lunedì 6 aprile 2020

JONATHAN WILSON


JONATHAN WILSON (2020) Dixie Blur

Rare Birds, il precedente album del musicista del North Carolina, aveva vinto pletore di Album of The Year Awards nel 2018, ma era piaciuto soprattutto a critici e pubblico americani, molto meno alla controparte europea. Da questa parte dell’oceano era sembrato (tra i delusi lo scrivente) un disco dolorosamente quasi “contro natura”, all’inseguimento di un suono eighties inutilmente pomposo e formalmente perfetto. D’altra parte Wilson non ha mai nascosto il suo amore per i Pink Floyd, e due anni nel tour Us+Them di Roger Waters, con la funzione di direttore musicale, chitarrista e backing vocal (in sostanza il ruolo di David Gilmour nel gruppo inglese), avevano fatto emergere la sua ammirazione per i Floyd post- anziché pre-Syd Barrett: quelli amati dagli americani. Al quinto lavoro fortunatamente Wilson torna alle radici, perfino più pure di quelle esibite nei due splendidi lavori del 2011 e 2013, imbevuti di psych-folk californiano (Laurel Canyon). Lasciate le luci di Los Angeles e stabilitosi nella mitica Topanga, immerso nella natura tra monti ed oceano a 40 km da LA, il chitarrista sente il richiamo delle southern roots e su consiglio di Steve Earle va ad incidere a Nashville, dove Pat Sansone (Wilco e co-produttore del disco) gli mette a disposizione una live studio band composta dai migliori session men del posto, ed in soli 6 giorni dà alle stampe uno splendido disco di “americana” libera, non originale ma intrisa della variegata tradizione bianca del sud e suonato in modo strepitoso. La sua maestria alla chitarra è nota (in questo lavoro acustico eccelle il fingerpicking su Martin 1947), e nella ricchezza melodica complessiva va almeno segnalata tra i sodali l’abilità di Mark O’ Connor al violino e di Russ Pahl alla pedal steel. Il disco, che rinuncia ad ogni “grandeur” nella brevità delle canzoni e nell’assenza di sovraincisioni (entrambe caratteristiche inusuali per il nostro polistrumentista), potrebbe essere catalogato come cantautorato southern country, ben distante dai melliflui suoni nashvilliani e più vicino invece al country-rock di Gene Cark: più melodico che ritmico, ma variegato per l’alternanza di brani intimi con altri più movimentati (finanche un paio bluegrass), ed arricchito da arrangiamenti qualitativamente sontuosi (pregevoli e mai magniloquenti). Forse l’unica, veniale pecca di Dixie Blur sta in Wilson stesso, dotato di una vocalità calda che tuttavia non riesce mai ad andare oltre il laid back
Voto Microby: 8   
Preferite: ’69 Corvette, Enemies, Korean Tea

1 commento:

lucaf ha detto...

Grande esempio di sonorità pop folk californiana, grandi orchestrazioni ed arrangiamenti, arricchite da influenza gospel e bluegrass. Bel disco. Quattro stelle piene.

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