venerdì 27 maggio 2016

ANOHNI, REED TURCHI


ANOHNI (2016) Hopelessness



Antony Hegarty ha sempre scandagliato con la sua voce struggente le istanze dominanti, le angosce, i meccanismi di difesa del proprio vissuto personale, anche molto intimo. Musicalmente lo ha fatto per mezzo di un cantautorato colto (piano-voce e poco altro) allargatosi non solo occasionalmente all'orchestrale. A latere, ha espresso la propria dimensione sociale (la preoccupazione per il consumismo, per il fanatismo religioso e politico, la lotta per la salvaguardia dell'ambiente, l'antimilitarismo) solo nelle interviste e nelle proprie mostre di disegni/pitture, e per contro la gioia di vivere spensierata nella collaborazione al progetto di musica elettronica da dancefloor Hercules & Love Affair. Ora decide di unire i due opposti, i testi drammatici di impegno sociale con la musica elettronica: le liriche e la sua voce da brividi sono al solito da plauso, mentre la scrittura delle melodie e soprattutto la realizzazione in un'elettronica EDM per i miei gusti pacchiana (co-operano, ahimè troppo, due maghi del settore quali Daniel Lopatin e Hudson Mohawke) fanno storcere più volte il naso. Forse conscio di presentare "l'altro-sè", rispetto a quanti lo apprezzano nelle vesti di Antony & The Johnsons, ha deciso di pubblicare l'album a nome Anohni, il nomignolo con il quale viene chiamato da familiari ed amici, e con una bella copertina che sottolinea una dubbia identità sessuale (o forse anche musicale?). Perplessità emerse anche all'ascolto, che non solleva mai il disco dal ruolo di irrisolto e interlocutorio. Per un artista che in realtà non necessita di grandi cambiamenti, tanto può essere caratterizzante utilizzando solo piano e voce.
Voto Microby: 6.5
Preferite: Why Did You Separate Me From The Earth?, Drone Bomb Me, 4 Degrees




REED TURCHI (2016) Speaking In Shadows


Il chitarrista della band americana garage-blues Turchi pubblica un primo album da solista, con un suono meno sporco in cui in primo piano si apprezzano comunque sempre i riff di chitarra ed i duetti tra la slide del nostro e l’elettrica dei collaboratori (tra i quali anche il nostrano Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion), ma i fiati colorano spesso i brani. Il suono è complessivamente più vario rispetto alla band-madre, districandosi tra sanguigni rock-blues, ballate, R&B, americana, con riferimento a Rolling Stones, Jon Spencer Blues Explosion, Dream Syndicate, Thin White Rope. Un buon ascolto, ad alto volume, in auto d’estate.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Everybody’s Waiting (For The End To Come), Juggling Knives, Offamymind






 

martedì 24 maggio 2016

PJ HARVEY, YOUR FRIEND


PJ HARVEY (2016) The Hope Six Demolition Project





La più importante delle cantautrici emerse dagli anni ’90 persevera nell’impegno socio-politico con un’evoluzione naturale del capolavoro Let England Shake (2011). Lo fa non solo nei contenuti (il titolo si riferisce al progetto di rivitalizzazione urbanistica statunitense Hope VI) ma anche musicalmente: gli arrangiamenti volutamente imperfetti, i cori disordinati nello stile dei Clash di Sandinista, lo sferragliare delle chitarre (nei credits anche il bresciano Alessandro “Asso” Stefana) e lo stridore dei fiati (tra i quali il nostrano Enrico Gabrielli) sembrano guidati da un direttore d’orchestra distratto. L’effetto cercato è la spontaneità delle canzoni di protesta, che tuttavia pare a tratti quella dei canti dei collettivi studenteschi post-’68. Un album profondamente blues nel concetto, ma in cui il fatalismo rassegnato a dio della tradizione nera è sostituito dalla rabbia delle protest songs della tradizione bianca. Non siamo qualitativamente al livello di Let England Shake tuttavia, seppur inferiore nella scrittura, l’ultimo lavoro di Polly Jean Harvey si fa comunque apprezzare per la sincerità, la carica comunicativa, la rabbia poetica diretta discendente di Patti Smith.
Voto Microby: 7.4
Preferite: The Community of Hope, The Ministry of Defence, The Wheel



YOUR FRIEND (2016) Gumption



Timbro vocale indefinito, tra l’androgino e l’efebico, occorre informarsi per determinarne l’appartenenza alla 24enne Taryn Blake Miller, in arte Your Friend, al debutto nel natio Kansas. La quale su un tappeto di soundscapes languidi ed onirici alla Brian/Roger Eno sovrappone un cantato raccolto e malinconico, a ricordare il lavoro già proposto da Julianna Barwick tra avantgarde/ambient/new age, ma aperta a possibili evoluzioni nell’alt-R&B alla Chet Faker, FKA Twigs, Alex Banks. Al momento tuttavia l’atmosfera è solo affascinante e rilassante, al limite del piacevolmente noioso. Va riveduta e riascoltata quando sarà artisticamente più compiuta.
Voto Microby: 7.2
Preferite: Gumption, I Turned In, Come Back From It















 

giovedì 19 maggio 2016

JOE BONAMASSA, RAY LaMONTAGNE


JOE BONAMASSA (2016) Blues of Desperation



E’ singolare che, nei lavori del grande chitarrista americano, il genere musicale trattato sia omogeneo più nei progetti collaterali a più mani (Bloodline, Black Country Communion, Rock Candy Funk Party, gli album in coppia con Beth Hart) che nei progetti solisti, in cui esprime regolarmente un pout-pourri di tutte le influenze e passioni musicali che lo hanno segnato. Così anche Blues of Desperation, a dispetto del titolo, ci offre hard rock, soul, R&B, rock e ovviamente blues elettrico. I campioni di riferimento (già appaiati per tecnica chitarristica, non per scrittura e peso specifico nella storia del rock-blues) sono sempre gli stessi: Stevie Ray Vaughan, Eric Clapton, B.B. King, Jimmy Page, Jimi Hendrix. E le canzoni sono tecnicamente eccellenti, sanguigne e torride come gli assoli del nostro, motivo fondamentale per cui si acquistano i suoi album. Peccato che, nella sua pletorica produzione, manchi anche stavolta l’appuntamento col capolavoro. Ma in auto o in cuffia, quest’ultima prova carica che è un piacere.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Mountain Climbing, ThisTrain, No Good Place For The Lonely




RAY LaMONTAGNE (2016) Ouroboros

Chi avesse conosciuto ed apprezzato l’esordio (Trouble, 2004), un cantautorato intimo alla Bon Iver maggiormente screziato di folk e country, difficilmente riconoscerebbe il medesimo artista al sesto sforzo, Ouroboros (il serpente che si morde la coda, antico simbolo della ciclicità eterna delle cose), se non ne avesse seguito la metamorfosi progressiva verso il cantautorato pop-soul fino all’ultima sterzata verso la psichedelia di Supernova (2014). Ouroboros è figlio diretto di quest’ultimo album, compositivamente meno brillante e variegato, sebbene più focalizzato verso il pop psichedelico pinkfloydiano pre-Dark Side, con più modesti accenni al Laurel Canyon di marca Jonathan Wilson. Siamo sempre nell’orbita di fine anni ’60 – inizio ’70, ed il lavoro si ascolta con trasporto piacevolmente onirico: coraggioso, interessante e per certi versi sorprendente, tuttavia non riesce mai a sfondare. Ne attendiamo l’evoluzione.
Voto Microby: 7.4
Preferite: In My Own Way, Hey No Pressure, Homecoming





 

domenica 15 maggio 2016

Chat Noir - Nine thoughts for one word (2016)


A dieci anni esatti dal loro esordio, gli Chat Noir ribadiscono il cambio di rotta annunciato, fin dal titolo, con il precedente Elec3cities, album che fu concepito con il trio disseminato in tre punti diversi del pianeta.
Con questo nuovo disco, ufficialmente in vendita dal 20 maggio ma già disponibile in digital download (l’ho acquistato per modesti 5,96 euro, al cambio con la sterlina), la svolta si fa ancora più radicale. Dopo che l’anima più jazz del gruppo (il batterista Giuliano Ferrari) ha deciso di lasciare il trio originale per percorrere altre strade, nella formazione fa ufficialmente ingresso il guru dell’elettronica J.Peter Schwalm, che qualcuno di voi ricorderà nello strepitoso Drawn from life, scritto a quattro mani con Brian Eno.
Del titolo dell’album di Anouar Brahem che diede il nome al gruppo – una miscela di jazz e suggestioni di musica etnica – non rimane pressoché nulla. Le atmosfere si fanno più cupe e minacciose, il bassista Fogagnolo imbraccia anche il trombone e in un brano si sentono i versi di Alessandro Tomaselli, mentre Daniel Calvi fornisce un apporto tutt’altro che trascurabile su tre brani. Siamo in un territorio al crocevia tra elettronica, sperimentazione, rumorismo e vaghe sfumature jazz che sposta sempre di più il trio guidato dal pianista Michele Cavallari dalle parti del repertorio più tenebroso del trio di Esbjorn Svensson ma che conferma una vena compositiva e una voglia di ricerca ancora vivissime. Otto tracce una più suggestiva dell’altra, con una nona traccia, disponibile gratuitamente e scoperta cercando ulteriori informazioni sul cd, che può essere slucchettata previa richiesta sul loro sito ufficiale. Gran disco.

giovedì 12 maggio 2016

RADIOHEAD, ANDREW BIRD


RADIOHEAD (2016) A Moon Shaped Pool




Nello scorso decennio i membri trainanti dei Radiohead hanno liberato la propria ricerca chi in ambito elettronico (Thom Yorke), chi nell'avantgarde (il chitarrista Jonny Greenwood), con sconfinamenti nella classica contemporanea; senza mai realmente eccellere o quantomeno indicare, come invece fatto in passato, nuove e convincenti vie di espressione musicale. La stessa coesione stilistica del gruppo aveva risentito di questo tentativo, poco riuscito o ispirato, di vestire nuovi abiti, la cui confezione finale non è più risultata all'altezza di quanto espresso precedentemente. Per questi motivi non mi mancavano, i Radiohead. Li avevo inconsciamente archiviati tra i grandi del passato. Ma ora, per la prima volta dopo tanto tempo, smettono di rivolgere cerebralmente lo sguardo altrove e stanno invece finalmente comodi dentro i propri abiti (le stesse canzoni interpretate sono state scritte nel corso dell'ultimo ventennio). Abiti che non sono all'ultima moda semplicemente perchè, facciamocene una ragione, i Radiohead vestono un taglio che ha fatto scuola, ed ora è un classico. Di nuovo in pista ma mai pacificati, perchè la tensione del vivere quotidiano si esprime con la loro tensione musicale, dentro la quale fluttua, deflessa ed ansiogena, la voce di Thom Yorke. A ricordarci che i talent shows forse fotografano la vita reale, ma non quella artistica. Bentornato quindi l'ascolto della sofferenza: che possa essere catartico.
Voto Microby: 8
Preferite: Decks Dark, Daydreaming, Burn The Witch



ANDREW BIRD (2016) Are You Serious


La parabola ondivaga del violinista dell'Illinois (non per questo motivo, ma per affinità di ispirazione musicale associato giustamente a Sufjan Stevens) ha toccato folk rurale, indie-rock, chamber pop, avanguardia, passando con nonchalance dalla musica per immagini a quella da fischiettare sotto la doccia. Sempre con intelligenza. Are You Serious è il suo album più orecchiabile dai tempi del quasi-capolavoro The Mysterious Production of Eggs (2005, e come allora ha collaborato alla produzione con Tony Berg). E rappresenta, nella sua eterogenea discografia, il genere di Bird che preferisco: come non apprezzare l'originalità di un chamber pop confezionato col violino (pizzicato o archetto), l'ormai caratteristico fischiettìo, le tastiere morbide e la sezione ritmica gentile? Solare, primaverile, sereno, rassicurante.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Puma, Are You Serious?, Capsized



 

lunedì 9 maggio 2016

Recensioni: Nada Surf, They Might Be Giants

NADA SURF - You Know Who You Are (2016)
All’ottavo disco in oltre 20 anni di carriera, il quartetto newyorkese è sicuramente tra i migliori esponenti del power-pop moderno. Dopo una inizio di carriera votata alla informalità, alla semplicità ed alla spontaneità (Nada Surf sta per “it’s just surfing for nothing”) la loro musica vira poi verso un indie-rock di matrice profondamente yankee anche se contaminato da riffoni e coretti tendenzialmente brit-pop. Maestri nel rimescolamento delle carte, con il passare degli anni alternano energia e dream-pop, rumorismo e college-rock, il tutto senza mai fare i fenomeni ma restando espansivi ed impermeabili alle osservazioni di eccessiva leziosità ed uniformità. Quest’ultimo disco si conferma un’opera gioviale ma energica, sobria ma robusta e mai ordinaria.
Per gli amanti di Fountains of Wayne, Ed Harcourt, Frank Turner, Decemberists, Go-Betweens, Ben Folds.  Raccomandato, come i precedenti. Da ascoltare: Animal, Out of the Dark,  Friend Hospital. Voto: ☆☆☆☆



THEY MIGHT BE GIANTS - Phone Power (2016)

Ennesimo album per la band di Brooklyn cui sicuramente non manca la creatività. Nel 2015 hanno ideato il “Dial-A-Song Service”: praticamente basta telefonare al loro recapito (numero verde) per sentire la segreteria telefonica che fa ascoltare un brano, sempre diverso settimanalmente. Phone Power è il terzo album (+ un live) negli ultimi 12 mesi e contiene per la maggior parte proprio i brani riprodotti dalla loro segreteria: accanto ad alcune sicuramente perdibili c’è tuttavia un buon gruppo di belle canzoni con melodie accattivanti come di tradizione in contrasto con testi demenziali. Si passa dal drum-beat arricchito dai sintetizzatori moog di “Sold my mind to the Kremlin” al sound disco-pop anni ’70 di “I’ll be haunting you”, dalla cover in chiave rock energetica di “Bills, Bills. Bills” delle Destiny Child al folk con bongo e clarinetto di “Trouble Awful Devil Evil”. Insomma una sorta di album di B-Sides, con alcune gemme e repentine cadute di tono, che piacerà sicuramente ai loro fan ma che comunque è da raccomandare anche per chi non li conosce. Voto: ☆☆☆1/2


mercoledì 4 maggio 2016

CHARLES BRADLEY, BIBIO


CHARLES BRADLEY (2016) Changes



La storia è nota: scoperto da Gabe Roth della Daptone Records nel 2011, quando fino ai 62 anni si era guadagnato da vivere col mestiere di cuoco sfogando la propria passione per il soul nei piccoli clubs notturni, coverizzando (in modo strepitoso) James Brown, Wilson Pickett, Solomon Burke, Marvin Gaye, Bradley giunge ora al terzo album tra scrittura in proprio e covers anche sorprendenti (la title-track è dei Black Sabbath, 1972!), ma senza spostare di un millimetro la propria autentica interpretazione del soul-R&B targato Tamla-Motown dei ’60. Retro-soul ai massimi livelli, che come lui sanno proporre oggi solo Lee Fields e Sharon Jones, con il maggior pregio (che diventa anche il limite) di una fedeltà totale allo spirito e alla tecnica dei propri idoli, ed il difetto nell’assenza di evoluzione stilistica nell’arco dei tre lavori. Ma non sembra un obiettivo del nostro: la musica black dai ’60 è cambiata moltissimo, e Charles Bradley è invece un maestro di classicità.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Changes, Nobody But You, Ain’t Gonna Give It Up




BIBIO (2016) A Mineral Love

Mi piacerebbe assemblare un mio personale “The Best of Bibio” (in modo da scegliere i miei generi preferiti e scartare quelli che non sopporto) e non un ufficiale Best scelto dall’unico titolare del progetto, il polistrumentista-produttore inglese Stephen Wilkinson, che da sempre esibisce il proprio eclettismo musicale come caratteristica basilare. Elettronica, pop, folk, hip hop, movie soundtrack, dance, psichedelia, ambient, new age in uno stesso album, in cui si possono incontrare, ma mai in modo coeso, Boards of Canada e Robert Fripp, Buggles e Adrian Belew, Four Tet e Steely Dan, Stephen Merritt e Pet Shop Boys. Spesso dopo una canzone da spellarsi le mani segue una del genere musicale che non ascolteresti mai, e che non fitta per nulla con quella successiva. Insomma, viva la versatilità, ma quando gli ingredienti sono troppi bisogna essere dei geni perché la ricetta risulti vincente. E Wilkinson è bravo, ma non un fuoriclasse.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Town & Country, Gasoline & Mirrors, Petals





 

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