Piace molto più ai critici americani che a quelli europei il canadese Chad Vangaalen: prolifico (nove albums in sette anni) ma schivo, invece di rimpolpare la schiera degli epigoni di Nick Drake si approccia al songwriting come una PJ Harvey dei primi lavori.
Si astengano pertanto gli amanti di suoni puliti ed arrangiamenti raffinati: in Diaper Island l’attitudine è proto-punk, e l’esecuzione ha una forte predisposizione al garage-sound. Essenziale, quasi grezzo (si badi bene, non rozzo), si avvale di una chitarra dagli accordi semplici e timbriche metalliche, con una voce spesso in secondo piano, quasi sgraziata, e con abbondante utilizzo di riverberi/effetti eco. Così che più che Elliott Smith il nostro ricorda a tratti il Robyn Hitchcock più psichedelico (Peace On The Rise), il John Lennon più acido (Can You Believe It?), lo Stephen Malkmus più ruvido, i Pixies più stralunati ed addirittura i Cure meno levigati (Replace Me). Bizzarro e nevrotico, non di facile ascolto, ma senza dubbio poco classificabile, se non proprio originale.
Preferite: Burning Photographs, Replace Me, Blonde Hash
Voto Microby: 6.8/10
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