giovedì 30 aprile 2020

CIRCA WAVES, MANDY MOORE


CIRCA WAVES (2020) Sad Happy

Sin dall’esordio discografico nel 2015 la band di Liverpool, da sempre trainata dal cantante, chitarrista e principale compositore Kieran Shudall, è stata paragonata ai newyorchesi Strokes. In realtà nel tempo i lavori (l’attuale è il quarto) si sono diversificati pur mantenendo sempre un british mood, ed i riferimenti musicali attuali collocano il quartetto a fianco di un punk-pop più Arctic Monkeys che Green Day (vedi Be Your Drug o Call Your Name), di un indie rock che richiama Rascals, Vaccines, Maximo Park e Libertines, di spunti melodici in odore ed archi Last Shadow Puppets (The Things We Do Last Night e Love You More), di synth-pop come i migliori gruppi new wave degli ’80 (i singoli Sad Happy e Hope There’s A Heaven), di malinconie intime alla Coldplay (Birthday Cake e Sympathy). Questi ultimi ricorrono anche nella struttura dell’album, diviso in due parti: Sad / Happy, ad indicare i due diversi stati d’animo della Everyday Life, che ricorderemo la band di Chris Martin aveva diviso in Sunrise / Sunset. Forse un disco persino troppo eclettico per alcuni, che nonostante la brillantezza delle singole canzoni faticano in effetti a costituire un unicum. Non necessariamente una fragilità, anzi per molti un punto di forza. In ogni caso un album consigliato, energico e trascinante quando è “happy” e tenero e consolatorio quando è “sad”.
Voto Microby: 7.8    

Preferite: Jacqueline, The Things We Do Last Night, Sad Happy


MANDY MOORE (2020) Silver Landings
Da pop-singer per teenagers da TV-series negli anni ’90 ad attrice e moglie di Ryan Adams, alla separazione e maturazione in raffinata interprete di adult-pop che con Silver Landings la colloca dalle parti del soft-rock californiano di fine anni ’70 e del pop-rock elegante dei Fleetwood Mac zona-Mirage (1982). Manca l’energia del rock ma gli arrangiamenti patinati e la voce vellutata vestono canzoni di buona qualità. 
Voto Microby: 7.4   
Preferite: Tryin’ My Best Los Angeles, Easy Target, I’d Rather Lose
 


sabato 25 aprile 2020

MORRISSEY


MORRISSEY (2020) I Am Not A Dog On A Chain



Con l’eccezione del qualitativamente modesto album di cover dello scorso anno (California Son), era dal 2017 del discontinuo ma discreto Low In High School che l’ex frontman dei The Smiths non pubblicava materiale. Insopportabile per molti ma geniale per tutti, icona assoluta del movimento LGTB, ma soprattutto musicista tra i più carismatici ed influenti della musica inglese dei decenni post-punk, pur non partorendo più capolavori all’altezza della band-madre “Moz” nei tredici album della carriera solista ha comunque dato alle stampe più di una prova eccellente. Quarto lavoro prodotto da Joe Chiccarelli, che ahimè asseconda l’io ipertrofico del personaggio lavorando solo per addizione, I Am Not A Dog On A Chain ci presenta il musicista mancuniano in ottima forma: pur nel menu variegato degli arrangiamenti ed in qualche scivolone evitabile (il synth-pop Once I Saw The River Clean e la noiosa The Secret of Music, entrambe peraltro fuori contesto), l’ultima prova di Morrissey si avvale di ottima scrittura melodica, della voce che ha affascinato almeno due generazioni, e di escursioni in generi musicali (troppo) differenti, ma alla fine realizzate in modo mai banale. Almeno 3-4 i potenziali singoli, musicalmente (va da sé che i suoi testi sono sempre stimolanti) interessanti anche per la generazione dei millennials. Una prima parte eccellente ed una seconda solo discreta fanno comunque di I Am Not A Dog On A Chain un disco di pregio, il suo migliore dell’ultimo decennio. Artista di talento e mito conquistato sul campo, Moz merita fiducia ad ogni sua uscita perché, come recita il titolo, difficilmente qualcuno riuscirà a ridurlo in catene.

Voto Microby: 7.8    

Preferite: Love Is On Its Way Out, Bobby Don’t You Think They Know?, I Am Not A Dog On A Chain

mercoledì 22 aprile 2020

Recensione: The Strokes - The New Abnormal (2020)

THE STROKES - The New Abnormal (2020)
Il sesto album degli Strokes viene dopo un lungo periodo (7 anni) in cui i vari componenti del gruppo hanno lavorato su altri progetti (ultimo dei quali, un concerto per Bernie Sanders, li ha visti tornare insieme in concerto quest’anno) facendo temere lo scioglimento della band. Gli Strokes fanno parte dell’ultima generazione delle rock band, come i Libertines, gli White Stripes, i Kings of Leon, Franz Ferdinand, Interpol, Arctic Monkeys, i Killers, ecc ecc.

Prodotto da Rick Rubin, il sound sembra essersi spostato verso altri territori ma Julian Casablanca e soci ci hanno sempre abituato ai loro incessanti passaggi tra electropop, post-punk e kraut-rock. Quindi dimentichiamoci gli Strokes di Is This It (del resto sono passati 19 anni…) una sorta di album maledizione (un pò come Turn On the Bright Light lo è stato per gli Interpol) dopo il quale ogni successivo lavoro veniva di regola paragonato a quel capolavoro.  Nel disco si sentono Billy Idol, i Modern English, i Psychedelic Furs, perfino i Toto e i Daft Punk. Il risultato è un disco onesto, sincero e convincente: i cinque newyorchesi fanno ancora ottima musica, piena di passione e creatività. Da ascoltare: The Adults Are Talking, Brooklyn Bridge To Chorus, Bad Decisions, Ode To The Mets. 
Voto:

domenica 19 aprile 2020

THE DREAM SYNDICATE


THE DREAM SYNDICATE (2020) The Universe Inside

Esponente di spicco del rock psichedelico californiano degli anni ’80 (il cosiddetto “Paisley Underground”, di cui erano alfieri anche Green On Red, Rain Parade, Bangles , Three O’Clock, Long Ryders tra gli altri) e scioltosi nel 1990 dopo alcuni album pregevoli, il Sindacato del Sogno ha sorpreso tutti con una reunion nel 2012 che ha ripreso il discorso là dove era stato interrotto, suscitando unanimi consensi nei tre dischi pubblicati da allora. Compreso l’attuale, in cui il leader naturale Steve Wynn ha portato alle estreme conseguenze il linguaggio sonoro della band: 58 minuti divisi in cinque lunghi brani a partire dall’azzardato singolo, The Regulator, un suicidio commerciale di 20’27", da cui non si discostano molto gli altri brani, dall’impalcatura quasi esclusivamente strumentale cui si accompagnano spoken words più che un cantato vero e proprio. Il clima è elettrico ed ovviamente coagulato intorno ai tre chitarristi (Steve Wynn, Jason Victor e Paul B. Cutler), ma non meno rilevanti appaiono i contributi degli ospiti, dalle tastiere liquide di Chris Cacavas al sitar dell’ex Long Ryders Stephen McCarthy, e soprattutto il sax jazz di Marcus Tenney. Come già avvenuto per il brillante recente esordio dei The Third Mind (vedi recensione sul blog) la tecnica è stata quella di chiudersi in studio e lasciare i musicisti liberi di improvvisare su un canovaccio scritto. Il risultato non è né posticcio né pasticciato, e tutto fuorchè debole. Fuori luogo parlare di jazz, come se l’improvvisazione appartenesse solo a questo genere, soprattutto perché in The Universe Inside manca lo swing, mentre il groove è assolutamente rock, esattamente come la sezione ritmica (gli originali Mark Walton al basso e Dennis Duck alla batteria) che non ha nulla della libertà del jazz ed anzi è trainata da una batteria motorik. Ha certamente più senso parlare di psichedelia, totalmente nel DNA dei nostri, perché la libertà dei fraseggi e delle citazioni è contaminata a 360°, ed il mood è ipnotico e lisergico ma denso, arrembante, a tratti sinistro, mai sognante e pacificato. Più che John Coltrane od Ornette Coleman questo riuscito azzardo della band americana riprende e colora le tele dell’acid rock californiano di fine sixties contaminandole con i Pink Floyd barrettiani ma soprattutto con il Canterbury sound ed il krautrock dei seventies (non a caso gli inventori del motorik in 4/4 sono stati i batteristi Jaki Liebezeit dei Can e Klaus Dinger dei Neu!, gruppi che in The Universe Inside si scorgono in molti passaggi), spingendosi a citare Fela Kuti, il Miles Davis di Bitches Brew ed il David Bowie di Heroes ma soprattutto di Blackstar, al netto della capacità di sintesi di quest’ultimo, laddove i nostri cercano la dilatazione. Un album sorprendente, teso, ostico, estremo ma in linea con il percorso musicale dei Dream Syndicate: cerca spessore, non leggerezza, e dispensa profondità, non eleganza.
Voto Microby: 8    
Preferite: Dusting Off The Rust, The Regulator

sabato 18 aprile 2020

Recensione: Pat Metheny - From this place (2020)

PAT METHENY - From This Place (2020)

Lasciate un pò da parte le esagerate sofisticatezze dei suoi più recenti lavori, PM, nonostante ormai veleggi verso i 66 anni, sembra essere tornato alla freschezza dei suoi primi lavori (quelli con il compianto Lyle Mays, tanto per essere chiari), probabilmente grazie alla ispirazione dal mitico Ron Carter, già membro del leggendario quintetto di Miles Davis e compagno di tournée un paio di anni fa. Così come aveva insegnato Miles infatti, la capacità creativa e l’improvvisazione vanno sviluppati tra la tradizione del passato e la capacità di adattamento al nuovo. E proprio l’ottima interazione con le tastiere del gallese Gwilym Simcock e gli stacchi di batteria del veterano Antonio Sanchez sono la chiave del grande equilibrio musicale dell’album, impreziosito dalla voce di Meshell Ndgeocello nella title-track. Ne emerge l’inconfondibile sound della guitar-synth di PM, ricco di crescendo e ripetizioni, con uno stile a tratti cinematografico ed enfatico, ma senza appesantire troppo le agili trame musicali. Da ascoltare: Everything Explained, Wide and Far, You Are. 
Voto:


martedì 14 aprile 2020

BLACKIE AND THE RODEO KINGS


BLACKIE AND THE RODEO KINGS (2020) King of This Town

Mi sono avvicinato con sufficienza all’ultimo album di questa band canadese poco conosciuta dalle nostre parti. La ragione sociale con quel “rodeo” di mezzo che evoca cowboys, cappellacci Stetson e cavalcate di tori, con annesso ultraconservatorismo sociale e musicale mi teneva alla larga dall’ascolto, nonostante ne avessi letto ottime recensioni. Tra i vantaggi del lockdown da COVID19 ci sta fortunatamente anche la maggiore disponibilità di tempo, ed una curiosità più dilatata. Così l’ascolto del nono (e da quanto leggo tutti apprezzabili) lavoro del gruppo mi ha permesso di scoprire un gioiellino. La open band è da sempre organizzata intorno ad un supertrio di compositori/chitarristi del genere: Colin Linden, il cuore più southern-blues e country-rock, collaboratore di Luther Dickinson e Robert Plant, e produttore tra gli altri di Keb’Mo’ e Bruce Cockburn; Tom Wilson, l’anima più rock-blues, già nei Junkhouse e nei Lee Harvey Osmond; e Stephen Fearing, già autore in proprio di una dozzina di dischi di impronta folk. Insieme ad eccellenti turnisti licenziano un album che riflette la copertina, una corona in fiamme (magari fosse quella del coronavirus!): genere “americana” allargata come sanno fare i canadesi, in un blend di southern-country, folk acadiano, rock-blues con influenze gospel e profumi di Louisiana. Splendidamente assortite le parti vocali (ben distribuite tra i tre, con eccellenti armonizzazioni) e gli inserti chitarristici acustici ed elettrici, variegati come le differenti tecniche dei tre chitarristi (la mia menzione personale va a Linden), così come di pregio è la scrittura. Comunque lo si voglia classificare (americana, country-rock, southern folk, folk-blues), King of This Town è album da considerare nelle classifiche di fine anno per tutti gli appassionati di “american roots”.
Voto Microby: 8    
Preferite: World Gone Mad, Baby I’m Your Devil, Walking On Our Graves

domenica 12 aprile 2020

Recensione: Laura Marling - Song for our Daughter (2020)

LAURA MARLING - Song For Our Daughter (2020)

Al settimo album, con alle spalle tre nomination ai Mercury ed una ai Grammy, ma soprattutto al primo dopo aver passato i 30 anni, Laura è cresciuta e fa i conti con nuove prospettive, anche alla luce del suo recente master in psicanalisi. 
Per più di 10 anni LM è stata identificata con la più classica esponente del NuFolk, evocando immagini di chitarre acustiche e ballate delicate. In questo caso l’evoluzione è verso un genere sempre improntato al cantautorato, ma arricchito di melodie sorprendenti, con cambi di ritmo ed improvvisazioni. Si tratta di una specie di concept album, originariamente previsto per la pubblicazione ad agosto ma che LM ha fortemente voluto condividere in questo momento di quarantena (“In light of the change to all our circumstances, I saw no reason to hold back on something that, at the very least, might entertain, and, at its best, provide some union.”). La mossa è sicuramente generosa ma anche astuta, visto il tempo a disposizione che permette di concentrarsi maggiormente sulla musica e sulle arti in generale e visto che la maggior parte dei musicisti ha pensato di posticipare le uscite a causa della pandemia in corso. 
In realtà la figlia del titolo è solo immaginaria ma le sue tematiche fortemente connotate verso la responsabilità e le conquiste femminili sono ora viste attraverso una lente differente, più adulta e dinamica, immaginate come una lettera d’amore ad una figlia ipotetica. Un lavoro altamente raffinato, con poche percussioni e molto fingerpicking, ricco di arrangiamenti intricati ma sempre profondamente melodici e con la voce di Laura, più cristallina e balsamica che mai. Come già detto in passato nelle precedenti recensioni, Joni Mitchell ha trovato una sicura e degna erede. Da ascoltare: Alexandra, Held Down, Fortune.

Voto:


venerdì 10 aprile 2020

Recensione al volo: Elephant Stone - Hollow (2020)

ELEPHANT STONE -  Hollow (2020) 

Decennale gruppo canadese che affonda le sue radici nel pop psichedelico anni ’60 (13th Floor Elevators e compagnia bella) ma anche nel garage-rock e nel power-jangle-pop più contemporaneo, si caratterizza per il ricorso agli strumenti della musica tradizionale indiana. Le ispirazioni, dichiarate dallo stesso Rishi Dhir, bassista, sitarista e leader del gruppo, arrivano tutte dai gruppi rock di fine anni ’60: Who, Pretty Things ed i Beatles di Sgt Pepper. Ma, particolarmente nella seconda parte dell’album, le assonanze sono con i Pink Floyd o più modernamente con i Tame Impala, Kasabian e Spiritualized.  Al loro 6° lavoro, Hollow è sicuramente il loro migliore. Un disco vario e ben realizzato, molto lontano dal sound delle moderne rock band contemporanee ma ciò è probabilmente quello che li fa distinguere (e risplendere). Da ascoltare: We Cry For Harmonia, Hollow World. 
Voto: 1/2


lunedì 6 aprile 2020

JONATHAN WILSON


JONATHAN WILSON (2020) Dixie Blur

Rare Birds, il precedente album del musicista del North Carolina, aveva vinto pletore di Album of The Year Awards nel 2018, ma era piaciuto soprattutto a critici e pubblico americani, molto meno alla controparte europea. Da questa parte dell’oceano era sembrato (tra i delusi lo scrivente) un disco dolorosamente quasi “contro natura”, all’inseguimento di un suono eighties inutilmente pomposo e formalmente perfetto. D’altra parte Wilson non ha mai nascosto il suo amore per i Pink Floyd, e due anni nel tour Us+Them di Roger Waters, con la funzione di direttore musicale, chitarrista e backing vocal (in sostanza il ruolo di David Gilmour nel gruppo inglese), avevano fatto emergere la sua ammirazione per i Floyd post- anziché pre-Syd Barrett: quelli amati dagli americani. Al quinto lavoro fortunatamente Wilson torna alle radici, perfino più pure di quelle esibite nei due splendidi lavori del 2011 e 2013, imbevuti di psych-folk californiano (Laurel Canyon). Lasciate le luci di Los Angeles e stabilitosi nella mitica Topanga, immerso nella natura tra monti ed oceano a 40 km da LA, il chitarrista sente il richiamo delle southern roots e su consiglio di Steve Earle va ad incidere a Nashville, dove Pat Sansone (Wilco e co-produttore del disco) gli mette a disposizione una live studio band composta dai migliori session men del posto, ed in soli 6 giorni dà alle stampe uno splendido disco di “americana” libera, non originale ma intrisa della variegata tradizione bianca del sud e suonato in modo strepitoso. La sua maestria alla chitarra è nota (in questo lavoro acustico eccelle il fingerpicking su Martin 1947), e nella ricchezza melodica complessiva va almeno segnalata tra i sodali l’abilità di Mark O’ Connor al violino e di Russ Pahl alla pedal steel. Il disco, che rinuncia ad ogni “grandeur” nella brevità delle canzoni e nell’assenza di sovraincisioni (entrambe caratteristiche inusuali per il nostro polistrumentista), potrebbe essere catalogato come cantautorato southern country, ben distante dai melliflui suoni nashvilliani e più vicino invece al country-rock di Gene Cark: più melodico che ritmico, ma variegato per l’alternanza di brani intimi con altri più movimentati (finanche un paio bluegrass), ed arricchito da arrangiamenti qualitativamente sontuosi (pregevoli e mai magniloquenti). Forse l’unica, veniale pecca di Dixie Blur sta in Wilson stesso, dotato di una vocalità calda che tuttavia non riesce mai ad andare oltre il laid back
Voto Microby: 8   
Preferite: ’69 Corvette, Enemies, Korean Tea

venerdì 3 aprile 2020

Recensione: ROSE COUSINS - Bravado (2020)

ROSE COUSINS - Bravado (2020)

Ottavo album della cantautrice di Halifax, si sviluppa come una raccolta di canzoni profondamente emotive, ricche di dialoghi musicali a flusso libero tra chitarre, archi e pianoforte, cui la voce di RC infonde ricchezza e forza emozionale. Da ricordare il primo brano, attuale dato il momento, che esplora il concetto di solitudine in "I benefici dell'essere soli”: una specie di guida definitiva per stare bene in propria compagnia.

Un nuovo straordinario album di una delle migliori musiciste canadesi ed un’aggiunta essenziale nell’elenco dei migliori album pop-folk di sempre e che piacerà particolarmente agli amanti di Jonatha Brooke, Hey Rosetta (Tim Baker è uno dei coautori), Mary Chapin Carpenter, Ron Sexsmith, Patty Griffin. Da ascoltare: The Benefits of Being Alone, The Expert, The Return (Love Comes Back). Voto: 1/2 

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