Richard Hawley, Nick Cave, Badly Drawn Boy, ma piacerebbe anche all’ultimo David Bowie. Certamente uno dei cantautori (in senso lato) inglesi più importanti del nuovo millennio.
Voto Microby: 8
Preferite: Furnaces, Loup Garou, You Give Me More Than Love






VAN MORRISON (2016) Keep Me Singing



I detrattori del bardo irlandese sostengono che ripete da sempre il medesimo album. Di più: la medesima canzone. Considerazione ovviamente esagerata ma non del tutto falsa: anche ammettendo la coerenza al proprio stile musicale (inimitabile ma imitatissimo), è vero che gli accordi di molte canzoni, distanti anche decenni, sono al limite dell'autoplagio. Tuttavia dopo 50 anni di attività baciata da numerosi capolavori (sia canzoni che album) e caratterizzata dall'enorme influenza profusa sulla musica bianca e nera (probabilmente in Europa tra i cantautori solo Nick Drake è stato altrettanto seminale per le generazioni successive), non possiamo esimerci dall'applaudirlo ogni volta che dimentica pigrizia e caratteraccio per donarci un nuovo lavoro, riconoscibilissimo dopo due note, ancora prima di essere scaldati dalla sua mitica voce. A differenza degli ultimi 2-3 lustri, questa volta non è entrato in studio per timbrare (ad arte) il cartellino, ma ha scritto fior di canzoni che si nutrono al solito di soul, R&B, blues, folk, jazz. Ebbene sì, anche stavolta ha copiato dai propri appunti, trovati nei cassetti degli anni '80 (dalle parti di Beautiful Vision, Inarticulate Speech of The Heart, Poetic Champions Compose, Avalon Sunset), ma si è applicato con passione ed il risultato è un disco in cui prevalgono le ballads, che si ascolta insieme con leggerezza e trasporto, nel quale ogni singola canzone dà piacere e strapperebbe applausi se ascoltata nel disco d'esordio di qualunque giovane cantautore "vanmorrisoniano". Nessun capolavoro perchè non c'è nessuna sorpresa: solo il solito, gran bel disco. Non è scontato, e soprattutto non è da tutti. Imitatori compresi.
Voto Microby: 8
Preferite: Holy Guardian Angel, Keep Me Singing, Out In The Cold Again









 

domenica 16 ottobre 2016

Recensioni al volo: Regina Spektor, Owen Campbell, Bon Iver

REGINA SPEKTOR - Remember Us To Life (2016)

La cantante russa naturalizzata newyorkese, ha passato un paio di anni sabbatici dopo aver dato alla luce il suo primo figlio nel 2014. Il precedente lavoro del 2012 (What we Saw from the Cheap Seats), aveva sicuramente rappresentato una piccola battuta d’arresto nel suo progressivo percorso musicale ma in questo settimo album la sua qualità compositiva, così fortemente influenzata dagli studi classici e dalla sua madre terra, la sta facendo sempre più emergere dall’affollata area Indie. Il meglio lo dà soprattutto nei brani voce-pianoforte, con sonorità immaginifiche e teatrali, a volte struggenti o caotiche ma sempre più convincenti e potenti. Storie di donne malate che preferirebbero un giro di limousine alla chemioterapie o uomini che strappano la pagina dei loro libri preferiti e poi fissano con desiderio la luna. Un album decisamente versatile e maturo,  meno caldo ed amabile dei precedenti Far (capolavoro assoluto) o BeginTo Hope. ma sempre più eccentrico e sorprendente, imprevedibile ed intrigante. Voto: ☆☆☆☆1/2


OWEN CAMPBELL - Breathing Bullets (2016)

Australiano e non più giovanissimo (questo tra l’altro è il suo quinto album), è forse uno dei pochi musicisti segnalati grazie un talent show (Australia’s Got Talent) che meritino davvero di essere approdati alla considerazione generale. Disco registrato a Memphis con la produzione di Devon Allman, è blues-rock di forte impronta “sudista”, con tocchi soul e country ed una voce fumosa che è impossibile non rimandare a Chris Rea. Un bel disco, pieno di bottleneck, honky tonk, armonica, banjo e molta grinta. Voto: ☆☆☆






BON IVER - 22 (2016)


Siamo passati dal folk puro e semplice di “For Emma” a campionamenti elettronici a go-go,  voce filtrata da vocoder e loop assillanti. Forse vuole rifarsi una verginità dopo avere minimamente ceduto ad un lieve interesse commerciale. Stavolta, a mio parere, ha toppato. Oppure non ci arrivo proprio, colpa mia. Voto: ☆

giovedì 13 ottobre 2016

RICH ROBINSON, PASSENGER, THE I DON'T CARES


RICH ROBINSON (2016) Flux




E’ ormai chiaro che, mentre il più famoso dei due fratelli fondatori dei Black Crowes, il frontman Chris con i suoi Brotherhood, si dedica alla psichedelia di fine sixties in puro stile Grateful Dead/Quicksilver Messenger Service, è il chitarrista Rich a continuare l’eredità musicale della band di Atlanta sciolta ufficialmente nel 2015. Quindi southern rock, blues, gospel, soul, honky tonk, classic rock inglese, con un suono equamente influenzato da Rolling Stones, Faces, Allman Brothers, Little Feat, Led Zeppelin ed una chitarra che evoca Keith Richards e Ron Wood. Niente di nuovo, tutto classico e già ascoltato, ma scritto ed interpretato da un fuoriclasse del genere. Solo lievemente inferiore alla precedente prova del 2014, e come sempre ahimè privo di un vocalist che faccia la differenza, come lo era il fratello Chris. Ma ovunque si respira un sincero omaggio al rock chitarristico anni ’70.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Everything’s Alright, Astral, The Upstairs Land




PASSENGER (2016) Young As The Morning Old As The Sea


Molti considerano Mike Rosenberg, in arte Passenger, una sorta di Damien Rice più commerciale, o un James Blunt meno pop, o la versione inglese di Amos Lee una volta sottratta la componente R&B. Opinioni condivisibili, ma è anche certo che, senza la pretesa di rivoluzionare la musica attuale, il cantautore di Brighton possiede abilità di scrittura, buon gusto negli arrangiamenti (da sempre un pop-folk acustico con calibrato uso di archi) ed una capacità di carezzare, scaldare, coccolare che è rara. Più che sufficiente a produrre dischi (questo è l’ottavo) che, sebbene simili tra loro, fanno sentire meglio chi li ascolta.
Voto Microby: 7.7
Preferite: If You Go, Home, When We Were Young



THE I DON'T CARES (2016) Wild Stab


Difficile capire se, dopo l’attesa reunion live dei Replacements lo scorso anno con relativa aspettativa di nuove incisioni, frustrata dalla repentina interruzione della tournèe, The I Don’t Cares rappresentino un progetto collaterale del leader Paul Westerberg in collaborazione con la musicalmente affine Juliana Hatfield, oppure il disegno sostitutivo del rimpianto gruppo americano. Nei fatti ci troviamo di fronte a 16 brani immediati, elettroacustici, per lo più brevi, nello stile arruffato, apparentemente in presa diretta ma ben costruito, volutamente low/mid-fi (a dare l’impressione dell’ascolto di demos), tipico di Westerberg. Un cocktail molto ben shakerato, allegro, spontaneo, vitale di Rolling Stones, Violent Femmes, Johnny Thunders, Velvet Underground, equamente composto da rock, folk, garage, indie. Non adatto a chi ama arrangiamenti puliti, raffinati, eleganti, mentre è caldamente raccomandato a chi cerca la primigenia spontaneità e ruvidezza del rock’n’roll.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Outta My System, Kissing Break, King of America









 
 

sabato 8 ottobre 2016

Canzoni del cumenda - nuova lista di pezzi caldi

Ricevo e giro una nuova lista di brani "caldi" proposti da El Cumenda

The 1975 - "Love Me"
Jon Anderson & Roine Stolt - " Know..."
Temperance Movement - "Get yourself Free"
Katatonia - "Shifts"
Karl Blau - "If I Needed You"
The Temper Trap - "So Much Sky"
Paul Simon & Dion - "New York is My Home"
Giovanni Block & Moda Loda Broda - "Adda Venì Baffone"
M83 & Susanne Sundfor - "For The Kids"
Ana Popovic - "New Coat of Paint"

Buon ascolto!


lunedì 3 ottobre 2016

THOMAS COHEN, MUTUAL BENEFIT, OSCAR


THOMAS COHEN (2016) Bloom Forever



Esordio da solista per il 25enne londinese, ex leader degli S.C.U.M., padre di 2 figli (Bloom e Forever sono i secondi nomi della figlia Phaedra), ma soprattutto vedovo di Peaches Geldof, figlia di Bob, giornalista e modella di successo deceduta due anni orsono per overdose da eroina. Cronaca rosa e nera non rappresentano un mero gossip, ma il seme ed il frutto dell’album, il mezzo artistico per elaborare un tremendo lutto (come il più recente lavoro di Nick Cave). Cohen, forse complice la gioventù e la spinta dei figli in tenera età, affronta la prova senza essere lugubre, è malinconico ma mai disperato, e si avvale di suoni avvolgenti, caldi, umbratili a ricordare Ed Harcourt e Richard Hawley, ma anche sofisticati ed a tratti decadenti come i migliori Neil Hannon (The Divine Comedy), Jarvis Cocker (Pulp), perfino il David Bowie di Hunky Dory ed il Lou Reed di Berlin: un sax languido insieme a chitarre elettriche concise e taglienti, un piano Rhodes liquido ed una voce pacata, dolcemente triste. In Bloom Forever c’è consapevolezza di quanto accaduto, accettazione della realtà ed un disegno proiettato nel futuro, non fosse altro per i figli, a braccetto con una scrittura ed esecuzione da plauso. “The sun still shining on, even though it’s cold” (New Morning Comes).
Voto Microby: 8
Preferite: New Morning Comes, Ain’t Gonna Be No Rain, Honeymoon




MUTUAL BENEFIT (2016) Skip A Sinking Stone

Così come il conterraneo Ben Cooper (alias Radical Face), che gli è allineato come stile musicale, anche il polistrumentista Jordan Lee ha scelto un moniker per presentare il proprio progetto, in cui tutto è gentile, dalla voce alle percussioni, dagli strumenti acustici (con le tastiere in primo piano) all’elettronica morbida ambient-style, per finire con la bella copertina dai colori pastello. Chamber-pop bucolico figlio della meditazione e degli ampi spazi aperti piuttosto che dell’hype universitario e delle città, che discende dal Sufjan Stevens più malinconico e dall’Andrew Bird più languido, ma alla seconda prova più che positiva l’americano resta ancora un gradino sotto entrambi.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Not For Nothing, The Hereafter, Getting Gone



OSCAR (2016) Cut And Paste

Figlio d’arte (i genitori fondarono The Regents, new wave band di fine ’70), il giovane londinese Oscar Scheller fedelmente al titolo dell’album ed al proprio abbigliamento ci propone un patchwork di brit-pop di marca-Blur, synth-pop anni ’80, dub e college rock che risulta naif, fresco, orecchiabile, essenziale ma non semplicistico. Il tutto condito da una voce baritonale da crooner che sembra la versione allegra di Richard Butler (Psychedelic Furs) e Morrissey (Smiths). Niente male l’esordio del ragazzino.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Sometimes, Be Good, Feel It Too



















lunedì 26 settembre 2016

Recensioni al volo: Amos Lee, Cocoon, Dawes

AMOS LEE - Spirit (2016)

Da sempre uno dei favoriti del blog, il 39enne Amos Lee è ormai decisamente assurto tra i grandi della musica americana, soprattutto dopo il grande successo di “Mission Bell”, incredibilmente salito al primo posto delle classifiche Billboard nel 2011. Il suo modo di mixare folk e soul, ma anche R&B, gospel, jazz, bluegrass e rock ne fa un’icona moderna del genere. In effetti la sua musica si sta sempre più allontanando dal country-folk dei primi lavori per virare verso il Memphis soul e addirittura il gospel: il tutto intensamente arricchito da fiati e violini. Senza rinunciare alla qualità della sua ispirazione il suo talento continua a migliorare. Da ascoltare: Vaporize, Spirit, Lost Child (un funky-soul che sembra preso da Innervisions di Stevie Wonder), Highway and Clouds. Voto: ☆☆☆☆

COCOON - Welcome Home (2016)
Dopo 6 anni di silenzio torna il progetto del francese Mark Dumail, al terzo disco dopo il grande successo dei precedenti, entrambi dischi di platino. Il lavoro è stato registrato negli USA in collaborazione con Matthew E. White, una delle figure più rispettate dell’indie-rock americano, e con Natalie Prass, la cui voce sostituisce quella di Morgane Imbaud, al momento coinvolta in altri progetti personali. L’album trae ispirazione da vicende familiari che ne hanno segnato l’animo negli ultimi anni, dopo la nascita di un figlio con gravi problemi cardiaci. La forzata permanenza in ospedale, la grande preoccupazione ed il successivo sollievo per l’avvenuta guarigione ne hanno evidentemente amplificato l’ispirazione pop-soul, esaltandone la tipica freschezza compositiva.  Un disco più maturo, smarrito talora in sonorità troppo “facili” ma comunque efficaci e piacevoli. Da ascoltare: I Can’t Wait, Get Well Soon. Voto: ☆☆☆1/2

DAWES - We’re All Gonna Die (2016)
E’ passato poco più di un anno dal loro ultimo lavoro, probabilmente il migliore della loro discografia, così profondamente influenzato da Jackson Browne e dal revival del country-rock degli anni ’70.  Arrivati al quinto disco, arriva anche una brusca sterzata di ispirazione: lasciato da parte il folk-rock dei precedenti il gruppo di Los Angeles ha iniziato ad esplorare altre sonorità: funky, elettronica, blues-rock. Probabilmente il tentativo è quello di trovare nuove energie e percorrere nuovi approcci musicali, facendo perno più sul ritmi di basso e batteria che non sulle chitarre acustiche. Un album quindi musicalmente assai diverso dai precedenti, che continuiamo tuttavia a preferire. Voto: ☆☆☆

martedì 20 settembre 2016

NICK CAVE & The Bad Seeds, ED LAURIE & Straw Dog


NICK CAVE & The Bad Seeds (2016) Skeleton Tree




Da sempre preda delle proprie ossessioni riguardanti la religione, la morte, l’amore, la famiglia, la violenza, la società malata ed al contempo turbolento esploratore dei propri conflitti ed angosce interiori, l’australiano ha partorito Skeleton Tree affrontando la realtà della tragica perdita del figlio quindicenne, precipitato da una scogliera nel luglio 2015. Se si eccettuano le colonne sonore con Warren Ellis, mai come stavolta Cave ha lavorato musicalmente per sottrazione. Abituati agli eccessi dei Birthday Party e dei primi lavori da solista negli ‘80, quando ancora la rabbia e l’urgenza punk giovanile erano preponderanti, ma anche al cantore romantico ma mai pacificato di murder ballads coi Bad Seeds nei ’90-‘00, così come al rocker grintoso ma non più frustrato nelle parentesi coi Grinderman, l’ultimo album sorprende per il suono asciutto, essenziale, rarefatto: una sorta di ambient spettrale sulla quale declamare i testi, mai così centrali al disegno e fondamentali per comprenderlo. L’impressione generale è quella che l’album rappresenti una sorta di elaborazione ma non accettazione del lutto (“nothing really matters when the one you love is gone”, canta in I Need You) , piuttosto che una catarsi o una rassegnazione, e meno che meno una rimozione o negazione. I Bad Seeds svolgono un lavoro di supporto empatico a questa messa da requiem, che avrebbe potuto essere suonata parimenti da Brian Eno, o Daniel Lanois, o Nils Frahm, o James Blake. Non un capolavoro, ma la sincerità e la sofferenza palpabili lo posizionano anche assai lontano dalla noia anodina riportata in alcune recensioni. Nel primo brano del disco, Jesus Alone, l’incipit recita “You fell from the sky/crash landed in a field […] with my voice I am calling you”: insieme una preghiera a Dio ed un richiamo affettuoso al figlio.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Skeleton Tree, I Need You, Girl In Amber



ED LAURIE & STRAW DOG (2016) Dark Green Blue


Il londinese di nascita ma globetrotter per vocazione, attore e musicista Ed Laurie è al quinto lavoro a proprio nome ma al secondo in collaborazione con la backing band bolzanina Straw Dog. Grazie al combo nostrano le coordinate musicali del nostro, agli esordi dedito con pregevoli risultati ad un cantautorato prevalentemente acustico, intimista ma originale e prezioso (le influenze andavano da Leonard Cohen a Syd Barrett, da Jacques Brel a Robyn Hitchcock, piuttosto che guardare come i coevi a Nick Drake ed Elliott Smith; recuperare in tal senso Small Boat Big Sea del 2009 e Cathedral del 2011), hanno assunto una connotazione più precisa ed altrettanto valida, con riferimenti artistici che attualmente scomodano Lou Reed e soprattutto Nick Cave (grazie anche alla voce baritonale più declamata che cantata di Ed), ma nell’impianto musicale anche il mai dimenticato trio bostoniano Morphine del compianto Mark Sandman (come questi la conduzione dei brani è spesso a guida-sax baritono piuttosto che –chitarra). Laurie non è più una sorpresa, e gli Straw Dog sono da applauso. Da non perdere nella tournée in corso.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Dead Men’s Game, Cruel Kind of Love, Emperor You Fool





 

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