Sin
dall’esordio discografico nel 2015 la band di Liverpool, da sempre
trainata dal cantante, chitarrista e principale compositore Kieran
Shudall, è stata paragonata ai newyorchesi Strokes. In realtà nel
tempo i lavori (l’attuale è il quarto) si sono diversificati pur
mantenendo sempre un british
mood, ed i
riferimenti musicali attuali collocano il quartetto a fianco di un
punk-pop
più Arctic
Monkeys che
Green Day (vedi Be
Your Drug o Call
Your Name), di un
indie rock
che richiama Rascals,
Vaccines, Maximo Park e Libertines, di spunti melodici in odore ed
archi Last Shadow
Puppets (The
Things We Do Last Night
e Love You More),
di synth-pop
come i migliori gruppi new wave degli ’80 (i singoli Sad
Happy e Hope
There’s A Heaven),
di malinconie intime alla Coldplay
(Birthday Cake
e Sympathy).
Questi ultimi ricorrono anche nella struttura dell’album, diviso in
due parti: Sad /
Happy, ad indicare
i due diversi stati d’animo della Everyday
Life, che
ricorderemo la band di Chris Martin aveva diviso in Sunrise
/ Sunset. Forse un
disco persino troppo eclettico per alcuni, che nonostante la
brillantezza delle singole canzoni faticano in effetti a costituire
un unicum.
Non necessariamente una fragilità, anzi per molti un punto di forza.
In ogni caso un album consigliato, energico e trascinante quando è
“happy” e tenero e consolatorio quando è “sad”.
Voto
Microby: 7.8
Preferite:
Jacqueline,
The Things We Do Last Night, Sad Happy
MANDY
MOORE (2020) Silver Landings
Da
pop-singer per teenagers da TV-series negli anni ’90 ad attrice e
moglie di Ryan Adams, alla separazione e maturazione in raffinata
interprete di adult-pop
che con Silver
Landings la colloca
dalle parti del soft-rock californiano di fine anni ’70 e del
pop-rock elegante dei Fleetwood
Mac zona-Mirage
(1982). Manca l’energia del rock ma gli arrangiamenti patinati e la
voce vellutata vestono canzoni di buona qualità.
Voto
Microby: 7.4
Preferite:
Tryin’
My Best Los Angeles, Easy Target, I’d Rather Lose
Con l’eccezione del qualitativamente modesto album di cover
dello scorso anno (California Son),
era dal 2017 del discontinuo ma discreto Low
In High School che l’ex frontman dei The Smiths non pubblicava materiale.
Insopportabile per molti ma geniale per tutti, icona assoluta del movimento
LGTB, ma soprattutto musicista tra i più carismatici ed influenti della musica
inglese dei decenni post-punk, pur non partorendo più capolavori all’altezza
della band-madre “Moz” nei tredici album della carriera solista ha comunque
dato alle stampe più di una prova eccellente. Quarto lavoro prodotto da Joe
Chiccarelli, che ahimè asseconda l’io ipertrofico del personaggio lavorando
solo per addizione, I Am Not A Dog On A
Chain ci presenta il musicista mancuniano in ottima forma: pur nel menu
variegato degli arrangiamenti ed in qualche scivolone evitabile (il synth-pop Once I Saw The River Clean e la noiosa The Secret of Music, entrambe peraltro
fuori contesto), l’ultima prova di Morrissey si avvale di ottima scrittura
melodica, della voce che ha affascinato almeno due generazioni, e di escursioni
in generi musicali (troppo) differenti, ma alla fine realizzate in modo mai
banale. Almeno 3-4 i potenziali singoli, musicalmente (va da sé che i suoi
testi sono sempre stimolanti) interessanti anche per la generazione dei millennials. Una prima parte eccellente
ed una seconda solo discreta fanno comunque di I Am Not A Dog On A Chain un disco di pregio, il suo migliore
dell’ultimo decennio. Artista di talento e mito conquistato sul campo, Moz
merita fiducia ad ogni sua uscita perché, come recita il titolo, difficilmente qualcuno
riuscirà a ridurlo in catene.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Love Is On Its Way Out, Bobby
Don’t You Think They Know?, I Am Not A Dog On A Chain
Il sesto album degli Strokes viene dopo un lungo periodo (7 anni) in cui i vari componenti del gruppo hanno lavorato su altri progetti (ultimo dei quali, un concerto per Bernie Sanders, li ha visti tornare insieme in concerto quest’anno) facendo temere lo scioglimento della band. Gli Strokes fanno parte dell’ultima generazione delle rock band, come i Libertines, gli White Stripes, i Kings of Leon, Franz Ferdinand, Interpol, Arctic Monkeys, i Killers, ecc ecc.
Prodotto da Rick Rubin, il sound sembra essersi spostato verso altri territori ma Julian Casablanca e soci ci hanno sempre abituato ai loro incessanti passaggi tra electropop, post-punk e kraut-rock. Quindi dimentichiamoci gli Strokes di Is This It (del resto sono passati 19 anni…) una sorta di album maledizione (un pò come Turn On the Bright Light lo è stato per gli Interpol) dopo il quale ogni successivo lavoro veniva di regola paragonato a quel capolavoro. Nel disco si sentono Billy Idol, i Modern English, i Psychedelic Furs, perfino i Toto e i Daft Punk. Il risultato è un disco onesto, sincero e convincente: i cinque newyorchesi fanno ancora ottima musica, piena di passione e creatività. Da ascoltare: The Adults Are Talking, Brooklyn Bridge To Chorus, Bad Decisions, Ode To The Mets.
Esponente
di spicco del rock psichedelico californiano degli anni ’80 (il
cosiddetto “Paisley Underground”, di cui erano alfieri anche
Green On Red, Rain Parade, Bangles , Three O’Clock, Long Ryders tra
gli altri) e scioltosi nel 1990 dopo alcuni album pregevoli, il
Sindacato del Sogno ha sorpreso tutti con una reunion nel 2012 che ha
ripreso il discorso là dove era stato interrotto, suscitando unanimi
consensi nei tre dischi pubblicati da allora. Compreso l’attuale,
in cui il leader naturale Steve
Wynn ha portato
alle estreme conseguenze il linguaggio sonoro della band: 58 minuti
divisi in cinque lunghi brani a partire dall’azzardato singolo, The
Regulator, un
suicidio commerciale di 20’27", da cui non si discostano molto gli
altri brani, dall’impalcatura quasi esclusivamente strumentale cui
si accompagnano spoken
words più che un
cantato vero e proprio. Il clima è elettrico ed ovviamente coagulato
intorno ai tre chitarristi (Steve Wynn, Jason Victor e Paul B.
Cutler), ma non meno rilevanti appaiono i contributi degli ospiti,
dalle tastiere liquide di Chris Cacavas al sitar dell’ex Long
Ryders Stephen McCarthy, e soprattutto il sax jazz di Marcus Tenney.
Come già avvenuto per il brillante recente esordio dei The
Third Mind (vedi
recensione sul blog) la tecnica è stata quella di chiudersi in
studio e lasciare i musicisti liberi di improvvisare su un canovaccio
scritto. Il risultato non è né posticcio né pasticciato, e tutto
fuorchè debole. Fuori luogo parlare di jazz, come se
l’improvvisazione appartenesse solo a questo genere, soprattutto
perché in The
Universe Inside
manca lo swing,
mentre il groove
è assolutamente rock, esattamente come la sezione ritmica (gli
originali Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria) che non
ha nulla della libertà del jazz ed anzi è trainata da una batteria
motorik.
Ha certamente più senso parlare di psichedelia,
totalmente nel DNA dei nostri, perché la libertà dei fraseggi e
delle citazioni è contaminata a 360°, ed il mood
è ipnotico e lisergico ma denso, arrembante, a tratti sinistro, mai
sognante e pacificato. Più che John Coltrane od Ornette Coleman
questo riuscito azzardo della band americana riprende e colora le
tele dell’acid
rock californiano
di fine sixties contaminandole con i Pink
Floyd barrettiani
ma soprattutto con il Canterbury
sound ed il krautrock
dei seventies (non a caso gli inventori del motorik in 4/4 sono stati
i batteristi Jaki Liebezeit dei Can e Klaus Dinger dei Neu!, gruppi
che in The Universe
Inside si scorgono
in molti passaggi), spingendosi a citare Fela
Kuti, il Miles
Davis di
Bitches Brew
ed il David Bowie
di Heroes
ma soprattutto di Blackstar,
al netto della capacità di sintesi di quest’ultimo, laddove i
nostri cercano la dilatazione. Un album sorprendente, teso, ostico,
estremo ma in linea con il percorso musicale dei Dream Syndicate:
cerca spessore, non leggerezza, e dispensa profondità, non eleganza.
Voto
Microby: 8 Preferite:
Dusting
Off The Rust, The Regulator
Lasciate un pò da parte le esagerate sofisticatezze dei suoi più recenti lavori, PM, nonostante ormai veleggi verso i 66 anni, sembra essere tornato alla freschezza dei suoi primi lavori (quelli con il compianto Lyle Mays, tanto per essere chiari), probabilmente grazie alla ispirazione dal mitico Ron Carter, già membro del leggendario quintetto di Miles Davis e compagno di tournée un paio di anni fa. Così come aveva insegnato Miles infatti, la capacità creativa e l’improvvisazione vanno sviluppati tra la tradizione del passato e la capacità di adattamento al nuovo. E proprio l’ottima interazione con le tastiere del gallese Gwilym Simcock e gli stacchi di batteria del veterano Antonio Sanchez sono la chiave del grande equilibrio musicale dell’album, impreziosito dalla voce di Meshell Ndgeocello nella title-track. Ne emerge l’inconfondibile sound della guitar-synth di PM, ricco di crescendo e ripetizioni, con uno stile a tratti cinematografico ed enfatico, ma senza appesantire troppo le agili trame musicali. Da ascoltare: Everything Explained, Wide and Far, You Are.
BLACKIE
AND THE RODEO KINGS (2020) King of This Town
Mi
sono avvicinato con sufficienza all’ultimo album di questa band
canadese poco conosciuta dalle nostre parti. La ragione sociale con
quel “rodeo” di mezzo che evoca cowboys, cappellacci Stetson e
cavalcate di tori, con annesso ultraconservatorismo sociale e
musicale mi teneva alla larga dall’ascolto, nonostante ne avessi
letto ottime recensioni. Tra i vantaggi del lockdown da COVID19 ci
sta fortunatamente anche la maggiore disponibilità di tempo, ed una
curiosità più dilatata. Così l’ascolto del nono (e da quanto
leggo tutti apprezzabili) lavoro del gruppo mi ha permesso di
scoprire un gioiellino. La open band è da sempre organizzata intorno
ad un supertrio di compositori/chitarristi del genere: Colin
Linden, il
cuore più southern-blues e country-rock, collaboratore di Luther
Dickinson e Robert Plant, e produttore tra gli altri di Keb’Mo’ e
Bruce Cockburn; Tom
Wilson, l’anima
più rock-blues, già nei Junkhouse e nei Lee Harvey Osmond; e
Stephen Fearing,
già autore in proprio di una dozzina di dischi di impronta folk.
Insieme ad eccellenti turnisti licenziano un album che riflette la
copertina, una corona in fiamme (magari fosse quella del
coronavirus!): genere “americana”
allargata come sanno fare i canadesi, in un blend
di southern-country, folk acadiano, rock-blues con
influenze gospel e profumi di Louisiana. Splendidamente assortite le
parti vocali (ben distribuite tra i tre, con eccellenti
armonizzazioni) e gli inserti chitarristici acustici ed elettrici,
variegati come le differenti tecniche dei tre chitarristi (la mia
menzione personale va a Linden), così come di pregio è la
scrittura. Comunque lo si voglia classificare (americana,
country-rock, southern folk, folk-blues), King
of This Town è
album da considerare nelle classifiche di fine anno per tutti gli
appassionati di “american
roots”.
Voto
Microby: 8
Preferite:
World
Gone Mad, Baby I’m Your Devil, Walking On Our Graves
Al settimo album, con alle spalle tre nomination ai Mercury ed una ai Grammy, ma soprattutto al primo dopo aver passato i 30 anni, Laura è cresciuta e fa i conti con nuove prospettive, anche alla luce del suo recente master in psicanalisi.
Per più di 10 anni LM è stata identificata con la più classica esponente del NuFolk, evocando immagini di chitarre acustiche e ballate delicate. In questo caso l’evoluzione è verso un genere sempre improntato al cantautorato, ma arricchito di melodie sorprendenti, con cambi di ritmo ed improvvisazioni. Si tratta di una specie di concept album, originariamente previsto per la pubblicazione ad agosto ma che LM ha fortemente voluto condividere in questo momento di quarantena (“In light of the change to all our circumstances, I saw no reason to hold back on something that, at the very least, might entertain, and, at its best, provide some union.”). La mossa è sicuramente generosa ma anche astuta, visto il tempo a disposizione che permette di concentrarsi maggiormente sulla musica e sulle arti in generale e visto che la maggior parte dei musicisti ha pensato di posticipare le uscite a causa della pandemia in corso.
In realtà la figlia del titolo è solo immaginaria ma le sue tematiche fortemente connotate verso la responsabilità e le conquiste femminili sono ora viste attraverso una lente differente, più adulta e dinamica, immaginate come una lettera d’amore ad una figlia ipotetica. Un lavoro altamente raffinato, con poche percussioni e molto fingerpicking, ricco di arrangiamenti intricati ma sempre profondamente melodici e con la voce di Laura, più cristallina e balsamica che mai. Come già detto in passato nelle precedenti recensioni, Joni Mitchell ha trovato una sicura e degna erede. Da ascoltare: Alexandra, Held Down, Fortune.
Decennale gruppo canadese che affonda le sue radici nel pop psichedelico anni ’60 (13th Floor Elevators e compagnia bella) ma anche nel garage-rock e nel power-jangle-pop più contemporaneo, si caratterizza per il ricorso agli strumenti della musica tradizionale indiana. Le ispirazioni, dichiarate dallo stesso Rishi Dhir, bassista, sitarista e leader del gruppo, arrivano tutte dai gruppi rock di fine anni ’60: Who, Pretty Things ed i Beatles di Sgt Pepper. Ma, particolarmente nella seconda parte dell’album, le assonanze sono con i Pink Floyd o più modernamente con i Tame Impala, Kasabian e Spiritualized. Al loro 6° lavoro, Hollow è sicuramente il loro migliore. Un disco vario e ben realizzato, molto lontano dal sound delle moderne rock band contemporanee ma ciò è probabilmente quello che li fa distinguere (e risplendere). Da ascoltare: We Cry For Harmonia, Hollow World. Voto: ☆☆☆☆1/2
Rare
Birds, il
precedente album del musicista del North Carolina, aveva vinto
pletore di Album of The Year Awards nel 2018, ma era piaciuto
soprattutto a critici e pubblico americani, molto meno alla
controparte europea. Da questa parte dell’oceano era sembrato (tra
i delusi lo scrivente) un disco dolorosamente quasi “contro
natura”, all’inseguimento di un suono eighties
inutilmente pomposo e formalmente perfetto. D’altra parte Wilson
non ha mai nascosto il suo amore per i Pink Floyd, e due anni nel
tour Us+Them
di Roger Waters,
con la funzione di direttore musicale, chitarrista e backing vocal
(in sostanza il ruolo di David Gilmour nel gruppo inglese), avevano
fatto emergere la sua ammirazione per i Floyd post- anziché pre-Syd
Barrett: quelli amati dagli americani. Al quinto lavoro
fortunatamente Wilson torna alle radici, perfino più pure di quelle
esibite nei due splendidi lavori del 2011 e 2013, imbevuti di
psych-folk
californiano (Laurel Canyon). Lasciate le luci di Los Angeles e
stabilitosi nella mitica Topanga, immerso nella natura tra monti ed
oceano a 40 km da LA, il chitarrista sente il richiamo delle southern
roots e su
consiglio di Steve Earle va ad incidere a Nashville, dove Pat Sansone
(Wilco e co-produttore del disco) gli mette a disposizione una live
studio band composta dai migliori session men del posto, ed in soli 6
giorni dà alle stampe uno splendido disco di “americana”
libera, non originale ma intrisa della variegata tradizione bianca
del sud e suonato in modo strepitoso. La sua maestria alla chitarra è
nota (in questo lavoro acustico eccelle il fingerpicking su Martin
1947), e nella ricchezza melodica complessiva va almeno segnalata tra
i sodali l’abilità di Mark O’ Connor al violino e di Russ Pahl
alla pedal steel. Il disco, che rinuncia ad ogni “grandeur” nella
brevità delle canzoni e nell’assenza di sovraincisioni (entrambe
caratteristiche inusuali per il nostro polistrumentista), potrebbe
essere catalogato come cantautorato
southern country,
ben distante dai melliflui suoni nashvilliani e più vicino invece al
country-rock di Gene
Cark: più
melodico che ritmico, ma variegato per l’alternanza di brani intimi
con altri più movimentati (finanche un paio bluegrass), ed
arricchito da arrangiamenti qualitativamente sontuosi (pregevoli e
mai magniloquenti).
Forse l’unica,
veniale pecca di Dixie
Blur sta in Wilson
stesso, dotato di una vocalità calda che tuttavia non riesce mai ad
andare oltre il laid
back.
Ottavo album della cantautrice di Halifax, si sviluppa come una raccolta di canzoni profondamente emotive, ricche di dialoghi musicali a flusso libero tra chitarre, archi e pianoforte, cui la voce di RC infonde ricchezza e forza emozionale. Da ricordare il primo brano, attuale dato il momento, che esplora il concetto di solitudine in "I benefici dell'essere soli”: una specie di guida definitiva per stare bene in propria compagnia.
Un nuovo straordinario album di una delle migliori musiciste canadesi ed un’aggiunta essenziale nell’elenco dei migliori album pop-folk di sempre e che piacerà particolarmente agli amanti di Jonatha Brooke, Hey Rosetta (Tim Baker è uno dei coautori), Mary Chapin Carpenter, Ron Sexsmith, Patty Griffin. Da ascoltare: The Benefits of Being Alone, The Expert, The Return (Love Comes Back). Voto: ☆☆☆☆1/2