martedì 17 dicembre 2013

Jonathan Wilson, Elton John, The Strypes, Okkervil River, Pearl Jam

  • JONATHAN WILSON (2013) Fanfare 
  • Il polistrumentista (eccellente chitarrista) californiano d’adozione non esce mentalmente e compositivamente dal Laurel Canyon psichedelico e libero dell’inizio-seventies, e licenzia una bella conferma, solo lievemente inferiore all’esordio a proprio nome del 2011. Ma tutte le qualità della “music is freedom” firmate ai tempi da Quicksilver Messenger Service, Grateful Dead, Crazy Horse e soprattutto CSN&Y (specialmente il Crosby di “If I Could”) sono qui ribadite con brillante ispirazione. Come il precedente, reggerà bene la prova del tempo. 7.7/10

  • ELTON JOHN (2013) The Diving Board 
  • Da una decina d’anni EJ ha recuperato la verve compositiva degli esordi, più guardando all’amata America che alla natìa Inghilterra. Nell’ultima fatica viene spinto dal produttore T-Bone Burnett a licenziare un album scritto con il fido paroliere dei tempi d’oro, Bernie Taupin, ed arrangiato come aveva fatto tra il 1969 ed il 1975. Ne risulta un disco che sarebbe stato splendido allora, e solo buono –ma solo per motivi anagrafici- ora. Così le multiformi influenze pianistiche (classica, jazz, r’n’r, honky tonk, pop) del nostro sostengono belle canzoni, accompagnate da poco più che sezione ritmica e cori, senza mai una caduta qualitativa ed anzi arricchendo di numerose perle la già nobile discografia. 7.8/10
  • THE STRYPES (2013) Snapshot 
  • E’ assai probabile che l’operazione sia stata commercialmente studiata a tavolino, ma musicalmente il quartetto di giovanissimi irlandesi (tra i 15 e i 17 anni!) sa accendere entusiasmi che vanno al di là dell’hype del momento, che li potrebbe far considerare una sorta di One Direction del rock. Non inventano nulla i ragazzini, ma la passione (e la sorprendente perizia tecnica) che riversano nella vigorosa miscela di rock’n’roll ’50, british blues ’60 e pub rock ’70 risveglia energia e buonumore. Non c’è l’urgenza rabbiosa del punk né la sporcizia del garage sound, e nemmeno la pulizia pop ruffiana del punk-funk: ma in un unico bollente calderone troviamo Dr. Feelgood, Yardbirds, Rolling Stones, Chuck Berry, Howlin’ Wolf, The Jam, White Stripes, Nine Below Zero. Il tempo dirà se si tratta solo di bravi revivalisti (quasi una contraddizione vista l’età) o di un gruppo destinato a lasciare il segno. 7.5/10
  • OKKERVIL RIVER (2013) The Silver Gymnasium 
  • La band di Austin ha da sempre un suono riconoscibile col suo indie pop miscelato ad un folk-rock in stile-Counting Crows, guidato dalla partecipazione vocale verbosa ed umorale del band leader Will Sheff. E così è rimasto anche dopo lo shift interno che ha portato nel 2001 alla formazione dell’ottimo progetto collaterale Shearwater (più rock con sprazzi prog) ed in questo 7° abum in cui le consuete ballate dolenti si avvicinano a degli Arcade Fire più folk, ed i brani più allegri hanno inserti di synth alla J. Geils Band. Ma i Counting Crows restano di una categoria superiore ed anche in casa propria Black Sheep Boy del 2005 resta insuperato. 7.4/10
  • PEARL JAM (2013) Lightning Bolt
  • Per i paladini del grunge la prima parte del nuovo album rappresenta la prova più tesa ed agguerrita (in termini di rabbia punk ed aggressività hard-metal) da almeno 15 anni. Peccato che l’energia si stemperi nel prosieguo del lavoro, sebbene con ballads ispirate a completare un disco senza gemme assolute ma anche senza una caduta di tono, granitico ma al solito tecnicamente eccellente. 7.3/10

giovedì 12 dicembre 2013

DONNE 2: Agnes Obel, Laura Veirs, Emiliana Torrini, Neko Case, Anna Calvi

  • AGNES OBEL (2013) Aventine 
  • La danese mantiene alla seconda prova tutte le promesse fatte con l’esordio nel 2010, Philarmonics, bello e di successo nel Nord Europa. Di studi classici, la nostra è oggi probabilmente la migliore interprete femminile del cosiddetto chamber pop: a pianoforte e voce sospesi nella classicità affianca solo strumenti acustici senza tempo, come viola, violoncello, violino, arpa, chitarra e sporadiche, morbidissime percussioni. 7.8/10

  • LAURA VEIRS (2013) Warp & Weft 
  • Non è una fuoriclasse la cantautrice di Portland, ma è ormai a pieno titolo da considerare tra i punti fermi del songwriting americano recente al femminile. Dotata di una voce che ricorda Suzanne Vega, ma di estrazione folk anziché urbana, al nono album la Veirs si fa accompagnare da Neko Case, Jim James, KD Lang e componenti di Decemberists e My Morning Jackets, per un lavoro elettroacustico sospeso tra folk e country-rock, ricco di arrangiamenti, colori, sfumature, belle melodie e testi d’impegno, che alla fine risulta forse il suo migliore. 7.8/10
  • EMILIANA TORRINI (2013) Tookah 
  • L’islandese di padre italiano è ormai una certezza nel songwriting intimista al femminile di stampo marcatamente europeo (vedi Clara Luzia, Anna Luca, Agnes Obel) che non disdegna la modernità: perciò eccola alle prese con un’elettronica lieve, nei brani più riusciti, con una di chiara derivazione trip-hop, ancora ispirata, e con una che non dimentica la conterranea Bjork e la Goldfrapp più ritmata, avendo ancora tuttavia da imparare da entrambe. Lavoro positivo, moderno ed insieme caldo. 7.4/10
  • NEKO CASE (2013) The Worse Things Get, The Harder I Fight… 
  • La cantante dei New Pornographers esibisce la propria poliedrica bravura contaminando l’indie-pop della band-madre con il rock anni ’80, richiami al soul fine anni ’50 e perfino una canzone a cappella. Lo fa con classe e senza alcuna caduta di tono, pur senza punte di eccellenza. Ospiti Howe Gelb, M. Ward, Steve Turner e membri di Calexico, Los Lobos, My Morning Jacket e, naturalmente, New Pornographers 7.3/10
  • ANNA CALVI (2013) One Breath  Seconda prova inferiore alle aspettative per l’anglo-italiana, dopo il brillante esordio che prometteva un futuro di primo piano, nella scia di St. Vincent. Nel nuovo lavoro la bella cantante e chitarrista indugia troppo sulle ballads e su arrangiamenti ricercati, perdendo tuttavia l’urgenza espressiva ed il calore compositivo del primo album. 7/10 (Per chi è interessato, Anna Calvi sarà in concerto il 25 febbraio 2014 al Teatro Grande di Brescia)

sabato 7 dicembre 2013

Recensioni al volo : San Fermin, Midlake

San Fermin - San Fermin (2013)
Ellis Ludwig-Leone si laurea a Yale e subito dopo, evidentemente provato dalla dura esperienza, si rifugia in una specie di eremo nelle montagne canadesi per 6 settimane camminando per i boschi nelle ore di luce e scrivendo musica nelle altre. Il risultato è questo suo primo lavoro: una ventina di musicisti, inclusi archi, fiati e vibrafoni, per un alternative folk sinfonico modello Arcade Fire, inondato da accordi indie-pop che rimandano alle dissonanze di Sufjan Stevens e Dirty Projectors. Il tutto immerso in un'atmosfera neo-classicheggiante quasi Mahleriana.  Sembra di sentire la versione acustica di Woodkid.  Mezzo punto di meno perché ha un po' troppi brani, alcuni dei quelli sicuramente sovrabbondanti ed inutili, ma è indiscutibile:  siamo davanti ad un potenziale genio assoluto. Voto ★★★★
Midlake - Antiphon (2013) Classica band in perenne transizione, non hanno mai fatto un disco uguale all'altro. Dal debutto indie del 2004 Bamnan & Silvercork al successivo The Trials of Van Occupanther con i suoi ritmi anni '70 fino al bellissimo folk-rock autunnale di The Courage of Others (2010): l'unica nota abbastanza costante è questa tristezza di fondo che pervade un pò tutti e tre i dischi ma che in realtà ha un effetto rilassante, bucolico, quasi magnetico. Per semplificare, appaiono una band il cui tragitto è non distante a quella dei Fleet Foxes, Okkervil River, Tame Impala o Bon Iver. L'abbandono del gruppo da parte del leader Tim Smith, in dissenso con Jonathan Wilson, coinvolto nel progetto di questo disco, avrebbe potuto rappresentare un vero terremoto per la band texana, che invece, ne esce benissimo con la nuova leadership di Eric Pulido (chitarra). Oddio, la malinconia non manca, ma si ha l'impressione che il loro viaggio possa continuare senza problemi (un pò come i Genesis senza Gabriel o i Pink Floyd senza Barrett...): la direzione sembra verso armonie psichedeliche e progressive (una specie di Moody Blues meno melodici) ma lo charme è immutato e ci si ritrova sempre ad ascoltarli con interesse. Voto ★★★1/2

lunedì 2 dicembre 2013

ARCADE FIRE (2013) Reflektor

A mio avviso la corposa (8 elementi in pianta stabile, ampliati nelle eccitantissime performances live) band di Montreal rappresenta il gruppo più influente nella musica rock dell’ultimo decennio. Tanto che l’arcadefireizzazione del suono (fatto per lavoro di addizione sullo spartito: più musicisti, più strumenti –acustici/elettrici/sintetici- più pathos, suoni ipersaturi, per un effetto finale più ansiogeno che liberatorio, eccetto che nelle energiche e festose esibizioni dal vivo) si riscontra in molte bands attuali, poche delle quali riescono tuttavia ad ottenere l’equilibrio perfetto raggiunto dai canadesi in passato.
Perciò dopo 3 splendidi lavori (uno ogni triennio dal 2004) tra i quali (Funeral / Neon Bible / The Suburbs) è arduo scegliere il migliore, la pubblicazione del quarto era carica di aspettative.
Parzialmente deluse, perché se encomiabile è stato il coraggio di cambiare una volta raggiunto il successo, il risultato sonoro del “mix di Studio 54 e voodoo haitiano” (come ha illustrato l’album il leader Win Butler; cui aggiungerei: + glam rock + new wave + dark + synth pop + dub + funk elettronico) è davvero poco memorabile.
E’ un disco ostico, Reflektor, ai primi ascolti perfino respingente per chi mastica la classicità del rock: la ritmica urbana dei Talking Heads abbraccia lo spleen cupo dei Joy Division e l’elettronica dark dei Depeche Mode, con la solita densità (ora spesso pletorica) di arrangiamenti e la carica epico-drammatica che contraddistingue la band, tuttavia stavolta protesa non all’interpretazione personale del rock che è stato ma alla ricerca di quello che sarà. Riuscendovi solo in parte, non tanto per il deciso ricorso all’elettronica spesso dance-oriented (il disco è coprodotto da James Murphy degli LCD Soundsystem) che potrebbe stare nelle corde dell’ensemble nordamericano, quanto per una prolissità concettuale (75’ totali, tutti i brani sono sopra i 6’, gli arrangiamenti sono ripetitivi e le code sfinenti) che può descrivere bene l’alienazione odierna ma non la frenesia contemporanea. Soprattutto, francamente, non si riconoscono canzoni da tramandare ai posteri.
In summa, se di album game-changer si doveva trattare, è a mio parere azzardato ed eccessivamente generoso paragonarlo (come fatto da molta critica) all’Exile On Main Street degli Stones, al Kid A dei Radiohead, all’Achtung Baby degli U2 o all’Heroes di David Bowie: anche se, soprattutto di quest’ultimo “brano” del duca bianco si prende a prestito la densità straniante ed angosciosa del suono, mischiandola con la ritmica dell’ultimo Primal Scream.

Preferite: Normal Person, Reflektor, Afterlife

Voto Microby: 7/10

martedì 26 novembre 2013

ELETTRONICA/AVANTGARDE: Boards of Canada, James Blake, These New Puritans, The Knife, David Lynch

Una breve passeggiata in un genere, l'elettronica/avantgarde, decisamente trascurato da Ol'55 (perchè altrove dimorano le passioni dei nostri bloggers, me compreso), attraverso il riesame (sedimentato da mesi) di 5 albums molto ascoltati, chiacchierati, incensati o stroncati dalla critica musicale, ma comunque parte integrante della cultura rock e, quindi, della nostra vita quotidiana.

  • BOARDS OF CANADA (2013) Tomorrow’s Harvest 
  • I fratelli scozzesi Marcus e Mike Sandison tornano dopo 8 anni di silenzio e lo fanno ribadendo che, a muoversi tra l’ambient più corposa di Brian Eno e l’elettronica più orecchiabile dei Tangerine Dream e meno semplice di Jean-Michel Jarre, il tutto condito da ritmiche soft-dubstep di cui sono maestri, il punto di riferimento per tutti restano loro. Malinconico, cinematografico, sottilmente minaccioso, il lavoro strumentale del duo si ascolta con facilità e piacere, e cresce con gli ascolti.  Manca tuttavia l’innovazione, la scintilla che renda unico l’album, che gli permetta il salto tra buono ed eccellente. 7.6/10

  • JAMES BLAKE (2013) Overgrown 
  • Tanto non mi aveva colpito l’esordio omonimo nel 2011, quanto invece mi affascina il secondo album del giovane inglese. Non tanto per l’elettronica glaciale e ridotta all’osso del primo, ma quanto perché non ci trovavo “idee”. Che invece emergono prepotenti in Overgrown: l’evoluzione è sempre improntata ad un’elettronica algida e scarnificata, quasi ambient, ma umanizzata da un cantato alla Antony Hegarty, da percussioni trip-hop e da ospitate rap alla Tricky. Si ascoltano, in summa, delle canzoni arrangiate in modo originale e moderno. Non un capolavoro, ma già un riferimento per chi si voglia occupare di elettronica/avantgarde. E probabilmente la colonna sonora ideale dell’attuale quotidianità: Digital Lion la titola un brano dell’album. 7.6/10

  • THESE NEW PURITANS (2013) Field of Reeds 
  • Terzo sforzo per questi trasformisti inglesi che passano tranquillamente dal post-punk all’indie-pop all’art-rock. In quest’ultima fatica eccellono in un territorio che spazia dall’avantgarde al suono di Canterbury più rarefatto all’art-rock più decadente e sofisticato. Suoni eterei, essenziali, non facili, che richiedono attenzione totale, sulla scia dei lavori di Robert Wyatt, David Sylvian, Radiohead, James Blake. 7.4/10

  • THE KNIFE (2013) Shacking The Habitual 
  • Un capiente (98’) contenitore in cui i fratelli svedesi Karin e Olof Dreijer frullano, a volte bel amalgamati a volte intenzionalmente disgiunti dal contesto, i soundscapes di Brian Eno ma anche la sua collaborazione con David Byrne, lo space-rock dei Tangerine Dream ed i ritmi africani di Peter Gabriel, il minimalismo ed il rumorismo, l’industrial e la techno, i vocalizzi di Bjork e l’elettronica di Shackleton. In brani sia strumentali che cantati; brevi o in mini-suites. Intrigante ma non facile, ed indicato ad appassionati di elettronica ed avantgarde. (S.V.)

  • DAVID LYNCH (2013) Big Dream 
  • Ai margini (si spera temporaneamente) dell’industria cinematografica, il grande registra alla seconda prova su disco conferma di essere “sul pezzo” anche nell’arte musicale, più moderno ed in sintonia con i battiti elettronici urbani di molti giovani rampanti: e come ci si poteva attendere è, nei solchi come in celluloide, ipnotico, surreale, paranoico, a suo agio nei ritmi lenti ed elettronici screziati da chitarre lievemente twangin’ ed intercalati dal semi-talking della sua voce nasale e filtrata. Peccato che le sue canzoni, dallo stesso regista definite “modern blues”, siano piuttosto monotone ed eccessivamente glaciali. Perché, quando osa, dimostra di poter essere una sorta di Tom Waits elettronico o di Daughn Gibson urbano o di James Blake pop. 7/10

domenica 17 novembre 2013

Blue Rodeo - In Our Nature (2013)

Blue Rodeo - In Our Nature (2013)
Ultimamente o mi sono rammollito o mi capitano dischi così piacevoli da scalare la mia personale classifica dei migliori dell'anno. I BR sono sempre stati la classica band bella da ascoltare ma facile da dimenticare: questo disco rappresenta invece e senza dubbio l'apice della carriera di questo gruppo roots-rock canadese, sicuramente non alle prime armi (25 anni e 13 dischi). E pensare che il peggioramento dell'udito di Greg Keelor (soffre di tinnito, proprio come Pete Townshend) faceva presagire il peggio: probabilmente la necessità di ballate più acustiche e meno aggressive ha invece fatto emergere il massimo del loro talento. Power ballads, country-blues e country-rock melodico ma non troppo, genere Flying Burrito Brothers o Fleetwood Mac: il classico disco che più lo ascolti e più lo ascolteresti, il disco che ascolti sulla veranda di casa al tramonto bevendoti una bella birra fresca. Voto ★★★★

venerdì 8 novembre 2013

Tra i migliori dell'anno: Brendan James, Amos Lee, Stephen Kellogg, Greg Trooper

Brendan James - Simplify (2013)
Quando si ascolta BJ succede una cosa strana: trasmette una tale sensazione di benessere che ti viene voglia di fermare tutto, alzare la musica e metterti all'ascolto con il sorriso sulle labbra. Al suo 5° album, riesce sempre a donarci serenità e gioia, attingendo a piene mani delle sonorità dei cantautori degli ultimi 50-60 anni: vi sentiamo Paul Simon, James Taylor, Damien Rice, Tracy Chapman, Ryan Adams, Josh Ritter, Jason Mraz.  Un ottimo disco, dall'inizio alla fine, con una prima parte più ispirata all'indie-pop più moderno, ed una seconda parte più orientata verso ballate alla Billy Joel. Una voce stupenda ed emozionante, un modello per tutti i cantautori, in rotazione perenne sul mio iPod da diversi mesi. Voto ★★★★

Stephen Kellogg - Blunderstone rookery (2013)
Dopo 10 anni di concerti in giro con la sua band (i "Sixers"), SK ha avuto finalmente tempo e modo di dedicarsi al suo disco forse più personale ed autobiografico. Il suo stile affonda le radici nella tradizione americana, proprio come Brendan James: anche qui lo stampo è quello di Jackson Browne o Tom Petty, Levon Helm o John Mellencamp.  Blues acustici, roots rock'n'roll alla Tom Petty, perfino un po' di sano rock celtico (del resto anche il nome del disco è tratto dal David Copperfield). Forse l'emblema più puro e moderno del genere "Americana". Ascoltate a canna "I Don't Want To Die On The Road" (una sorta di risposta a "The Road" di Jackson Browne): impossibile non emozionarsi. Voto ★★★★

Amos Lee - Mountains of Sorrow, Rivers of Song (2013)
Molto amato su queste pagine (disco dell'anno del blog nel 2008) Amos è forse il più degno erede dei gente come Levon Helm (Band), Lowell George (Litte Feat) o Jackson Browne. La sua chitarra e la sua voce vibrante e polverosa quasi R&B,  la slide del virtuoso Jerry Douglas, le atmosfere honky-tonk e bluegrass di alcuni brani, i suoi testi che parlano di dolore e di nostalgia illuminano il disco.  Un lavoro senza punti deboli, suonato con il suo usuale calore e con una classe sempre più dirompente, da tenere in considerazione tra i migliori del 2013. Voto ★★★★1/2 

Greg Trooper - Incident on Willow Street (2013)

Undicesimo album in quasi trent'anni di carriera, sempre in giro con la sua chitarra ed il suo cappello a cantare le sue ballate country-folk, è l'ennesimo mistero del rock.  Amato da tutti i grandi del genere (suoi brani sono stati ripresi da Steve Earle e Billy Bragg) è sempre stato ai margini del successo commerciale pur avendo una qualità compositiva di livello eccelso.  In questo album, la varietà di stili e di musicalità è forse migliore che nel precedente "Upside Down" del 2011, con i maggiori risultati nelle ballate con profumo di southern-rock e in quelle più tradizionalmente vicine al folk irlandese. Voto ★★★★

domenica 3 novembre 2013

Brit-Rock in campo: Arctic Monkeys, Babyshambles, Manic Street Preachers

Arctic Monkeys - AM (2013)
Il percorso degli AM rafforza le mie convinzioni. Il gruppo si fa conoscere sostanzialmente tramite il passaparola del pubblico ai loro concerti: i fan si scambiano le registrazioni e loro stessi lasciano liberamente che ciò avvenga. Poi esce il loro primo disco ed è subito un successo clamoroso, anche se ormai tutti avevano in mano la gran parte del disco scaricato o registrato, alla faccia di chi fa battaglie di retroguardia su copyright ecc ecc (mi piacerebbe sentire la competente opinione di Stefano al riguardo). A parte queste considerazioni di contorno, anche in questo lavoro (il quinto) gli AM appaiono tra i migliori esponenti del nuovo brit-rock e, pur in assenza di pezzi particolarmente trascinanti, rivelano  ancora una volta la loro poliedricità spaziando dal soul al blues-rock, dal R&B al synth-pop. Ascoltarli è sempre un piacere. Voto ★★★★
Babyshambles - Sequel to the Prequel (2013)
Peter Doherty è il classico personaggio scassaminchia (si dovrebbe dire "bizzoso"): arriva in ritardo ai concerti, è sempre in mezzo a casini sentimentali (Kate Moss, Amy Winehouse, ecc), appare di più sui tabloid che sulle riviste musicali, è stato spesso coinvolto in vari droga-party. Era pertanto impossibile non partire prevenuti verso questo nuovo lavoro: invece, invece.. ecco un album assolutamente piacevole, quasi da Blur redivivi, arricchiti però da atmosfere folk-pop e white reggae molto accattivanti. Insomma, sembra proprio che tra una cazzata ed un'altra finalmente si sia ricordato di fare anche il musicista… Voto ★★★★
Manic Street Preachers - Rewind the Film (2013)
Gli unici veri eredi dei Clash e del loro combat-rock si sono (solo leggermente) ammorbiditi nel tempo, alternando dischi ruvidi a inclinazioni più pop e mescolando le loro ispirazioni con toni alla Joy Division e con le atmosfere folk del loro paese di origine (Galles).   Il disco non appare convincente: a tratti appare faticoso e stanco quasi da mezz'età musicale, pur avendo, è innegabile dei momenti più ispirati ("Anthem for a lost cause", magari un po' lenta ma piacevole).
Restiamo in attesa dell'evoluzione di questo lavoro (concepito come atto introduttivo del prossimo "Futurology", in uscita entro pochi mesi e che dovrebbe essere, a quanto si dice, un disco dalle influenze più new-wave, quasi kraut-rock, mah). Voto ★★

domenica 27 ottobre 2013

Lou Reed, RIP



Il mio, il nostro cuore sanguina. Lou Reed uno dei più importanti ed influenti rocker della storia è morto oggi, a 71 anni, probabilmente per gli esiti di un trapianto di fegato avvenuto la scorsa settimana.  Con i suoi Velvet Underground ha rappresentato un'epoca ispirando la pop-art grazie all'endorsement di Andy Warhol e della sua factory. Il disco con la banana ha rappresentato una pietra miliare della musica rock della seconda metà degli anni '60, così come Sgt Pepper o Blonde on Blonde. A Brescia abbiamo avuto la fortuna di vederlo ancora un'ultima volta in concerto, un paio di anni fa: era stanco, sembrava malato, ma era ancora lui, graffiante ed eccessivo, selvaggio ma luminoso.

venerdì 25 ottobre 2013

MINIRECENSIONI: Elvis Costello & The Roots, The James Hunter Six, Tired Pony, Piers Faccini, Placebo

  • ELVIS COSTELLO & THE ROOTS (2013) Wise Up Ghost and Other Songs 
  • Iniziata quasi per gioco, la collaborazione tra ?uestlove, drummer e leader degli hip-hoppers (di Philadelphia) The Roots, ed il geniale artista inglese ha partorito un lavoro moderno ed ispirato che ben sposa la sensibilità di entrambe le parti. Così il pop costelliano incontra il soul di Marvin Gaye, sbianca l’hip-hop con screziature reggae/dub dei Roots ma resta ritmico ed urbano grazie a tastiere elettriche saltellanti, basso pulsante e contrappunti di fiati misurati ma colorati. Non il capolavoro prodotto dalla collaborazione con Burt Bacharach, ma certamente al livello, pur su versanti differenti, di quella con Paul McCartney. 7.6/10

  • THE JAMES HUNTER SIX (2013) Minute By Minute 
  • Da 20 anni questo inglese bianco dell’Essex gira il mondo col suo sestetto incidendo sporadicamente uno dei migliori soul/R&B del pianeta, incurante che possa essere tacciato di retro-soul, dal momento che il suo amore per Jackie Wilson, Sam Cooke, Percy Sledge è sfacciato, i suoi brani originali profumano di fine anni ’50-inizio ’60, ed ogni nota è calda ma impeccabilmente scritta ed eseguita su partiture che non ammettono libertà, che si tratti dei fiati o della chitarra acustica o semiamplificata. Esattamente come allora. Ma è l’unico limite. Un Charles Bradley bianco. 7.7/10
  • TIRED PONY (2013) The Ghost of The Mountain 
  • Supergruppo transoceanico, nato dall’amore per la musica americana di Gary Lightbody, nordirlandese operativo in Scozia dove è cantante/leader del gruppo pop di successo Snow Patrol, nei Tired Pony sodale di Peter Buck, chitarrista dei R.E.M., di Richard Colburn, batterista dei Belle & Sebastian, e di vari ospiti. L’ibrido americana/pop riesce, seppur ad un livello inferiore rispetto all’esordio del 2010, in un’atmosfera elettroacustica meditativa e crepuscolare, dalle parti di un Bright Eyes in serata pop. 7.5/10
  • PIERS FACCINI (2013) Between Dogs & Wolves 
  • Forse consapevole delle proprie radici geneticamente multiple, PF opera una deviazione dal proprio songwriting meditativo anglosassone (scuola-Damien Rice) verso il cantautorato francese di impronta folk dei primi ’70 (Pierre Bensusan, Dan Ar Bras) e quello d’autore italiano intimista del medesimo periodo (Alloisio, Claudio Lolli). Purtroppo con scarsa convinzione ed arrangiamenti (in cui di solito eccelle) timidi e parchi. Pur apprezzando la bontà delle canzoni, resta un’occasione persa a metà. 7.2/10
  • PLACEBO (2013) Loud Like Love 
  • Da vent’anni sulle scene, al 7° album di cui i primi 3 amati dalla critica (che esaltava la splendida voce di Brian Molko, la distanza dal brit-pop nonostante le chitarre affilate, le sfumature glam e la potenza live nonostante si trattasse di un trio) ed i successivi snobbati dalla stessa in concomitanza col successo commerciale, il gruppo londinese non è riuscito ad ottenere la visibilità planetaria degli accostabili Muse ma ha sempre mantenuto un buon (mai eccellente) livello qualitativo. La cura del disturbo bipolare di Molko se da una parte non ha giovato all’ispirazione musicale e lirica della band, l’ha tuttavia preservata dallo scioglimento. Quest’ultimo disco è carino, meglio dei due precedenti, ma non aggiunge nulla a quanto noto né alla scena musicale odierna. 7.2/10

mercoledì 9 ottobre 2013

BIG: Jack Johnson, John Mayer, The Rides, Travis, Editors

  • JACK JOHNSON (2013) From Here To Now To You 
  • La vicenda musicale di JJ mi ricorda da sempre quella di Jimmy Buffett (dai ’70 ad oggi): come quest’ultimo da musicista, scrittore, ristoratore e discografico di successo promuoveva lo stile di vita rilassato e felice della Florida, JJ da musicista, surfista professionista, ecologista, discografico e cineamatore riflette nella musica l’easy life delle natìe Hawaii. Entrambi lo fanno con grande informalità, mischiando JB il country con i Caraibi e ridefinendo JJ il sound del Surf (non più il pop corale dei Beach Boys ma un cantautorato acustico saltellante, allegro, sereno, che dà sempre “good vibrations”). Non cambia in quest’ultima prova, e gli si potrebbe rimproverare di rifare sempre lo stesso (gran bel) disco. Ma come ti migliora l’umore stampandoti un sorriso quando ti svegli al mattino con la sua voce carezzevole e la sua chitarrina swingante! 7.8/10

  • JOHN MAYER (2013) Paradise Valley 
  • L’americano non abbandona le sonorità prevalentemente acustiche e la passione per le radici country-rock della provincia che lo avevano riproposto in stato di grazia con il precedente Born and Raised dello scorso anno. L’attuale potrebbe chiamarsi Volume 2, perché pari sono i riferimenti stilistici, l’ispirazione, gli arrangiamenti. E la splendida chitarra bluesy con la voce da soul bianco amplificano i consueti paragoni, anch’essi alla pari, con il Clapton più pop-soul, solare, leggero, di classe superiore. 7.7/10
  • THE RIDES (2013) Can’t Get Enough 
  • The Rides è il supertrio costituito da Stephen Stills, chitarrista ed anima blues di CSN&Y, da Kenny Wayne Shepherd, uno dei chitarristi elettrici più talentuosi dell’ultima generazione di bluesman bianchi, e da Barry Goldberg, tastierista degli Electric Flag e session man ubiquitario col suo piano ed hammond sui dischi e palchi degli ultimi 40 anni. A partire dall’album cui rimanda chiaramente Can’t Get Enough, quel Super Session che nel 1968 aveva sbalordito con un rock-blues libero da schemi, meravigliosamente suonato dal supertrio di allora Stephen Stills, Al Kooper e Mike Bloomfield. Oggi a tastiere e cori seventies si accostano riffs hard-rock, spunti rock’n’roll e perfino punk, ma soprattutto fraseggi blues tra chitarra/voce più limpide e tecniche di KWS e quelle più sporche ed umorali di SS, per un lavoro che in summa risulta coeso, spontaneo, di buona ispirazione e scrittura, ed of course ottimamente suonato. 7.6/10
  • TRAVIS (2013) Where You Stand 
  • Tre notevoli dischi all’esordio (il mio preferito è The Invisible Band del 2001), il successo e poi l’ansia da prestazione, che ha prodotto i tre successivi, insipidi lavori. Dopo 5 anni il quartetto scozzese capitanato da Fran Healey torna per dirci che è ancora capace di melodie brillanti, di arrangiamenti raffinati e di una scrittura che, pur non essendo più quella dei giorni migliori, è stata di riferimento a più di un gruppo pop di successo. 7.4/10
  • EDITORS (2013) The Weight Of Your Love 
  • Sostituito il chitarrista Chris Urbanowicz (dimissionario per divergenze artistiche), Tom Smith e sodali non cambiano la matrice dark wave che ha dato loro notorietà (come risposta inglese agli americani Interpol) ma, in assenza dell’ispirazione dei primi due albums e dopo la scialba virata elettronica del terzo (tipo Depeche Mode annacquati), cercano di arricchirla con aperture più romantiche (nella scrittura, nell’ uso di archi e strumenti acustici) e mainstream (U2-style), pur rimanendo saldamente ancorati alle sonorità eighties. Ci riescono in parte. 7.2/10

mercoledì 2 ottobre 2013

DONNE: Nadine Shah, Goldfrapp, Julia Holter, Chelsea Wolfe, Julianna Barwick

Un breve itinerario attraverso gli albums di alcune delle donne più coccolate dalla critica musicale estiva, nonostante artefici di musica non propriamente solare e vacanziera. Tra luci ed ombre.

  • NADINE SHAH (2013) Love Your Dum And Mad 
  • Esordio dicotomico per l’inglese di origini pakistano/norvegesi: ad una prima parte indecisa tra il seguire la ieraticità di Patti Smith, la teatralità di Marianne Faithfull, lo spleen di Carla Bozulich o la commercialità di Florence & The Machine, segue una seconda in cui la voce sempre profonda, declamatoria e con un vibrato da studi classici si accompagna esclusivamente al pianoforte, come ammirasse Agnes Obel o Ane Brun. In entrambi i casi, con buoni risultati e grandi ed ancora poco espresse potenzialità. 7.7/10

  • GOLDFRAPP (2013) Tales of Us 
  • Al sesto album il duo inglese Alison Goldfrapp + Will Gregory spariglia ancora le carte, dopo aver giocato quelle di un trip-hop elegantissimo (l’insuperato esordio del 2000  Felt Mountain), ma anche di un’electro-clash per masse e di una dance glam-trash dozzinale, proponendo ora il loro disco più intimistico, acustico, fratello timido e malinconico del riuscito Seventh Tree del 2007. Fin troppo in punta di piedi, verrebbe da aggiungere, mentre si apprezzano morbidi arpeggi di chitarra, un pianismo minimale, degli archi raffinati e la solita voce sensuale ed eterea di Alison. 7.4/10
  • JULIA HOLTER (2013) Loud City Song 
  • La ventinovenne polistrumentista e cantante losangelena sorprende con una difficile, eterea e riuscita fusione di avantgarde e melodie pop, elettronica lieve ed inserti jazzati, intellettualismo algido alla Laurie Anderson e timbro cristallino alla Joni Mitchell, fiati ed archi alla These New Puritans e chiari richiami dark in stile 4AD. 7.4/10
 
  • CHELSEA WOLFE (2013) Pain Is Beauty 
  • La californiana è la migliore erede attuale, con l’austriaca Anja Plaschg (alias Soap & Skin), della musica dark/decadente/neogotica al femminile partita con Nico (sarà una coincidenza che il suo primo album solista del 1967 sia titolato Chelsea Girl?) ed evoluta attraverso Siouxsie & The Banshees, Lydia Lunch, Cocteau Twins, Dead Can Dance, Carla Bozulich: insieme noir, ieratica, minacciosa, desolata, ossianica, depressogena. Per gli amanti del genere, una garanzia. Ma si richiede maggiore originalità rispetto ai modelli. 7.2/10
  • JULIANNA BARWICK (2013) Nepenthe 
  • Originaria della Louisiana ma con base artistica a Brooklyn, l’americana disegna paesaggi sonori con il solo utilizzo della propria voce angelica, utilizzata in multipli loops sovrapposti. Solo al 3° album arricchiti da delicati accompagnamenti di pianoforte, archi ed elettronica, per un suono che si colloca tra l’avantgarde/ambient e la new age, tra Sigur Ros ed Enya, i Cocteau Twins e Brian Eno. Celestiale o noioso, a seconda dell’ascoltatore e del suo stato d’animo. 7/10

giovedì 26 settembre 2013

MINIRECENSIONI: Spin Doctors, Smith Westerns, Rose Windows, Buzztown, Jimbo Mathus

  • SPIN DOCTORS (2013) If The River Was Whiskey
  • Tra le bands americane animatrici nei ‘90, con Phish e Dave Matthews Band, del fenomeno delle jam-bands, col loro cocktail di blues, rock, funk e psichedelia, e le tipiche improvvisazioni live infinite con line-up aperte, i newyorkesi Spin Doctors ritornano col secondo album in 20 anni inciso con la formazione originale, in cui risplende la chitarra saltellante di Erik Schenkman ed il tipico gigioneggiare del vocalist Chris Barron. Con un più marcato approccio al blues sudista. 7.4/10

  • SMITH WESTERNS (2013) Soft Will
  • Da Chicago i due fratelli Cullen e Cameron Omori, dopo 2 lavori che guardavano sia al garage che al glam-rock di Marc Bolan, al terzo album sterzano verso composizioni brit-pop zuccherine alla Lightning Seeds/Dodgy/Dylans, con in testa sempre i Beatles di Harrison e McCartney. Peccato per l’eccessiva saturazione dei suoni tra tastiere e chitarre, con l’effetto finale di una torta molto buona ma troppo dolce, da consumare con parsimonia. Ma ci sono sia la stoffa compositiva che le potenzialità di classifica. 7.5/10
  • ROSE WINDOWS (2013) The Sun Dogs
  • La musica dell’ampio combo di Seattle non ha nulla a che vedere col grunge locale, né coi rosoni gotici del nome sociale, pur tuttavia mantiene le radici sonore ben piantate nel passato, in particolare nell’acid-rock californiano ’67-’69 e nell’hard rock psichedelico dei primi ’70. Il leader, compositore e chitarrista Chris Chevejo e la lead vocal Rabia Shaheen Qazi miscelano un efficace (ancorchè non originale) trip di folk, rock, hard, raga e psichedelia che tra chitarre, basso, batteria, piano, hammond, flauto, archi non fa nulla per nascondere l’amore per Jefferson Airplane, Kaleidoscope e gli epigoni attuali Tame Impala e Black Mountain. 7.6/10
  • BUZZTOWN (2013) Wherever You Hide
  • Il retro di copertina suggerisce “File under: blues”, ma lo sticker applicato sul (bel) fronte-copertina recita ed illumina: Blues + Rock + Funk + Jazz = Buzztown. Al secondo album questo quartetto francese merita visibilità internazionale, in virtù dell’eclettismo di ispirazione, della bella ancorchè classica scrittura, e dell’eccellente tecnica dei musicisti, con menzione d’onore per il talentuoso chitarrista Hugues Renault (chiaramente ispirato a Robben Ford) e per la voce calda e roca di Mike Chailloux. 7.5/10
  • JIMBO MATHUS & The Tri-State Coalition (2013) White Buffalo
  • Dopo aver passato la gioventù a suonare folk, bluegrass e country-blues, e gli anni ’90 jazz, swing e klezmer con gli Squirrel Nut Zippers, dagli anni zero James H. Mathis Jr., figlio di uno scozzese ed un’italiana trapiantati in Mississippi, sta rivisitando la musica bianca americana del sud: così anche White Buffalo gode di gran varietà, tra folk-rock, country-rock alla Drive-by Truckers, rock’n’roll, psichedelia ’60, country nashvilliano, rock che cita Mountain, Neil Young, Jimi Hendrix, perfino il Paisley Underground. Con qualità e calore tipicamente sudista. 7.5/10

giovedì 19 settembre 2013

Bill Callahan - Dream River (2013)

Ecco uno che sta costruendosi la leggenda di "great american singer songwriter". Lasciato l'eponimo Smog da qualche anno, alla non più giovanissima età di 47 anni, è al 4° album firmato col suo vero nome (14° se si considerano anche i precedenti) e si sta via via imponendo come il grande narratore della poetica musicale nordamericana tradizionale. Ci si sentono i suoni selvaggi di Tim Buckley, i riff jazz-folk di Joni Mitchell, l'incedere di Leonard Cohen (quella voce baritonale un po' spettrale....), la visionarietà country-psichedelica del David Crosby di "If I Could only remember my name", il freddo musicalismo di John Cale, le dotte meditazioni di Nick Drake. Ma forse non è neanche giusto metterci tutto quello che vi si sente: Callahan è obliquo a tutto quello che potete immaginare come musica americana, non sarà mai Dylan o Cohen, si muove come sospeso da terra, nella sua apparente malinconia. Gran bel disco. Grandi atmosfere. Voto ★★★★

mercoledì 18 settembre 2013

BLACK JOE LEWIS (2013) Electric Slave

Vi piace il soul ma non sopportate le derive patinate da classifica? Amate il suono Stax/Motown ma vorreste una proposta al passo coi tempi? Vorreste la musica black (mal)trattata come Kurt Cobain ha fatto con quella bianca?
Dopo lo splendido Scandalous del 2011 BJL e i suoi accoliti sono tornati a ribadire che sono quello che fa per voi: soul/R&B/funky sporco, cattivo, elettrico, garagista, come se James Brown/Sly Stone/Chuck Berry/Howlin’ Wolf suonassero insieme a Nirvana/Black Mountain/QOTSA la rabbia della strada, bianca o nera che sia. BJL prosegue il discorso tracciato oltre 40 anni fa da Jimi Hendrix e lasciato in sospeso: da Electric Ladyland ad Electric Slave si respira la medesima negritudine liberata, urlata, al contrario di quella trattenuta e composta di One True Vine di Mavis Staples: su versanti opposti, i due albums black più coraggiosi e significativi dell’anno.
Rispetto a Scandalous il nuovo lavoro è meno vario e radiofonico, ma decisamente più granitico e coeso, e cresce sempre più ad ogni ascolto (attento). Peccato che gli hypes del momento siano l’elettronica ed i cantautori intimisti bianchi ed ipertricotici: con un po’ di coraggio le radio indie (ma esistono ancora?) potrebbero far nascere una stella.

Preferite: Come To My Party, Vampire, Make Dat Money

Voto Microby: 8.7/10

venerdì 6 settembre 2013

Recensioni al volo : Justin Currie, Blue October, Scud Mountain Boys, Jason Isbell



Justin Currie - Lower Reaches (2013)
Frontman dei Del Amitri, gruppo pop-rock scozzese attivo negli anni '80 e '90, dopo avere sciolto la band ha iniziato una carriera solista con l'esordio  What is Love For del 2007 e con il successivo, di maggiore qualità, The Great War, del 2010. Anche in questo lavoro non si può che ammirare la sua voce (una via di mezzo tra Peter Gabriel e Paul McCartney, così, tanto per gradire) ed il suo folk-pop a tratti vagamente country, ricco di armonie, maggiormente coinvolgente soprattutto nei brani più malinconici e notturni (Priscilla, Into a Pearl). Voto ★★★★

Blue October - Sway (2013)
Gruppo texano che stranamente, vista l'origine, non fa né blues, né southern né country ma una buona solida alternative music. Le loro ispirazioni? Indie music sicuramente, ma anche una spruzzata di Cure e dei vecchi Cars.  Li avevo ammirati soprattutto in Any Man in America ma anche questo lavoro, pur non essendo nulla di imperdibile, è molto gradevole. Voto ★★★

Scud Mountain Boys - Do You love the sun? (2013)
Toh, chi l'avrebbe detto? Qualche tempo fa mi ero fatto prendere dalla nostalgia per il bellissimo Massachusetts del 1996 (andate a ripescarvi la recensione), un bel disco di country alternativo venuto fuori nel bel mezzo del movimento grunge e anche per questo motivo non particolarmente considerato in quegli anni. Proprio dopo quel disco il leader Joe Pernice sciolse la band e assieme al fratello fondò i Pernice Brothers, gruppo sicuramente più pop inanellando una mezza dozzina di album. Ebbene, come se non fossero passati 16 anni e con la line-up storica, ecco il nuovo disco. La musica è sempre quella: ballate malinconiche, avvolgenti, vagamente annoiate e un po' tristi . L'impressione è che i brani non siano molto diversi gli uni dagli altri, anche se non difettano di qualità e si fanno ascoltare bene. Voto ★★★

Jason Isbell - Southeastern (2013)
Al sesto album solista, l'ex Drive-By-Truckers, lasciati alle spalle gruppo e riabilitazione post-alcolica (in una recente intervista affermava di ricordarsi vagamente il periodo in cui suonava con il gruppo, tanto era perso nell'alcool) conferma in pieno il suo grande talento.  Anche il precedente album Here we rest, pur se a parere di alcuni troppo professionale e quasi impersonale, ce l'aveva restituito al meglio della sua classe. Con quest'ultimo lavoro tendono a prevalere sono soprattutto i suoi aspetti più country, più immediati e più sinceri. Possiamo sicuramente dire che ormai si è lasciato alle spalle il suo passato (DBT inclusi) e ha iniziato a camminare, anzi a correre per la sua strada.   Voto ★★★ 1/2

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