martedì 19 dicembre 2017

U2


U2 (2017) Songs of Experience



Non possiamo sul nostro blog non spendere due parole sull'ultima fatica di una band che abbiamo trasversalmente amato tutti. Persino controvoglia perchè dobbiamo ammettere che, cambiati noi-cambiati loro-cambiato il mondo, gli U2 non riescono più a soddisfare la proiezione dei nostri bisogni/desideri. Personalmente non ho mai sopportato lo snobismo dei critici rock (ai massimi livelli in Italia), per cui ogni "grande" band lo è finchè è di nicchia, e diventa "mediocre" non appena conquista le classifiche, magari proponendo le medesime soluzioni musicali che piacevano underground. In Italia si spara sugli U2 dai tempi di Pop (1997), e della produzione degli ultimi 20 anni se ne scrive neanche fosse la copia irlandese dei Pooh. Più che ingiusto (è vero che la band di Bono è stata grandissima fino a Zooropa, 1993) è sbagliato: gli U2 hanno sfornato fior di lavori pop-rock, sebbene non innovativi, in tutti gli anni zero, dimenticando come si fa ad essere ispirati ed originali solo nella diade più recente Songs of Innocence/Songs of Experience. Sì perchè se, per la prima volta nella loro carriera, il disco precedente era stato solo "carino", salvato dal mestiere e dalla classe, in quello attuale si fa fatica ad accettare la sorprendente mancanza di personalità che li porta ad essere talvolta la parodia di sè stessi, oppure a cercare soluzioni esterne (come l'affidarsi a produttori hipster) perchè dall'interno mancano idee. Non di scrittura, chè quando decidono di essere dei dubliners con l'adolescenza nei '70 abbracciano la semplicità e producono il meglio dell'album (sebbene già ampiamente ascoltato nella loro splendida discografia: vedi The Showman, You're The Best Thing About Me, Summer of Love). Mancano arrangiamenti e direzione ("it feels like U2's greatest aspiration is to be as graceful as Coldplay", All Music): il loro rock da arena, che pure li ha visti tra i massimi esponenti, è attualmente tronfio e dozzinale persino per gli adolescenti di oggi, e brani innodici ma sciapi come American Soul, Lights of Home, Love Is Bigger Than Anything In Its Way ed altri potranno esaltare i cori-singalong allo stadio ma commuovere solo cuori di bocca buona. Restano scampoli di antica (ma non più appassionata) classe, ma quel che resta anche dopo ripetuti ascolti è una carineria a sprazzi, un invito allo skipping, e soprattutto il crollo delle aspettative per l'attività futura della band (eccetto quella live, per la quale è giustamente famosa). Per dirla con un'immagine, gli U2 oggi sono finti come il colore dei capelli di Bono: peccato, perchè il cervello sotto la tinta resta quello di un grande artista, le cui priorità nella vita attuale non sono purtroppo musicali. "For the first time, U2 seem smaller than life" (All Music).
Voto Microby: 6.6
Preferite: The Showman, You're The Best Thing About Me, Summer of Love

lunedì 18 dicembre 2017

Recensioni: Asaf Avidan, The Weather Station, Bob Seger

ASAF AVIDAN - The Study of Falling (2017)

Terzo album per il giovane cantautore israeliano dalla voce fragile e malinconica, ma decisamente acuta e penetrante. Un suono viscerale, per un mix di blues, rock, folk, country con una timbrica che è stata definita “un insieme di Janis Joplin, Robert Plant e Jeff Buckley”. Un album brillante, indispensabile per i fans di Leonard Cohen, Tom Waits e del Bob Dylan di Time Out of Mind (“Holding on Yesterday”) ed ottimo da ascoltare in queste serate grigie con un buon bicchiere di rosso.
Da ascoltare: Sweet Babylon, The Study On Falling, Holding On To Yesterday. Voto: ☆☆☆☆



THE WEATHER STATION - The Weather Station (2017)

Canadesi di Toronto, al 4° album in quasi 11 anni di carriera, sono una buona band di folk delicatamente elettrico con toni introspettivi vagamente jazzati e talking blues psichedelici: il cuore pulsante del gruppo è la bravissima cantautrice Tamara Lindeman, voce e chitarra. Sempre in equilibrio tra acustico ed elettrico, i rimandi sono soprattutto Joni Mitchell e Bill Callahan ma anche Suzanne Vega, Aimee Mann, Ane Brun. Manca qualcosa per imporli alla considerazione generale ma si tratta comunque di una band (cantautrice) di grande talento. Da ascoltare: Thirty, You and I. Voto: ☆☆☆



BOB SEGER - I knew you when (2017)


Il leone di Detroit ha pubblicato tre album negli ultimi 22 anni, probabilmente perché non se la passa molto bene fisicamente (problemi imprecisati alle vertebre) anche se la voce non sembra aver perso un grammo della ruvida irruenza che l’ha sempre caratterizzata. Anche in questo disco la sua proverbiale ritmica rock-blues è il filo conduttore dell’album, ricco di tributi ai grandi che ci hanno lasciato negli ultimi anni: Lou Reed, Leonard Cohen e Glenn Frey. La migliore canzone del lavoro è proprio la ballata, in onore di Glenn Frey, che dà il titolo all’album; purtroppo la maggior parte degli altri brani appaiono decisamente meno riusciti intaccandone il giudizio complessivo. Da ascoltare: I knew you when. Voto: ☆☆

lunedì 13 novembre 2017

NADINE SHAH, ROBERT PLANT


NADINE SHAH (2017) Holiday Destination

E’ un’evoluzione musicale continua quella della britannica di origini pakistano-norvegesi, che si ripete solo nella qualità (alta). Su queste pagine al debutto nel 2013 (Love Your Dum and Mad) la si paragonava a Patti Smith, Marianne Faithfull, Carla Bozulich, Agnes Obel, e nel 2015 (Fast Food) ad una “Patti Smith che flirta con la musica dark di stampo 4AD”, ed in entrambi i lavori se ne lodava il talento nonostante un percorso ancora ondivago. Ora la Shah pare abbia deciso la direzione da prendere e presenta un album coeso le cui coordinate tuttavia non si discostano di molto dalle influenze maggiori: ora potremmo parlare di una Patti Smith degli esordi che incontra la P.J. Harvey degli anni ’90 passando attraverso Talking Heads e Morphine. Paragoni nobilissimi che nulla tolgono alla prepotente personalità dell’inglese, capace di frullare il rock cantautorale femminile dal post-punk ad oggi per darci una sua versione di stomaco e di testa, di ritmo e melodia, di impegno socio-politico e acume femminile. A partire dai titoli dei dischi, beffardamente disimpegnati là dove le copertine sono un pugno nello stomaco ed i testi un esame di realtà urgente e drammatico. Una gran bella realtà, a mio avviso superiore alle paragonabili Anna Calvi, Angel Olsen ed EMA, ed al medesimo livello artistico della più cantautorale Sharon Van Etten e della più glamour St. Vincent.
Voto Microby: 7.9
Preferite: Out The Way, Yes Men, Place Like This


ROBERT PLANT (2017) Carry Fire

Rispetto agli ex-sodali, la carriera solistica del cantante degli Zeppelin è sempre stata caratterizzata da una migliore qualità e versatilità: non un album meno che buono tra l'english rock mainstream degli esordi, quindi l'interesse per il country-rock e l'"americana" evoluti nel folk-rock inglese e nella contaminazione world subsahariana attuali. In questo senso Carry Fire è figlio diretto del precedente Lullaby...and The Ceaseless Roar (2014), pur essendo meno incisivo: la rabbia giovanile è mutata in uno sguardo pacato e meditabondo sul pianeta, la voce potente (per alcuni la più bella di sempre nel rock) fa più uso del colore e delle modulazioni timbriche che dei decibel, i musicisti dispiegano gran mestiere piuttosto che viscere: più Robbie Robertson-nativo americano che Led Zeppelin. Alla fine si ammirano suoni bellissimi a vestire canzoni solo discrete (le migliori sono quelle ad impronta folk-rock, sospese tra la tradizione gallese, il blues maliano ed i ritmi maghrebini), ma che è un piacere comunque ascoltare.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Carry Fire, Dance With You Tonight, The May Queen

mercoledì 8 novembre 2017

Recensioni: Liam Gallagher, Beck

LIAM GALLAGHER - As You Were (2018)

Non essendo proprio degli anni’80 Oasis, Blur e compagnia bella Britpop non sono mai stati una mia passione sfrenata, tuttavia, dopo lo scioglimento della band, ho avuto modo di seguire la carriera di Liam e Noel Gallagher, cercando di bypassarne le diatribe personali e, diciamolo, l’antipatia altezzosa che emanano (anche se devo dire la loro opinione su Brian May mi aveva molto divertito: “Il suono della chitarra di Brian May sembra che gli sia inceppato nel culo”). Molto ho apprezzato il progetto Beady Eye di Liam e devo ammettere di essere più attratto dal fratello L che da quello N. Ed in effetti anche in questo lavoro L è riuscito a filtrare sonorità anni ’60 e ’70 attraverso la sua vena Britpop. In particolare il brano Bold, Beatlesiano e Tompettyano quanto basta, Wall of glass, con quella giusta dose di energia elettrica, che pare scritta dai Black Keys e I’ve all I need dichiaratamente ispirato ai mitici La’s.
Insomma un disco che riesce ad essere vintage ma allo stesso tempo di un rock classico da cantare a squarciagola, per un autore di grande talento, carismatico e inconfondibile. Da ascoltare: For What It’s Worth, Bold, Wall of glass. Voto: ☆☆☆☆


BECK - Colors (2017)

Tredicesimo album e 25 anni di carriera per il geniale fricchettone Beck Hansen, da sempre identificato come illuminato reinterprete di folk-rock californiano (Morning Phase del 2014), di country-folk (Mellow Gold e Odelay) di funkmusic (Midnite Vultures), di folk acustico ed intimista (Sea Change del 2002), di Pop-rock latino (Guero), eccetera eccetera.

Colors è un disco squisitamente Pop, tendenzialmente vicino a Midnite Vultures, senza chitarre acustiche ma con sintetizzatori R&B alla Prince e ritmi dance ricchi di drum-machine. Un album che migliora di ascolto in ascolto e che esce lo stesso giorno di quello attesissimo di St.VIncent (appena recensito su queste pagine del blog) risultandone casualmente un album complementare, quasi a farne da prologo musicale. “Canzoni che ti rendono felice di essere vivo” dice Beck presentando questo disco. Da ascoltare: Dreams, Square One. Voto: ☆☆☆

lunedì 6 novembre 2017

ST. VINCENT


ST. VINCENT (2017) Masseduction
Quando il mondo musicale giovanile era semplicisticamente distinto in rockettari e discotecari, tra i primi i punti di riferimento al femminile erano Joni Mitchell per la musica acustica e Patti Smith per quella elettrica, e per entrambe lo strumento cardine era la chitarra. Con l’archiviazione a fine millennio della musica rock come genere musicale “storico”, derivato dal rock’n’roll ed evoluto in una pletora di sottogeneri (ma pur sempre identificato nella forza primigenia del trio chitarra-basso-batteria), ci si è trovati nel nuovo millennio allo sdoganamento della musica da dancefloor come parte integrante della nuova cultura musicale giovanile, non necessariamente frivola ma certamente nichilista anche quando arrabbiata. E, piaccia o no, i punti di riferimento al femminile sono da 20 anni Madonna per l’audience bianca e Janet Jackson per quella nera. L’americana Annie Clark, in arte St. Vincent, è certamente la più dotata tra le artiste impegnate nella crasi tra rock urticante, airplay radiofonico e discoteca, ma ad un primo ascolto di Masseduction paiono francamente esagerati i peana pressochè unanimi della critica: più che la sua chitarra acida e fuzzata (comunque un suo marchio di fabbrica) ad innervosire l’ascoltatore è il gioco di rimandi musicali e di cameo ad effetto che sa tanto di prodotto costruito in studio. E allora non bastano arrangiamenti che Madonna e Prince proponevano 30 anni fa per solleticare gli smaliziati ascoltatori non-teenagers, né una produzione trendy, né le ospitate al sax di Kamasi Washington (un altro idolatrato da una critica molto benevola) ed ai cori dell’ex fidanzata top model Cara Delevingne. Tutto questo, insieme al fatto di essere un’artista multimediale bella ed affascinante e di godere dell’appoggio e della stima prima di David Bowie, poi di David Byrne, fa molto glamour ma non hipster (di alternativo nella proposta musicale di St. Vincent c’è ben poco, anche se si apprezza il gusto nell’assemblaggio di idee vecchie e nuove). Poi si ascolta più volte l’album ed emergono una bella scrittura, che suona moderna anche quando non lo è (ma è un pregio riuscire a farlo), e che rappresenta benissimo la musica attuale bianca a suo modo impegnata e giovanile, urbana e nevrotica, che stimola ma permette anche l’evasione della sala da ballo. Manca, come in tutti i lavori precedenti (l’attuale è il quinto), la coesione che appartiene invece alla paragonabile Nadine Shah, ma a questo punto viene da pensare che sia una precisa scelta. In ogni caso un album da ascoltare per chiunque voglia avere una fotografia dello stato dell’arte musicale giovanile, lontano da quel genere una volta chiamato rock.
Voto Microby: 7.9
Preferite: Los Ageless, Masseduction, Happy Birthday Johnny

lunedì 23 ottobre 2017

THE WATERBOYS, FLOTATION TOY WARNING


THE WATERBOYS (2017) Out of All This Blue



Mike Scott sta attraversando un periodo di fertile ed energica creatività, evidentemente incomprimibile in modo più sintetico vista la necessità di pubblicare un CD doppio (23 canzoni per 100 minuti; altre 11 tra alternate version, strumentali, live, remix in un terzo bonus disk). Assumendosi i rischi del caso, non tutti dribblati. Il primo dato positivo e non sorprendente per i followers del dotato storyteller scozzese è che dopo la new wave tinta di dark degli esordi, il folk-rock celtico di mezzo, il rock mainstream e quindi colto successivi abbia attualmente approcciato la musica black: i costanti guizzi funky della chitarra ritmica e la prepotente ribalta della batteria non necessitano del supporto di archi e fiati (usati con parsimonia) perché la scrittura pop-rock si addentri nei territori Motown del R&B e del funky dei seventies. Generi che allora esprimevano gioia, esattamente come i Waterboys estroversi e comunicativi di oggi: senza per questo rinunciare a quella “big music” (un suono pieno, epico, romantico, di muscoli e di cuore ma di ispirazione mistica e filosofica) da loro inventata ed impugnata per descrivere molti coevi scozzesi (vedi Simple Minds, In Tua Nua, Hothouse Flowers, Big Country). Le note (poco) dolenti stanno nella prolissità del progetto (un taglio di 7-8 brani, piacevoli ma ridondanti, avrebbe giovato a sintesi ed incisività) e di alcuni singoli brani, in sé anche riusciti ma dalle “code” troppo tirate per le lunghe. Del tutto per completisti inoltre il bonus disk, che si ascolta quando ormai l’attenzione è scemata. Ma come per il precedente Modern Blues di 2 anni fa, la scrittura è di ottimo livello, la passione trasuda, l’energia è contagiosa e la classe palpabile. Un primo disco ottimo, un secondo discreto, un terzo senza valutazione. Per una band che dal vivo darà, al solito, spettacolo.
Voto Microby: 8
Preferite: Do We Choose Who We Love, If The Answer Is Yeah, New York I Love You, Nashville Tennessee


FLOTATION TOY WARNING (2017) The Machine That Made Us

Arriva solo 12 anni dopo il bel debutto (Bluffer’s Guide To The Flight Deck, 2005) la seconda prova di questo quintetto inglese originale (non solo nella ragione sociale, ma anche nei titoli di album e canzoni, nei temi dei testi e soprattutto negli arrangiamenti). Non cambiano le coordinate, che guardano alla new wave albionica colta e al pop intelligente degli ’80 (leggi XTC) così come alle proposte musicali mesmeriche ed affascinanti degli americani Mercury Rev e Midlake nei ’90. Ora come all’esordio col difetto di proporre melodie belle ma prolisse nello svolgimento, ed arrangiamenti singolari (quasi assenti le chitarre, cospicui i cori) ma talvolta ridondanti. Elegantemente stravaganti.
Voto Microby: 7.4
Preferite: A Season Underground, King of Foxgloves, Controlling The Sea 




giovedì 19 ottobre 2017

ELLIE HOLCOMB


ELLIE HOLCOMB (2017) Red Sea Road



Al secolo Elizabeth Bannister, figlia di Brown Bannister che produce il disco e moglie di Drew Holcomb (coi suoi Neighbors è regolarmente sulle pagine del nostro blog) che partecipa marginalmente al lavoro, Ellie Holcomb è al secondo album di quelli che negli States vengono catalogati come “Contemporary Christian Artists”, i cui testi sono cioè dedicati a tematiche religiose e nei quali l’amato non è il proprio uomo ma dio in persona. Qualcosa di simile all’ultimo disco di CeCe Winans ed al gospel in generale, dai quali tuttavia si distingue musicalmente per le radici totalmente diverse, blues-spiritual nella popolazione nera e folk-country in quella bianca. Sempre a differenza dei black artists, che spesso diventano delle stars a tutto tondo, i CCA vivono le esperienze musicali come corredo ad una vita da buoni cristiani, defilata e con scarso interesse per il successo. Ciò non toglie estrema professionalità alle loro produzioni, e nello specifico quella della Holcomb/Bannister è una deliziosa prova di folk-pop dalla scrittura brillante e dagli arrangiamenti ricchi e raffinati, che spazia tra ballads e brani più vivaci dall’appeal radiofonico, con refrains gradevolmente appiccicosi. Omettendo i testi, si potrebbe pensare ad una prima Natalie Imbruglia virata folk-pop. Essendo dichiaratamente l’artefice più interessata a dedicarsi a marito, figli ed una vita da buona cristiana piuttosto che alla promozione di sé stessa come artista, è prevedibile per lei un futuro da autrice piuttosto che esecutrice: le belle linee melodiche e la propensione per il pop catchy che le appartengono potrebbero diventare successi per interpreti di grido. Noi con Red Sea Road ci possiamo godere un disco delizioso, piacevole e perfino disimpegnato, se diamo ai testi il significato che più ci appartiene, religioso o laico che sia.
Voto Microby: 7.7
Preferite: He Will, Find You Here, Red Sea Road

domenica 8 ottobre 2017

BENJAMIN CLEMENTINE, WILL HOGE


BENJAMIN CLEMENTINE (2017) I Tell A Fly

Due anni fa, in occasione del sorprendente debutto che gli era valso il Mercury Prize, scrivevamo sulle pagine del blog: “Ora potrà suonare blues, soul, easy listening, avantgarde o cantare in chiesa o per strada: ha il talento per fare quello che vuole, speriamo non lo sprechi”. Non lo ha fatto, anzi ci stupisce di nuovo con un album che rifugge la semplicità eppure risulta morbosamente seducente: arrangiamenti obliqui su un canovaccio di nuovo trasversale, che abbraccia soul, folk, classica ed opera, che complessivamente potrebbe essere catalogato come old-fashioned art-pop, ma che ovviamente sfugge ad ogni clichè. Potremmo parlare di “canzoni” (con associato appeal radiofonico) solo per 3-4 brani; gli altri sono costruiti su un tema conduttore spesso appeso a un filo, tra interludi/intermezzi musicali e non, ampi fraseggi di pianoforte romantico ed innesti di clavicembalo barocco, diffusa, rude ma versatile percussività rock (il batterista francese Alexis Bossard, già presente all’esordio e fido compagno di tournèe), accenni di elettronica ben finalizzata, e la solita bellissima voce al servizio di una grande personalità. A questo punto i paragoni con Nina Simone, Antony Hegarty, John Legend, Edith Piaf, Michael Kiwanuka (ed ora anche Rufus Wainwright) lasciano il tempo che trovano: solo Benjamin Clementine sa dove andrà a parare la prossima volta. Noi di sicuro saremo tra i curiosi fans di questo singolarmente talentuoso musicista britannico di geni ghanesi, che invece di salvare la regina canta “God Save The Jungle”.
Voto Microby: 8.5
Preferite: By The Ports of Europe, Ave Dreamer, Ode From Joyce


WILL HOGE (2017) Anchors
Cantautore a stelle e strisce a tutto tondo, già autore di discreto successo per altri interpreti, voce calda e colloquiale, Will Hoge propone con Anchors il suo lavoro più equilibrato: una sorta di malinconica intimità alla Wildflowers di Tom Petty, con screziature qua e là del John Mellencamp rurale, dell’immediatezza di Bruce Springsteen e della psichedelia controllata dell’ultimo Ray LaMontagne. Buon album elettroacustico che fa ben sperare per il futuro, ma che già ora testimonia una bella realtà.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Baby’s Eyes, Anchors, Little Bit of Rust

martedì 3 ottobre 2017

Tom Petty: Uno dei più grandi.


Se ne è andato anche lui. Non riesco ancora a crederci: Petty era uno delle mie leggende personali, uno di quelli che non puoi credere che un giorno o l'altro debbano lasciare questa valle di lacrime.
Nato in Florida a Gainesville e cresciuto a pane e rock'n'roll viene segnato da Dylan, Presley e  soprattutto da Roger McGuinn dei Byrds e Don Felder degli Eagles, il cui suono è uno dei segni distintivi del suo primo gruppo, gli Epic, che diventeranno poi Mudcrutch e infine gli Heartbreakers.
Il modo migliore di ricordarlo è quello di ripercorrere la sua produzione artistica ed andare ad ascoltarcelo ancora di più.

Tom Petty & The Heartbreakers (1976). Voto: ☆☆☆☆ Esordio migliore non ci poteva essere. Un ottimo disco di puro rock'n'roll con un paio di classici assoluti (American Girl e Breakdown) ma nonostante tutto l'album è un mezzo insuccesso (eravamo in pieno periodo punk-rock).
You're Gonna Get It (1978). Voto: ☆☆ La crisi del secondo album è una costante del rock. Per fortuna il disco vende un pò di più (trascinata dal singolo Listen to your heart) ma non abbastanza per farlo conoscere.
Damn the Torpedoes (1979). Voto: ☆☆☆☆☆ Capolavoro assoluto. Uno splendido disco di rock puro con brani quali Refugee, Even the Losers, Don't Do Me Like That e Here Comes my Girl ed in cui il suo sound comincia a caratterizzarsi sempre di più, diventando identificabile.
Hard Promises (1981). Voto: ☆☆  Un album discreto con qualche brano interessante e senz'altro migliore del successivo Long After Dark (1982). Voto: ☆☆ Ok, erano gli anni '80, ma un disco quasi elettronico non si poteva digerire da Petty! In ogni caso il brano You Got Lucky è sicuramente uno dei suoi classici.
Southern Accent (1985) Voto: ☆☆☆ è un album altalenante con un paio di brani che diventeranno cavalli di battaglia nei live (Don't Come Around Here no More e Rebels).
Pack up the plantation! (1985). Voto: ☆☆ E' un disco live senza particolari sussulti (a parte il duetto con Stevie Nicks "Needles and Pins") ed anche il successivo disco in studio Let me up (I've had enough) (1987) Voto: ☆☆ è un pò sottotono ma poi c'è l'incontro con Bob Dylan che lo coinvolge dei Traveling Wilburys e lo introduce a Jeff Lynne che collaborerà con lui nel magnifico Full Moon Fever (1989). Voto: ☆☆☆☆☆, altro disco fantastico con alcuni brani magnifici (Free Fallin', Yer So Bad, I Don't Back Down). La grande ispirazione continua con Into the Great Wide Open (1991). Voto: ☆☆☆☆ con la bellissima title-track e un altro classico (Learning to Fly). Petty continua a girare il mondo ed i suoi concerti sono all'altezza dei grandissimi: si pensi al film di Bogdanovich del 2007 che ha provato a documentarne la forza espressiva....
I successivi dischi sono Wildflowers (1994)Voto: ☆☆con le bella Hard on Me, It's Good to Be King e Wake Up Time, She's the one (1996) Voto: ☆☆, Echo (1999) Voto: ☆☆, il mediocre The Last DJ (2002) Voto: ☆☆, Highway Companion (2006) Voto: ☆☆, disco decisamente cantautorale in chiaro omaggio a Dylan e Neil Young, Mudcrutch (2008) Voto: ☆☆, lo psichedelico e vintage-blues Mojo (2010) registrato in presa diretta Voto: ☆☆☆☆, Hypnotic Eye (2014) Voto: ☆☆ (Sorry Microby, so che ti era piaciuto molto...), Mudcrutch 2 (2016)Voto: ☆☆☆.  
Dio mio come ci manchi.

lunedì 2 ottobre 2017

GREGG ALLMAN, NICK MULVEY


GREGG ALLMAN (2017) Southern Blood



Gregory Lenoir “Gregg” Allman, cantante e tastierista della Allman Brothers Band e con essa leggenda del southern rock a stelle e strisce, ci ha lasciati a quasi 70 anni lo scorso 27 maggio, a causa di un carcinoma epatico complicanza dell’epatite C di cui soffriva da tempo. Ma lo ha fatto musicalmente nel modo migliore, lasciandoci una pubblicazione postuma che rappresenta probabilmente il suo lavoro più compiuto, di valore, che esprime a tutto tondo lo straordinario amalgama di blues, soul/R&B classico, southern rock e roots di cui è stato capace in mezzo secolo di carriera (anche quella solistica è di buon livello, se si eccettua il tonfo artistico in coppia con l’allora moglie Cher). Con l'eccezione di due ottimi brani autografi, gli altri sono eccellenti cover di grandi autori del calibro di Bob Dylan, Lowell George, Jerry Garcia, Willie Dixon, Muddy Waters, Percy Sledge, Johnny Jenkins, Jackson Browne (co-interprete della sua struggente Song For Adam). Supportato da una band al solito di livello stellare e dalla produzione calda e brillante di Don Was, con grande profusione di fiati (che l’hanno sempre distinto dalla ABB e dal sopravvissuto della medesima, il chitarrista Dickey Betts) ed ampia varietà melodica, Gregg riesce perfino a dare un’impronta soul a Once I Was di Tim Buckley, ed un’aura irlandese al classico Black Muddy River dei Grateful Dead. Imperdibile per chiunque ami il genere ed il suo autore, ma anche formidabile punto di partenza per chi voglia approcciarsi alla fantastica miscela di musica bianca e nera partorita nel dopoguerra dal Sud degli States, “Southern Blood” rappresenta il miglior epitaffio per un grande artista.
Voto Microby: 9
Preferite: My Only True Friend, Black Muddy River, Song For Adam


NICK MULVEY (2017) Wake Up Now
 Sorprendente all’esordio folkie da solista nel 2014, il chitarrista e percussionista del combo inglese etno-jazz Portico Quartet non si ripropone purtroppo ai medesimi livelli. I bei ritmi (dalle parti del Paul Simon “sudafricano” e dell’australiano Xavier Rudd) ora la fanno da padrone, con risultati che fanno pensare ad un Jack Johnson privato della sua impagabile leggerezza, ed il passaggio in secondo piano degli intensi e raffinati arpeggi acustici lo allontana dai precedenti paragoni con Nick Drake e soprattutto John Martyn. Un album comunque di discreto spessore, con belle melodie pop che hanno purtroppo il difetto della prolissità, per un autore che continua tuttavia a possedere il dono dell’originalità e che va pertanto tenuto d’occhio.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Unconditional, Imogen, Mountain To Move


venerdì 22 settembre 2017

Recensioni al volo: Nick Heyward, Peter Perrett

NICK HEYWARD - Woodland Echoes (2017)

Trentasette anni dopo il primo lavoro con gli Haircut 100 e 18 anni dopo l’ultimo disco da solo, NH scrive ancora con la consueta semplicità rilassata, quasi bucolica. I suoi attuali riferimenti principali sono Badly Drown Boy, Roddy Frame e Paul McCartney (“Love is The Key to The sea”), Beautiful South e Crowded House, anche se, sia pur raramente, si spinge verso brani power pop ad influenza quasi indie modello XTC. Un buon album pop classico per questi primi pomeriggi di autunno. Da ascoltare: Love is the Key by the Sea, I Got a Lot, For Always. Voto: ☆☆☆1/2





PETER PERRETT - How the West Was Won (2017)

Disco del mese per Mojo, Uncut e Record Collector, è l’inatteso “comeback” di PP, già leader degli Only Ones, gruppo rock classico in auge tra la fine degli anni ’70 e l’alba degli anni ‘80, quando l’Inghilterra venne travolta da New Wave e Punk. Il gruppo era una specie di mix di Television, Velvet Underground e Replacements con accenni glam sul genere Mott The Hoople. 
Perrett ripropone le atmosfere sonore di quegli anni, mitigate nei loro istinti più eccessivi ma senza rinunciare ai toni melodrammatici e psichedelici alla Television o Soft Boys.

Il risultato è un disco molto interessante con predilezione verso la ballata rock con le sue tradizionali componenti: melodie, riff chitarristici, accelerazioni di ritmo, distorsioni vibranti. Sicuramente un disco fuori tempo ma che, come spesso accade, spazza via il concetto di “trend” musicale per farci ripensare alla qualità ed all’arte. Da ascoltare: Sweet Endeavour, How The West Was Won, Troika. Voto: ☆☆☆☆

martedì 19 settembre 2017

Sky Music: A tribute to Terje Rypdal (2017)



Il 23 agosto Terje Rypdal ha compiuto 70 anni, peraltro portati malissimo. Nel 2007, quando lo sentii suonare dal vivo per la terza e temo ultima volta, era già messo malissimo. Si esibì da seduto e un mio ex studente, che nel frattempo aveva trovato la sua strada come fotografo, mi disse che durante le prove, alle quali aveva potuto partecipare, non fece che tirar fuori dalla tasca della giacca una fiaschetta per berne compulsivamente il contenuto. La trasformazione fisica attribuibile all’alcol è evidentissima passando in rassegna le fotografie che lo ritraggono: il bel marcantonio degli anni ’70 ha lasciato il posto a un gigante imbolsito che si muove a fatica.
Proprio il 23 agosto la norvegese Rune Grammofon ha aggiunto al proprio notevole catalogo (Biosphere, Arve Henriksen, Food, Alog, Espen Eriksen) un tributo al titanico chitarrista e compositore norvegese,k dove a una band guidata dal tastierista Ståle Storløkken (con Rypdal in Vossabrygg e Crime Scene) e chiamata per l’occasione Sky Music (Skywards era il titolo di un disco del 1997) si aggiungono le performance soliste di Bill Frisell, Nels Cline e David Torn. Davanti a nomi del genere devono essere fatte subito due considerazioni: la prima è che la chitarra di Rypdal, con suo quel suono così liquido capace di vulcanizzazioni improvvise, ha una sua “voce” riconoscibilissima. Nonostante la straordinarietà delle sue composizioni, dunque, affidare brani come Ørnen, Avskjed e What comes after a musicisti dal suono altrettanto distinguibile e dalla personalità ciclopica significa tentare un’arditissima operazione. Mutatis mutandis, è come se Mozart si fosse messo a suonare Bach. La seconda considerazione è legata a ciò che è riuscita a fare la band Sky Music, affidando il ruolo centrale al chitarrismo muscolare di Raoul Björkenheim (già leader dei Krakatau, ma qualcuno lo ricorderà anche al fianco del compianto Edward Vesala in Lumi), che esaspera la dimensione metal delle composizioni di Rypdal. Quanto al repertorio, ricordando che la produzione del nostro si suddivide equamente tra un jazz-rock ad alto livello di contaminazione e partiture sinfoniche e orchestrali, è solo dal primo versante che viene selezionato (comprensibilmente e per dare coerenza all’intera operazione) il materiale suonato, con una netta predilezione per il Rypdal degli anni ’70, senza dubbio il decennio più creativo della sua carriera (il suo ultimo miracolo, a mio personalissimo giudizio, è il sinfonico Lux aeterna, vecchio ormai di tre lustri). È da quella straordinaria stagione che provengono brani come Over Birkerot, Silver Bird Heads For The Sun, What Comes After, Though Enough, Rolling Stone, Avskjed e Sunrise. Qualcosina viene anche lasciata alla creatività degli altri musicisti che partecipano al tributo, tra i quali spiccano i nomi di Jim O’Rourke, Henry Kaiser e del violoncellista Erik Friedlander. A loro e a tutti gli altri si deve un tributo comunque necessario a uno dei musicisti che più hanno contribuito a ridisegnare il concetto di musica jazz, dilatandone i confini verso territori inesplorati che hanno finito per fare scuola.

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