lunedì 30 maggio 2022

THE SMILE (2022) A Light For Attracting Attention

 

Genere: Art-Rock, Avant-pop  

Simili: Radiohead, Arcade Fire, Alt-J, Sigur Ròs, Neu!, Talk Talk, Spiritualized, Wolf Parade, Mogwai

Voto Microby: 8.5

Preferite: Free In The Knowledge, Pana-Vision, Waving A White Flag

Perché questo disco non è a nome Radiohead? E’ infatti del tutto evidente che il suono è immediatamente identificabile con la band di Oxford, a differenza dei progetti solisti di Thom Yorke/Atoms For Peace e Jonny Greenwood, caratterizzati da soluzioni sonore che si discostavano nettamente dalla band-madre. The Smile non rappresenta quindi l’opportunità di comporre e incidere qualcosa di completamente diverso, né di pubblicare materiale rimasto negli archivi del gruppo, chè le canzoni sono tutte (eccetto la conclusiva Skrting On The Surface) di conio recente. Che sia un segno di rispetto nei confronti del pur eccellente batterista titolare, Phil Selway, qui sostituito da Tom Skinner, alle pelli nel combo neo-jazz Sons of Kemet? Di fatto, ancora una volta l’essenza dei Radiohead si conferma la coppia Yorke/Greenwood, che con A Light For Attracting Attention non traccia una linea di continuità con l’eccellente A Moon Shaped Pool (2016) né col più avventuroso ma poco riuscito The King of Limbs (2011). Piuttosto, similmente a quanto realizzato dagli Arcade Fire con l’ultimo WE (2022), siamo di fronte ad un album eterogeneo alla Hail To The Thief (2003), che non inventa nulla ma riesce sapientemente a compendiare i suoni esplorati dai Radiohead dagli esordi ad oggi. Quasi filologicamente, la prima parte del disco richiama l’adrenalina degli anni ’90 dei nostri, aperti dal debutto con Pablo Honey (1993), ancora in area britpop, e conclusi col capolavoro disperato, angolare e paranoico di OK Computer (1997). I brani più ossessivi e spigolosi del nuovo album (sebbene ascritto a The Smile) hanno più un sapore motorik/math-rock che britpop, ma la medesima oscurità, ansia, amarezza, esasperazione post-punk. La seconda parte del lavoro appartiene ai Radiohead (oops!) più liquidi e d’atmosfera, figli di Kid A (2000) e Amnesiac (2001), in cui chitarra, pianoforte ed elettronica delicata si intrecciano ad esprimere malinconia, disagio, tensione ed inquietudine come da manifesto dei Radiohead del nuovo millennio. La dimensione emotiva del falsetto ansiogeno di Thom Yorke viene amplificata dalle orchestrazioni di Jonny Greenwood, ormai maestro di colonne sonore alla corte di Paul Thomas Anderson (e non solo), e Tom Skinner alle pelli regala ritmiche ed armonie che mutano di brano in brano (scuola King Crimson avant-prog). E’ in questa seconda parte che si esprimono i capolavori, le ballate per pianoforte, elettronica inquieta, crescendo orchestrali ed ombreggiature ritmiche che richiamano i fasti di Pyramid Song, Fake Plastic Trees, Exit Music, 2+2=5, e molte altre gemme nel carniere degli oxfordiani. Alla fine, la domanda iniziale risulta pleonastica: Yorke e Greenwood ribadiscono di essere tra i musicisti più influenti del nuovo millennio, e noi siamo di fronte ad un grande album di una grande band. Che promette meraviglie nei cinque concerti italiani dal 14 al 20 luglio (Milano, Ferrara, Macerata, Roma, Taormina).

lunedì 23 maggio 2022

WEST FARGO (2022) W3ST FARGO


Genere: Classic rock/Hard rock ‘70

Simili: Deep Purple

Voto Microby: 7.7

Preferite: Written In My Soul, Feel The End, The Record Turns


Ho un debole per questi maturi ragazzacci bresciani: a partire dalla ragione sociale così cinematografica (Cohen Bros), per seguire con lo splendido
artwork delle copertine, ma soprattutto con la passione che trasuda dai loro lavori. Totalmente disinteressato ai suoni dei millennials, al terzo disco il combo camuno prosegue il percorso a ritroso  nella musica rock (iniziato citando, in italiano, gli anni ’90 di Timoria ma anche di Pearl Jam) per approdare con l’ultima fatica al classic rock/hard rock degli anni ’70, la golden age della musica rock, influenza già in parte esperita nell’album precedente. Per farlo i West Fargo hanno abbandonato con brillanti risultati la lingua di Dante per quella di Shakespeare, e inciso nove brani di appassionata qualità. Il profilo del lavoro non si adagia, come da archetipo del genere, solo sui vibranti riff e gli infuocati incisi della chitarra elettrica di Roberto Roncalli, ma si accende anche grazie alla batteria propulsiva di Matteo Zelaschi, al basso pulsante di Domenico Ducoli, alla grande estensione vocale di Davide Balzarini ed all’ordito delle tastiere di Pierluigi Capretti, che ha certamente ben assimilato la lezione di Jon Lord (Deep Purple) ma anche dei synth analogici alla Baba O’Riley (The Who). Così se il riferimento immediato di scrittura ed esecuzione è l’hard rock dei seventies (ben lontano dalle influenze hard blues dei Led Zeppelin e dal doom dei Black Sabbath, ed invece più simile ai Purple meno prog e più recenti), il risultato finale è assolutamente raccomandato agli appassionati del classic rock chitarristico dei ’70. Ad essere pignoli in un disco che non ha fillers, la tensione si abbassa nel paio di brani in cui la voce solista viene affidata all’ugola di Capretti, ben impostata ma priva dell’estensione e soprattutto del pathos del titolare Balzarini. Come da tradizione della band, l’album si completa con una bonus track musicalmente non adesa al contesto, se non che si tratta di un’alternate version acustica di un brano affidato in chiusura all’interpretazione di Silvia Ducoli, figlia del bassista Domenico. Buona fortuna anche a lei!

sabato 14 maggio 2022

ARCADE FIRE (2022) WE


Genere
: Indie-Rock, Art-Rock  

Simili: Broken Social Scene, Modest Mouse, Spiritualized, Radiohead, Woodkid, Wolf Parade, Mogwai

Voto Microby: 8.2

Preferite: End of The Empire I-IV, The Lightning I, Age of Anxiety I

La band canadese è universalmente riconosciuta tra le più influenti nell’evoluzione della musica rock (e addentellati vari) nel nuovo millennio. Personalmente la considero “la” più importante del primo decennio, vergato dal trittico di capolavori Funeral (2004), Neon Bible (2007) e The Suburbs (2010). Per non ripetere all’infinito una formula che aveva estratto l’indie pop-rock dalle produzioni casalinghe per offrirlo a quelle ipertrofiche del mainstream, facendosi tuttavia apprezzare per la riuscita fusione di generi musicali agli antipodi (rock e disco music, folk e punk, new wave e marce militari), la band di Montreal aveva sterzato nel decennio successivo con Reflektor (2013) verso un’electro-dance satura ed oscura, figlia dei New Order e solo parzialmente riuscita, e con Everything Now (2017) verso un pop variegato (con David Bowie a nume tutelare) che univa elettronica a pop, disco e musica orchestrale, con risultati solo a tratti piacevoli ma per lo più banalmente bombastici. Luca stesso si chiedeva sul nostro blog se li avessimo ormai persi. Timore concreto, visto che l’humus originario folk e rock dei canadesi difficilmente trova una collocazione tra rap, trap, hip hop ed elettropop imperanti, e che pur camaleontici non hanno dimostrato il genio del Duca bianco, loro mèntore e maestro nelle transizioni. Si è arrivati così al terzo decennio ed il nuovo album, WE, rinuncia chiaramente ad ulteriori evoluzioni stilistiche: gli Arcade Fire sanno di non rappresentare più il futuro del rock, e si affidano al proprio talento per concentrarsi sulla qualità. E lo fanno con un indie/art-rock che è un compendio dei suoni da loro esplorati finora, che ritorna alle melodie innodiche dei primi lavori ma non esclude momenti intimi, crescendo epici e corali, e ritmi ballabili. Pur non possedendo la potenza lirica dei primi tre album, WE si pasce delle medesime fascinazioni apocalittiche, declinate in una sorta di concept album coeso nella sua varietà, diviso in due parti che dipingono le contraddizioni del nostro tempo: “I”, ovvero la singolarità/egoismo e l’ansia da solitudine che ne deriva, e “We”, ovvero l’unione/altruismo e la speranza riposta nella condivisione. Il tema orwelliano non è nuovo per i nostri, e dichiaratamente WE si ispira all’omonimo romanzo distopico russo di Yevgeny Zamyatin, un secolo fa ispiratore del più famoso 1984 di George Orwell. Quaranta minuti per nove brani accoppiati due a due eccetto la title track, in cui lo spartiacque/cuore del disco è End of The Empire IV; la produzione è affidata alla coppia (anche nella vita) Will Butler e Régine Chassagne, coadiuvati da Nigel Godrich (la testa dietro la consolle dei Radiohead), la cui influenza si palesa, a differenza di alcune comparsate (Geoff Barrow, Peter Gabriel, Josh Tillman). Significativi anche gli arrangiamenti orchestrali di Owen Pallett, talvolta in area Lennon/Waters. WE cresce con gli ascolti e alla fine convince pienamente, facendoci dimenticare i due mezzi passi falsi precedenti. Evitando un ritorno musicale ai primi lavori, che suonerebbe tanto “comfort zone”, e invece frullando tutto quanto esplorato in carriera, gli Arcade Fire ci hanno consegnato un album di qualità e concretezza. Gianni Sibilia su Rock On Line suggerisce un interessante parallelismo tra U2 ed Arcade Fire: se Reflektor era il loro Achtung Baby ed Everything Now il loro Pop, WE rappresenta il loro All That You Can’t Leave Behind. Ascoltatelo senza pregiudizi e vi conquisterà.

venerdì 29 aprile 2022

YARD ACT (2022) The Overload


Genere
: Post-punk, Punk-funk

Simili: Squid, Shame, Franz Ferdinand, Wire

Voto Microby: 7.3

Preferite: Land of The Blind, Quarantine The Sticks, The Overload

Accolta come la più recente stella nel firmamento post-punk british, la giovane band di Leeds guidata dal vocalist James Smith alla prova del primo album non sorprende né per originalità né per qualità. Sono (per ora?) lontani il pop-punk aguzzo e geniale dei primi XTC o la potenza lirica degli attuali Idles, bands cui la critica inglese li paragona. E’ palpabile certamente quel tipo di influenza, così come il pop nevrotico dei Talking Heads e schizoide/garagista di Wire e Fall, a braccetto col più recente punk-funk spigoloso dei Franz Ferdinand shakerato con il post-punk elettrico ed urgente di Shame, Squid, black midi e con il rap urbano bianco inglese. Le teste parlanti vengono (involontariamente?) citate anche nel brano più pop, quel Land of The Blind in cui il pa-pa-pa-pa non fa che ricordare il ben noto fa-fa-fa-fa della Psycho Killer del debutto della band newyorkese nel 1977. Si comunica energia e percepisce rabbia controllata, ma al di là delle liriche e della musica angolare ciò che latita in un disco che alcuni recensiscono come imperdibile è la fantasia (il costrutto al pentagramma è piuttosto monocorde), così come la melodia (che viene relegata ai ritornelli, laddove nelle strofe si declama/rappa piuttosto che cantare). Ne risulta comunque un discreto album che rinforza e allarga le maglie del post-punk, genere ben lungi dall’estinguersi anche nel nuovo millennio.

domenica 17 aprile 2022

Recensione : The Delines - The Sea Drift (2022)

 THE DELINES - The Sea Drift (2022)



Genere: Americana, Folk, Country-Soul, Indie-Rock

Influenze:  Glen Campbell, Kris Kristofferson, Tony Joe White, Dusty Springfield, Rickie Lee Jones


Willy Vlautin, già anima dei Richmond Fontaine nonché talentuoso scrittore romanziere di una certa notorietà, pubblica questo terzo lavoro dei The Delines, senza dubbio la loro prova più convincente e matura. Un insieme di storie di frontiera e ballate romantiche ed evocative, la cui formula essenziale è riconducibile al genere “Americana” con una commistione di folk-blues, country e jazz che rendono l’atmosfera di ascolto estremamente confortevole, quasi familiare. Ma la band di Portland è anche la voce di Amy Bloome, dotata di toni vocali malinconicamente soul che si incastrano perfettamente tra piano elettrico, basso, batteria e fiati senza mai un caduta di stile. Ed è anche la batteria di Sean Oldham, i fiati di Cory Gray ed il basso di Freddy Trujillo, tutti veterani dei Richmond Fontaine. Vlautin ha descritto il disco come “cinematografico” ed è difficile non essere d’accordo (a proposito, il video di Little Earl qui sotto è decisamente Wendersiano) ma è soprattutto un insieme di frames minimalisti più che di panorami, di storie alla Raymon Carver più che da romanzo Steinbeckiano.

Una band davvero speciale per un album davvero, davvero speciale. 


Da ascoltare: Little Earl, Kid Codeine, Hold Me Slow, Past the Shadows.

Voto:



domenica 10 aprile 2022

BILL CALLAHAN & BONNIE PRINCE BILLY (2022) Blind Date Party


Genere
: Folk, Country, Indie-Rock, Psichedelia, Singer-songwriter  

Simili: AAVV

Voto Microby: 7.5

Preferite: Our Anniversary, I Love You, My Wild Kindness, Deacon Blues, Blackness of The Night

Durante il lockdown pandemico Bill Callahan (Smog) e Bonnie “Prince” Billy (Will Oldham, Palace, Palace Brothers) decisero di impiegare il tempo commissionando ad artisti della propria etichetta la registrazione di alcune covers scelte dai due, lasciando ampia libertà di interpretazione in collaborazione con i due artisti. I quali, da sé, in comune hanno solo lo status di icona indie e radici folk-cantautorali con predilezione per i suoni acustici ed essenziali. Ma tanto è musicalmente contemplativo e con voce baritonale Callahan, quanto è irrequieto e con timbro efebico Oldham. I brani completati (audio e video) vennero condivisi settimanalmente sui social nell’autunno-inverno 2020/2021, in una rubrica online denominata Blind Date Party. Ma il risultato finale andò ben oltre le aspettative artistiche di chi si aspettava un semplice prodotto semi-artigianale pour le plaisir, tanto che ora l’etichetta decide la pubblicazione di una ventina di brani su album doppio intitolato appunto “Festa al buio”. Chi conosce la storia artistica di Callahan/Oldham si sorprenderà per la scelta degli artisti coverizzati, che ingloba con nonchalance Lou Reed come Hank Williams Jr., Billie Eilish e Cat Stevens, Steely Dan come Jerry Jeff Walker, Robert Wyatt e Lowell George, Iggy Pop e Leonard Cohen, Air Supply e John Prine. La medesima, spiazzante eterogeneità sorprende anche sul piano realizzativo di genere, passando dal folk al rock, dalla psichedelia all’outlaw country, dal bluegrass alle distorsioni elettriche, dal reggae al soul, dal tex-mex ad accenni di elettronica. E i collaboratori (non semplici “featurings”) sono di conseguenza altrettanto variegati: Matt Sweeney, Alasdair Roberts, Bill MacKay, Dead Rider, David Pajo, Mick Turner, Nathan Salzburg, Ty Segall, Six Organs of Admittance, David Grubbs, Cassie Berman tra gli altri. Novanta minuti totali che, se non hanno il dono della concisione e dell’omogeneità, hanno quello della fantasia e della libertà in un ambito folk-rock dai contorni molto dilatati. E’ vero che il risultato finale è più simile ad una (ottima) compilation che ad un unicum coeso, e che pertanto accontenterà/scontenterà tutti, ma gli ascoltatori pescheranno gioiellini del genere amato nascosti tra le pieghe di stili abitualmente poco frequentati.

sabato 26 marzo 2022

Recensione: JOHNNY MARR - Fever Dreams Pts 1-4 (2022)

 JOHNNY MARR - Fever Dreams Pts 1-4 (2022)



Genere: Indie-Rock, Brit-Rock

Influenze:  Verve, Oasis, Spiritualized, Primal Scream, Joy Division


Quarto album solista per l’ex chitarrista degli Smiths, che da una decina di anni ormai ha iniziato una nuova vita musicale con concerti e tappeto e collaborazioni in giro per il mondo, smettendo di vivere all’ombra di un passato artistico immenso, ricordo degli anni più fulgidi insieme al suo ex-amico Morrissey.

In questo complesso lavoro suddiviso in quattro parti, pubblicate in tempi successivi e riunite qui definitivamente, JM rivela un’evidente volontà di spaziare tra le più svariate atmosfere melodiche andando dall’electro-gospel (“Spirit, Power and Soul”) al post-punk (“Receiver”), dai riff techno-pop anni’80 al psych-synth modello Depeche Mode. 

Non c’è dubbio tuttavia che i registri più muscolarmente rock, pescati a piene mani dal Manchester sound, siano l’espressione più chiara del suo talento e della sua classe.

Una lunga escursione in sedici tappe per un musicista molto coraggioso (o forse pazzo…chi avrebbe mai mollato a 23 anni una cult-band come gli Smiths!) ed altrettanto criticato, chissà perchè.


Da ascoltare: Spirit Power and Soul, All These Days, Ariel, Human

Voto:



mercoledì 23 marzo 2022

AMOS LEE (2022) Dreamland


Genere
: Soul-pop, White soul, Singer-songwriter  

Simili: Ryan Adams, John Mayer, Raul Midon, James Blunt

Voto Microby: 6.8

Preferite: Dreamland, Hold You, How You Run?

Ne è passato di tempo da quando Lee Alexander, il bassista di Norah Jones che lo aveva apprezzato come opening act del tour della star americana, produsse l’esordio di Ryan Anthony Massaro aka Amos Lee, sollevandolo così definitivamente dall’impiego come maestro elementare dopo una laurea in inglese presso la South Carolina University. Il cantautore nato a Philadelphia nel 1977 non è mai diventato una star del mercato discografico, ma ha riscosso una iniziale discreta popolarità grazie a passaggi delle sue canzoni intime e romantiche in serie televisive come Doctor House e Grey’s Anatomy, e ha sempre goduto della stima della critica e dell’apprezzamento di uno zoccolo duro di fans (il nostro blog aveva nel 2008 tributato il titolo di miglior disco dell’anno al suo Last Days At The Lodge). Dal 2004 titolare di una decina di album (Mission Bell nel 2011 e soprattutto Spirit nel 2018 i miei preferiti), pubblica ora Dreamland dopo un silenzio di quattro anni. La qualità di scrittura di melodie e testi di categoria superiore è rimasta intatta rispetto all’eccellente carniere finora esibito dall’artista americano. Sorprende pertanto che il suo cantautorato che dal laid-back country-folk-soul l’ha progressivamente portato ad un soul/R&B d’autore (Bob Dylan meet Al Green/Bill Withers) venga ora contaminato da arrangiamenti vicini al pop-soul mainstream, con l’utilizzo di strumenti dozzinali (synth, vocoder, drum machine) che si spera diano il meritato (finora) successo commerciale al nostro, ma che sollevano più di una perplessità nei fans di sempre. Accantonate le influenze folk e gospel, ed abbandonati gli accenti jazzy e bluesy, Amos Lee pare ora più sulle tracce dell’ultimo John Mayer o del Ryan Adams più pop. Mi auguro che Dreamland rappresenti un episodio isolato: al momento è quello più prescindibile della ricca discografia del nostro.

lunedì 14 marzo 2022

EDDIE VEDDER (2022) Earthling


Genere
: Rock, Grunge

Simili: Pearl Jam, Chris Cornell, Foo Fighters, The Who

Voto Microby: 8.5

Preferite: Invincible, The Haves, Long Way, Brother The Cloud

Le tastiere sintetiche e la batteria metronomica dell’incipit Invincible faranno storcere il naso ai fans dei Pearl Jam classici, orfani di un capolavoro della propria band del cuore da almeno una dozzina di anni (Pearl Jam del 2006 e Backspacer del 2009 gli ultimi grandi album del combo di Seattle). Ma è una cifra stilistica non del tutto spiazzante, vista l’evoluzione musicale (accennata ma qualitativamente contratta) del precedente Gigaton (2020), e le orecchie degli ascoltatori ormai aduse al ritorno in auge delle sonorità anni ‘80. In realtà per la prima volta il carismatico vocalist californiano riesce a trovare un punto di incontro tra la potenza grunge di derivazione punk/hard garage dei PJ e la propria anima melodica, acustica e romantica, di stampo cantautorale rock più classico. E’ con piacere quindi che salutiamo l’album più vario  del nostro/dei nostri, lontano dalla compattezza granitica dei Pearl Jam ma anche dal songwriting acustico dell’attività in proprio, fatta di belle canzoni perfette per il cinema ma tediose nella dimensione di un album. Vedder non rinuncia agli assalti elettrici frontali tipici dei PJ, ma li circonda di composizioni (ed esecuzioni) di stampo classic rock, perfino giocando a fare (assai bene) l’ultimo Tom Petty (Long Way, con Benmont Tench all’Hammond), l’Elton John dalle parti di Crocodile Rock (Picture, con il baronetto a voce e saltellante piano barrelhouse), il Boss in zona Darkness On The Edge of Town (The Dark), i Beatles maccartiani (Mrs. Mills, ospite alla batteria Ringo Starr), Peter Gabriel pre-Real World (Invincible), Stevie Wonder (evocativa la sua armonica in Try). I puristi dei Pearl Jam lamenteranno l’approccio troppo mainstream, e gli amanti del Vedder intimo e cinematografico l’eccessiva carica elettrica: i due poli a mio avviso si integrano invece alla perfezione, col supporto di una tavolozza colorata per una scrittura eccellente (non una canzone debole nel lotto), e nella confezione di un album brillante, energico, fantasioso e sincero. A mio avviso il migliore del Vedder solista ma anche dei Pearl Jam del nuovo millennio.

venerdì 4 marzo 2022

ALT-J (2022) The Dream


Genere
: Alternative pop, Art-pop

Simili: Bombay Bicycle Club, Grizzly Bear, Portico, XTC, Massive Attack, Beck

Voto Microby: 8.2

Preferite: U&Me, Hard Drive Gold, Happier When You’re Gone, Get Better

An Awesome Wave, esordio del trio (allora quartetto) di Leeds (ma ora operativo a Londra), vinse il Mercury Prize nel 2012, fu mio disco dell’anno e la band la mia personale next big thing. Il sophomore This Is All Yours nel 2015 fu numero uno in Inghilterra e nominato ai Grammy; non fu tuttavia un altro capolavoro, ma un ottimo album che confermava le qualità del trio di nerds inglesi e proponeva un’evoluzione stilistica che faceva pensare ad una sorta di prog 2.0. Il crollo delle azioni coincise con la pubblicazione nel 2017 di Relaxer, terza fatidica prova svuotata di entusiasmo, intuizioni, idee e complessivamente noiosa e stanca, come di una band al capolinea. Come ogni buon fan, sebbene deluso dalla parabola discendente dei miei idoli, non avevo deposto le mie aspettative nei confronti degli Alt-J, anche perché la loro impronta nella musica pop è viva nelle molte bands che ne imitano l’approccio, e 2.5 miliardi di stream dei loro brani certificano di un combo non dimenticato. Eccomi dunque cinque anni dopo ad ascoltare con malcelato timore (come Cerebus per gli Idles) il ritorno sul mercato di Joe Newman (voce e chitarre), Gus Unger-Hamilton (tastiere) e Thom Green (batteria): scomparso il piacere della sorpresa che aveva connotato il loro debutto, ripetuti ascolti assegnano tuttavia a The Dream la palma di lavoro più coeso ed ispirato dopo l’esordio. Invece che sperimentare una nuova direzione come nel secondo album o di inibirsi come nel terzo, i nostri hanno scelto di consolidare quel pop alternativo ed originale, dalla cifra stilistica immediatamente riconoscibile, che ha dato loro la fama. Desta così ancora ammirazione l’incredibile capacità di miscelare e stratificare generi e strumenti agli antipodi, col risultato di un patchwork di pop di origine beatlesiana embricato con sonorità trip-hop (Fleet Foxes meet Massive Attack?), surf pop, psichedelia, alt-folk e art-pop, elettronica gentile e chitarre bluesy, archi e clavicembalo da pop barocco, inserti di lirica e samples di vita quotidiana, progressioni melodiche ma anche disritmia, cori sospesi tra soul e ieraticità. I testi sono intimi ma con colti riferimenti a letteratura e cinema, ed il sound è sofisticato ma accessibile ed anche orecchiabile, pur mancando dei 3-4 brani-killer che caratterizzavano il debutto. Superate le perplessità del primo ascolto, abbandonatevi a questa eccellente nuova prova di rara intelligenza pop.

martedì 22 febbraio 2022

EELS (2022) Extreme Witchcraft


 Genere: Indie-rock, Alternative pop

Simili: Elvis Costello & The Imposters, PJ Harvey, Cake, The Dandy Warhols, Beck

Voto Microby: 7.2

Preferite: Good Night On Earth, Stumbling Bee, What It Isn’t, Grandfather Clock Strikes Twelve

Così come per il recentissimo The Boy Named If, ultima fatica di Elvis Costello, non è probabilmente un caso che Extreme Witchcraft, l’album appena pubblicato da Mark Oliver Everett e sodali, sia emerso da due anni di pandemia grazie alla sporcizia e all’urgenza del garage-rock anzichè con l’intimità di canzoni raccolte in melodie cristalline (specialità della casa per entrambi). Costello lo ha fatto ricorrendo alla collaborazione della sua band notoriamente meno elegante e più rumorosa, The Imposters, laddove Mr. E cercando di nuovo la produzione di John Parish, chitarrista e produttore storico di PJ Harvey e già dietro la consolle di Souljacker (2001), l’album più noise-rock degli Eels. Spesso gli Eels sono stati descritti come un’originale miscela del primo Beck e del secondo Tom Waits, ed anche in Extreme Witchcraft la voce cartavetrata/filtrata di E e la contenuta presenza di campionatori, drum machine e toys music richiama i due mèntori, pur in un lavoro decisamente guitar-oriented. Ma non vi è traccia della magia compositiva folky e poppy e della voluptas dolendi dei dischi migliori dei nostri. Ora ordinariamente arrabbiati in un lavoro che è stato etichettato come “happy break-up record” (Mr. E è al secondo divorzio), una novità per un autore di solito applaudito per la sua capacità di scandagliare introspettivamente i lati oscuri della vita. Pur con la carenza di brani memorabili, Extreme Witchcraft non è beninteso un brutto disco: gli Eels non sono mai scesi sotto la linea del discreto. Ma, così come per Costello, l’ultimo album pur col suo energico ritorno al rock’n’roll è da catalogare tra i prescindibili della ricca discografia di entrambi. Chi si accostasse per la prima volta alla (one man) band californiana recuperi piuttosto Beautiful Freak, il capolavoro indie-pop con cui debuttò nel 1996.  

Idles - Crawler (2021)

 Idles - Crawler    E' con non poco timore che qualche mese fa ho aperto la confezione del quarto lavoro della band di Bristol. Quando una band riesce a produrre tre album uno più bello dell'altro e che ti convincono che il rock non è morto, ma che invece sta scrivendo una nuova pagina di storia, beh, la paura della delusione è sempre forte. 

E invece dico subito che per me Crawler è uno dei più bei dischi degli ultimi 40 anni. Ritorniamo ai livelli di London Calling e OK Computer. Un lavoro che riprende l'antica tradizione del concept album, tutto incentrato su un incidente di moto di cui fu protagonista il cantante Joe Talbot in un periodo di tossicodipendenza pesante. Il racconto, molto intimo e personale, abbraccia situazioni della sua storia familiare, come l'alcolismo della madre, secondo una linea narrativa propria di capolavori come Tommy.

Si parte con un tributo esplicito ai Massive Attack di Mezzanine, in MT 420 RR, pezzo che mette subito in evidenza la virata verso un approccio molto più elettronico e industrial, proseguendo idealmente l'umanesimo musicale del precedente Ultra Mono. La nuova via è tracciata: ritmi più variati, atmosfere dark industrial di vago sapore kraut rock (The Wheel), aperture spaziali alla Radiohead (Car Crash), momenti electro-folk alla Arcade Fire (Stockolm Syndrome), virate di elettronica pesante che rievocano i Prodigy e passaggi più leggeri e retrò alla Pulp (The Beachland Ballroom). Il tutto proposto con lo stile Idles, consolidato e inconfondibile, magnificamente rappresentato dall'inno finale, The End.

Un album di quelli che al primo ascolto ti chiedi incuriosito e sorpreso cosa stai sentendo, al secondo ti dici "Apperò!", dal terzo in poi lo ascolti in continuazione scoprendo sfumature nuove ogni volta.

La paura è passata. I biglietti per le date di Milano e Roma del tour sono nel wallet. Non vedo l'ora che esca il prossimo album.

venerdì 11 febbraio 2022

BLACK COUNTRY, NEW ROAD (2022) Ants From Up There


Genere
: Post-rock, Alternative rock

Simili: Slint, Van Der Graaf Generator, Can, King Crimson, Arcade Fire

Voto Microby: 8

Preferite: Chaos Space Marine, Concorde, Bread Song

Acclamati worldwide come la più stimolante nuova proposta musicale partorita dall’intellighenzia rock lo scorso anno, il giovanissimo ensemble di South London ha idee da vendere e pubblica il secondo album esattamente un anno dopo il debutto. Soprattutto lo fa senza calo di ispirazione né ansia da prestazione, pur lasciando sul campo di battaglia il pezzo da novanta: solo quattro giorni prima di pubblicare l’album infatti il frontman, cantante, chitarrista e principale compositore Isaac Wood ha annunciato l’abbandono della band, non per dissidi umani o differenti strategie musicali interne ma perché, si spera solo per una transitoria pausa di riposo, impreparato al successo ed allo stress conseguente. I più brillanti esponenti (insieme agli Squid, a giudizio di chi scrive) del nuovo post-rock d’oltremanica restano quindi in sei  (chitarra, basso, batteria, tastiere, sassofono, violino) e, pur avendo la band dichiarato che non si scioglierà, è difficile pensare a chi sostituirà il fragile ed insieme potente spoken word di Wood, così come i suoi testi da teatro surreale. Intanto godiamoci Ants From Up There, granitico nella sua apparente destrutturazione: un album dal seme post-rock alla Slint ma con influenze jazz dalle partiture per nulla improvvisate ed anzi cesellate nota per nota, ricco di contaminazioni art/math rock e caratterizzato da brani dilatati che, pur richiamando il Canterbury sound e maestri dell’avant-prog quali King Crimson e Van Der Graaf Generator, si allacciano agli Arcade Fire di Funeral, all’alt-rock dei Tuxedomoon, agli spigoli dei Pere Ubu, al nu-jazz dei Sons of Kemet, riuscendo talvolta ad evocare anche il minimalismo orchestrale di Steve Reich. Meno spiccate rispetto all’esordio risultano le influenze klezmer e gli accenni all’operetta, così come è invece percettibile il tentativo di dare una forma-canzone alla scrittura.  Troppo complicati? Certo non semplici e non per tutte le orecchie (fondamentale una buona cultura della musica moderna bianca, non necessariamente d’élite): non è musica da ascoltare in sottofondo né da relax/fun, ma la proposta della band del Cambridshire è pressochè unica nella pletora di musica per le masse, quindi merita di essere segnalata. 

lunedì 31 gennaio 2022

Top 'ol55 del 2021: classifica di Luca (Lucaf)

1. The Killers - Pressure Machine

2. James McMurtry - The Horses & the Hounds


3. Bruno Mars & Anderson Paak - An Evening with Silk Sonic


4. Ani DiFranco - Revolutionary Love

5. Celeste - Not Your Muse

6. David Crosby - For Free

7. Imelda May - 11 Past The Hour

8. Zac Brown Band - The Comeback

9. Jon Allen - ...Meanwhile

10. Arlo Parks - Collapsed in Sunbeams








venerdì 28 gennaio 2022

Top 'ol55 del 2021: classifica di Roberto (Microby)

1. James McMurtry - The Horses & The Hounds

2. Jason Isbell - Georgia Blue


3. My Morning Jacket - My Morning Jacket


4. Elbow - Flying Dream 1

5. Tori Amos - Ocean to Ocean

6. Celeste - Not Your Muse

7. Squid - Bright Green Field

8. Black Country, New Road - For the First Time

9. Viagra Boys - Welfare Jazz

10. Dominique Fils-Aime - Three Little Words








giovedì 27 gennaio 2022

Top 'ol55 del 2021: classifica di Beppe (Cerebus64)

Classifica di Beppe (Cerebus64) 

1. Idles - Crawler

2. Maneskin - Teatro d'Ira


3. Black Country, New Road - For The First Time


4. Viagra Boys - Welfare Jazz

5. Squid - Bright Green Field

6. Greta Van Vleet - The Battle at Gerden's Gate

7. Carm - Carm

8. Arlo Parks - Collapsed in Sunbeams

9. Jon Batiste - We Are

10. Stene Wilson - The Future Bites









martedì 25 gennaio 2022

Top 'ol 55 del 2021: classifica di Gigi (Fabius)

 Classifica di Gigi (Fabius)

1. Hayes Carll - You get it all

2. Three Ship : A contemporary folk music journey


3. Yes: The Quest


4. Ryan Adams : Wednesday

5. Bruno Mars & Anderson.Paak: An evening with the Silk Sonic

6. Brandi Carlile:In the silent Day

7. The Killers : Pressure machine

8. Crowded House :Dreamers are waiting

9. David Crosby:For Free

10. Fulminacci:Tante care cose ex aequo con Mother Hips - Growing Lantern




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