DAVID GILMOUR (2015) Rattle
That Lock
I
Pink Floyd non sono mai stati una band democratica: segnati dalla
leadership di Syd Barrett negli anni dei capolavori psichedelici The
Piper At The Gates of Dawn (1967) e A
Saucerful of Secret (1968), quindi
egemonizzati da Roger Waters negli anni dell’esplosione commerciale
ma anche artistica dei capolavori progressive The
Dark Side of The Moon (1973) e Wish
You Were Here (1975), fino al concept The
Wall (1979); infine catalizzati dal gusto
melodico e dalla personale tecnica chitarristica di Gilmour nei 30
anni successivi, al solito gonfi di successo al botteghino e dal
vivo. Da The Wall, sia in gruppo che nell’attività solistica, nulla
di significativo per la storia e l’evoluzione della musica
pop-rock. Barrett alla ricerca del proprio cervello irreparabilmente
danneggiato dall’abuso di sostanze psicotrope, ma capace di isolate
schegge di genio che hanno influenzato il cantautorato psichedelico
degli anni a venire; Waters ad inseguire psicoanaliticamente i
fantasmi della propria infanzia-adolescenza, ed alla fine incapace di
uscire dalla riproposizione ad libitum del deus ex machina The
Wall; più in sordina, il meno considerato
Gilmour ha pubblicato con parsimonia (l’attuale è il quarto album
in studio dal 1978) lavori sempre di buona scrittura epico-melodica,
di matrice prog pinkfloydiana
sebbene più pop-oriented,
segnati dal timbro riconoscibilissimo della sua Stratocaster. Non fa
eccezione quest’ultimo lavoro, forse il suo migliore, godibilissimo
per le caratteristiche di cui sopra, che sarà amato dai fans di The
Division Bell, sarà apprezzato da quelli
dei Floyd seventies, mentre irriterà i devoti al verbo barrettiano.
Non ultimo: incuriosirà e/o interesserà gli ultraquarantenni,
mentre lascerà del tutto indifferenti gli under 30, non toccati dal
fascino dei Floyd e non adusi a suoni estranei al contesto musicale
degli ultimi 30 anni (eccetto la sacca di irriducibili aficionados
del prog ’70, o gli adepti del neo-prog). Tutte considerazioni che
permeano il giudizio finale su Rattle That
Lock: di cui si apprezza la ricchezza di
suoni, la bontà delle melodie, la brillante tecnica dei musicisti,
gli arrangiamenti eleganti, il sempre stupefacente fascino
dell’elettrica di Gilmour, perfino la varietà delle composizioni
(dal prog al valzer, dal crooning al soul, dal rock all’ambient).
Ma che, una volta consumato (con molto piacere per le orecchie di un
ultracinquantenne come me), viene archiviato tra i dischi belli ma
ininfluenti. Ma, ormai prossimi alle vacanze natalizie, si può
godere anche del superfluo, così come facciamo con panettone e
pandoro. Al solito molto bello (e gotico) l'artwork.
Voto
Microby: 7.8
Preferite:
Faces
of Stone, Rattle That Lock, In Any Tongue
1 commento:
Ottima recensione, come sempre. Concordo sul tuo giudizio: è il miglior album in studio di Gilmour
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