JONATHAN
WILSON (2020) Dixie Blur
Rare
Birds, il
precedente album del musicista del North Carolina, aveva vinto
pletore di Album of The Year Awards nel 2018, ma era piaciuto
soprattutto a critici e pubblico americani, molto meno alla
controparte europea. Da questa parte dell’oceano era sembrato (tra
i delusi lo scrivente) un disco dolorosamente quasi “contro
natura”, all’inseguimento di un suono eighties
inutilmente pomposo e formalmente perfetto. D’altra parte Wilson
non ha mai nascosto il suo amore per i Pink Floyd, e due anni nel
tour Us+Them
di Roger Waters,
con la funzione di direttore musicale, chitarrista e backing vocal
(in sostanza il ruolo di David Gilmour nel gruppo inglese), avevano
fatto emergere la sua ammirazione per i Floyd post- anziché pre-Syd
Barrett: quelli amati dagli americani. Al quinto lavoro
fortunatamente Wilson torna alle radici, perfino più pure di quelle
esibite nei due splendidi lavori del 2011 e 2013, imbevuti di
psych-folk
californiano (Laurel Canyon). Lasciate le luci di Los Angeles e
stabilitosi nella mitica Topanga, immerso nella natura tra monti ed
oceano a 40 km da LA, il chitarrista sente il richiamo delle southern
roots e su
consiglio di Steve Earle va ad incidere a Nashville, dove Pat Sansone
(Wilco e co-produttore del disco) gli mette a disposizione una live
studio band composta dai migliori session men del posto, ed in soli 6
giorni dà alle stampe uno splendido disco di “americana”
libera, non originale ma intrisa della variegata tradizione bianca
del sud e suonato in modo strepitoso. La sua maestria alla chitarra è
nota (in questo lavoro acustico eccelle il fingerpicking su Martin
1947), e nella ricchezza melodica complessiva va almeno segnalata tra
i sodali l’abilità di Mark O’ Connor al violino e di Russ Pahl
alla pedal steel. Il disco, che rinuncia ad ogni “grandeur” nella
brevità delle canzoni e nell’assenza di sovraincisioni (entrambe
caratteristiche inusuali per il nostro polistrumentista), potrebbe
essere catalogato come cantautorato
southern country,
ben distante dai melliflui suoni nashvilliani e più vicino invece al
country-rock di Gene
Cark: più
melodico che ritmico, ma variegato per l’alternanza di brani intimi
con altri più movimentati (finanche un paio bluegrass), ed
arricchito da arrangiamenti qualitativamente sontuosi (pregevoli e
mai magniloquenti).
Forse l’unica,
veniale pecca di Dixie
Blur sta in Wilson
stesso, dotato di una vocalità calda che tuttavia non riesce mai ad
andare oltre il laid
back.
Voto
Microby: 8
Preferite:
’69
Corvette, Enemies, Korean Tea
1 commento:
Grande esempio di sonorità pop folk californiana, grandi orchestrazioni ed arrangiamenti, arricchite da influenza gospel e bluegrass. Bel disco. Quattro stelle piene.
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