giovedì 31 dicembre 2015

How big is your soul?

 Avevo già parlato dei Dead Shrimp quando nel 2013 aprirono il concerto romano di Luke Winslow-King destando ottima impressione. In quell'occasione dissi che erano da tenere d'occhio. Non mi sbagliavo. Dopo un primo lavoro (Dead Shrimp, 2013) che già confermava quanto la band aveva promesso dai palchi di tutta Italia, è uscito da qualche settimana How big is your soul?, ed è già un caso discografico. Le critiche delle riviste specializzate sono ottime, in qualche caso osannanti. C'è addirittura chi li paragona ai primi Black Keys. Di certo c'è che questi tre ragazzi stanno portando il loro blues, ispirato a Robert Johnson con sonorità varie e moderne, fuori dall'ambito del nu-blues romano, dimostrando di non esser da meno delle band USA che si vedono per i vari festival italiani. Il live di presentazione del CD, nell'affascinante Monk club di Roma, è stato un concerto di livello assoluto, arricchito dalla chitarra ospite di Roberto Luti, presente anche nel CD. Un lavoro tra i più interessanti e sorprendenti del 2015. Memorabili la title track, un gospel che sta già diventando un tormentone tra gli aficionados, e la malinconica e profonda Go down sun.


martedì 29 dicembre 2015

CHRIS CORNELL, ADELE, DEATH CAB FOR CUTIE

CHRIS CORNELL (2015) Higher Truth


Dopo il pasticcio di pop elettronico Scream (2009), prodotto da Timbaland (!), l’ex frontman di Temple of The Dog/ Soundgarden/Audioslave mette di nuovo d’accordo critica e fans pubblicando un album prevalentemente acustico, dai suoni brillanti e dagli arrangiamenti ricchi, con inserti elettrici misurati ma appassionati. La voce è sempre tra le migliori del panorama rock, ma sono scrittura e produzione (stavolta nelle mani sapienti di Brendan O’Brian, vedi Pearl Jam e Bruce Springsteen) a fare la differenza, in un disco senza brani deboli che richiama per stile ed ispirazione l’esordio da solista Euphoria Mourning (1999), e per il quale si può scomodare l’etichetta di cantautorato post-grunge per adulti.
Voto Microby: 8
Preferite: Nearly Forgot My Broken Heart, Dead Wishes, Higher Truth


ADELE (2015) 25


Abbandoni l’idea chi pensava che Adele potesse continuare il discorso là dove l’aveva interrotto Amy Winehouse. Dove quest’ultima cercava un connubio tra il soul classico ed i nuovi linguaggi del pop, nel contempo differenziandosi dal nu-soul alla Erikah Badu, al terzo album la londinese 27enne (“25” sta per l’età in cui ha composto i brani dell’album) non modifica formazione e tattica vincente, che hanno portato il precedente “21” ad essere, con le sue 30 milioni di copie, l’album inglese più venduto dall’inizio del millennio. Con poche rivali nel comporre ed eseguire pop-soul ballads per il mercato bianco (necessita solo di piano e voce per esprimere il suo enorme talento), e più nella media nell’affrontare brani più mossi, la rotonda e simpatica inglesina pare sempre più vicina alle stars dell’easy listening di classe come Celine Dion, Whitney Houston, Dusty Springfield, Dionne Warwick che alle muse ispiratrici (per sua esplicita ammissione) come Etta James ed Aretha Franklin. Certo, in questo pop levigato tinto di white soul, Adele Laurie Blue Adkins non ha rivali.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Hello, When We Were Young, Million Years Ago


DEATH CAB FOR CUTIE (2015) Kintsugi


Kintsugi è l’arte giapponese della riparazione di vasellame di ceramica. Forse si riferisce al distacco dal gruppo del chitarrista e co-fondatore Chris Walla, che ha comunque prima ultimato l’album. Ed il ritorno alle elegantissime, cristalline e sognanti sonorità della sua chitarra, dopo il rammarico di un album virato alle tastiere ma insipido come il precedente Codes and Keys (2011), è il marchio dell’attuale album: non è un capolavoro, Kintsugi, ma la chitarra di Walla, la voce nasale ma vellutata, intrisa di malinconia del leader Ben Gibbard, il lavoro accurato e raffinato della sezione ritmica indicano il passo del soft-rock dei nostri tempi. Mancano tuttavia le grandi canzoni (di cui i nostri sono stati capaci in passato) che garantiscano il salto di qualità dal discreto all’eccellente.
Voto Microby: 7
Preferite: Little Wanderer, Black Sun, Good Help (I So Hard To Find)



GUY GARVEY, NADINE SHAH, PANDA BEAR

GUY GARVEY (2015) Courting The Squall



Skippate il primo brano, Angela’s Eyes, scelto come singolo ma del tutto estraneo al resto dell’album. Iniziate quindi l’immersione nella romantica malinconia della voce, evocativa e magnifica, del leader degli Elbow, qui al suo primo sforzo da solista. Evidenti i tentativi di smarcarsi dal neo-prog della band madre, ma la matrice principale resta quella: non siamo insomma di fronte alla frattura artistica completa tra il Peter Gabriel con e senza Genesis. Vi è certo maggior attenzione alla componente ritmica (che ricorda a tratti quella del Pat Metheny “pop”), alle tastiere liquide, avvolgenti, cotonose piuttosto che alla solidità delle chitarre, ma soprattutto agli arrangiamenti per fiati che non hanno nulla della black music, ma sono utilizzati in modo strutturale, bianco e razionale à-la King Crimson, David Bowie, Brian Eno, David Byrne. Splendidi. Così come la qualità della scrittura, all’altezza dei migliori dischi degli Elbow. Unico peccato la disomogeneità del lavoro, forse dettata dall’indecisione sulla direzione stilistica da prendere. Ma Garvey dimostra ampiamente di poter correre da solo con plauso, mentre è difficile pensare altrettanto del resto della band, inevitabilmente schiava delle liriche e della voce struggente del frontman. Speriamo che il nostro continui a tenere il piede in due scarpe.
Voto Microby: 8
Preferite: Harder Edges, Juggernaut, Courting The Squall  


NADINE SHAH (2015) Fast Food


Di quest’inglese dal DNA pakistano/norvegese avevo già scritto bene in occasione del suo esordio Love Your Dum And Mad (2013). Allora aveva sciorinato una varietà di influenze (dal dark al pop alla classica) trattate con ottima scrittura e buon gusto per gli arrangiamenti, in entrambi supportata da Ben Hillier. Binomio che si ripropone con maggior coesione stilistica, perdendo solo un po’ in brillantezza, anche col nuovo, di nuovo raccomandabile, Fast Food. Che non va consumato come recita il titolo, ma che cresce con gli ascolti assaporando pian piano i sapori e le spezie: meno pop di Anna Calvi, meno rock di Ema, meno eclettica di St. Vincent, meno malata di Carla Bozulich, meno spettrale di Chelsea Wolfe, ma a tutte in qualche modo affiliata. Se di Shilpa Ray (per certi versi simile, ma che alla lunga mi annoia) si dice che sembra un incrocio tra Lana Del Rey e Nick Cave (concordo), di Nadine Shah si potrebbe pensare ad una Patti Smith che flirta con la musica dark di stampo 4AD. La copertina, tra gothic e Warhol, rende l’idea più del titolo. Seconda prova positiva, ma ancora con margini di miglioramento.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Fast Food, Stealing Cars, Fool  


PANDA BEAR (2015) Panda Bear Meets The Grim Reaper


Membro fondatore dei newyorkesi Animal Collective, Noah Lennox giunge al quinto lavoro da solista ma non si discosta molto dalle più recenti evoluzioni space-pop oriented del collettivo. A dispetto del precedente Tomboy, nel nuovo album non vi è quasi traccia di chitarre: mentre il suono è arioso ed orecchiabile, giocato da tastiere ed elettronica, i testi sono pregni di tensione ed il tema è la morte (The Grim Reaper in inglese), ed il cantato è una sorta di litania mantrica che sembra sublimarla. E’ uno sforzo interessante ma in cui non vi è ricerca, mancano melodie memorabili né vi è grande originalità negli arrangiamenti. Il tutto fa discreto, ma non imprescindibile.
Voto Microby: 7
Preferite: Mr. Noah, Boys Latin, Tropic of Cancer


giovedì 17 dicembre 2015

DAVID GILMOUR


DAVID GILMOUR (2015) Rattle That Lock





I Pink Floyd non sono mai stati una band democratica: segnati dalla leadership di Syd Barrett negli anni dei capolavori psichedelici The Piper At The Gates of Dawn (1967) e A Saucerful of Secret (1968), quindi egemonizzati da Roger Waters negli anni dell’esplosione commerciale ma anche artistica dei capolavori progressive The Dark Side of The Moon (1973) e Wish You Were Here (1975), fino al concept The Wall (1979); infine catalizzati dal gusto melodico e dalla personale tecnica chitarristica di Gilmour nei 30 anni successivi, al solito gonfi di successo al botteghino e dal vivo. Da The Wall, sia in gruppo che nell’attività solistica, nulla di significativo per la storia e l’evoluzione della musica pop-rock. Barrett alla ricerca del proprio cervello irreparabilmente danneggiato dall’abuso di sostanze psicotrope, ma capace di isolate schegge di genio che hanno influenzato il cantautorato psichedelico degli anni a venire; Waters ad inseguire psicoanaliticamente i fantasmi della propria infanzia-adolescenza, ed alla fine incapace di uscire dalla riproposizione ad libitum del deus ex machina The Wall; più in sordina, il meno considerato Gilmour ha pubblicato con parsimonia (l’attuale è il quarto album in studio dal 1978) lavori sempre di buona scrittura epico-melodica, di matrice prog pinkfloydiana sebbene più pop-oriented, segnati dal timbro riconoscibilissimo della sua Stratocaster. Non fa eccezione quest’ultimo lavoro, forse il suo migliore, godibilissimo per le caratteristiche di cui sopra, che sarà amato dai fans di The Division Bell, sarà apprezzato da quelli dei Floyd seventies, mentre irriterà i devoti al verbo barrettiano. Non ultimo: incuriosirà e/o interesserà gli ultraquarantenni, mentre lascerà del tutto indifferenti gli under 30, non toccati dal fascino dei Floyd e non adusi a suoni estranei al contesto musicale degli ultimi 30 anni (eccetto la sacca di irriducibili aficionados del prog ’70, o gli adepti del neo-prog). Tutte considerazioni che permeano il giudizio finale su Rattle That Lock: di cui si apprezza la ricchezza di suoni, la bontà delle melodie, la brillante tecnica dei musicisti, gli arrangiamenti eleganti, il sempre stupefacente fascino dell’elettrica di Gilmour, perfino la varietà delle composizioni (dal prog al valzer, dal crooning al soul, dal rock all’ambient). Ma che, una volta consumato (con molto piacere per le orecchie di un ultracinquantenne come me), viene archiviato tra i dischi belli ma ininfluenti. Ma, ormai prossimi alle vacanze natalizie, si può godere anche del superfluo, così come facciamo con panettone e pandoro. Al solito molto bello (e gotico) l'artwork.

Voto Microby: 7.8

Preferite: Faces of Stone, Rattle That Lock, In Any Tongue

lunedì 14 dicembre 2015

Recensioni: Beth Bombara, Jamie Lawson, Coldplay

BETH BOMBARA - Beth Bombara (2015)
Cantautrice nata nel Michigan e cresciuta musicalmente a St. Louis, Missouri, dalle radici profondamente affondate nella cultura musicale della sua area, è al suo quinto disco. Gli strumenti sono quelle della tradizione del genere Americana: violino, pedal steel, banjo, mandolino,  ma anche chitarra elettrica e distorta per un suono semplice ed autentico ed una voce che ricorda quella di Natalie Merchant.  Il suo genere sta dalle parti di Gillian Welch e Laura Veirs ma ricorda anche Stevie Nicks ed il poprock dei Fleetwood Mac anni ’70.  Tutto sommato, un gran bell’album, equilbrato, semplice ma profondo ed appassionato, sicuramente tra i migliori del genere. Da ascoltare: Promised Land, Heavy Heart, Found Your Way. Voto: ☆☆☆☆

JAMIE LAWSON - Jamie Lawson (2015) 
Dopo tre di album in 10 anni, un brano di discreto successo (“Wasn’t expecting that”) e peregrinazioni per anni nei bar inglesi ed irlandesi, il 39enne musicista inglese è riuscito a farsi notare da Ed Sheeran che l’ha scritturato per la sua etichetta discografica e gli ha fatto aprire i concerti per il suo recente tour mondiale. Apparentemente niente di nuovo: una chitarra acustica, tastiere qua e là, melodie semplici e una bella voce. Probabilmente proprio l’abbraccio patologico di Sheeran l’ha un pò condizionato e i suoi brani rischiano sempre di scivolare nel pop più scontato: la qualità musicale, la passione ed il talento tuttavia non mancano ed è lecito aspettarsi un’evoluzione sempre maggiore. Siamo dalle parti di Simon&Garfunkel o, più modernamente di James Bay, Biffy Clyro o Ben Howard. Da ascoltare: Wasn’t expecting that, Still Yours, Ahead of myself. Voto: ☆☆☆1/2

COLDPLAY - A Head Full Of Dreams (2015)

Da sempre i Coldplay vivono al limite tra pop di qualità e derive commerciali da pista da ballo. Dopo un disco a mio parere non eccelso e troppo “notturno” (Ghost Stories) questo lavoro rappresenta invece un passo avanti, sempre mantenendosi in perfetto equilibrio sull'orlo del baratro. I primi due singoli attualmente in rotazione, decisamente dance-pop, rischiano di far perdere di vista la grande qualità melodica di gran parte del disco che, come suggerisce la copertina, appare musicalmente caleidoscopico:  la discutibile electro-R&B “Hymn for the weekend” è controbilanciata dalle magnifiche Everglow, Birds e, soprattutto, Colour Spectrum, che ricordano gli album degli esordi. Andrea Laffranchi, ottimo critico del Corriere, sostiene che i Coldplay sono sicuramente la più grande band del momento ma continuano a perdere l’occasione di diventare la più grande rock-band degli ultimi 10-15 anni. Non importa: nonostante ci sorprendano e ci disorientino è impossibile non volergli bene. Voto: ☆☆☆1/2


venerdì 11 dicembre 2015

HALF MOON RUN, THE LONDON SOULS, PETER BRODERICK


HALF MOON RUN (2015) Sun Leads Me On




Potrebbe essere il terzo album degli Alt-J. Quindi acquisto a scatola chiusa. Ma rispetto a questi ultimi il quartetto di Montreal, qui al secondo lavoro, ha caratteristiche in più ed altre in meno. In più (non è necessariamente una qualità) soprattutto le influenze: oltre agli stessi Alt-J (pop intelligente, cori sospesi, cambi di ritmo, progressioni melodiche, rimandi al folk bucolico attualizzato), anche ampie dosi di Fleet Foxes e di Stornoway, un pizzico di Midlake, di Bloc Party e di Beach Boys. Ma anche 2 brani (quelli che eliminerei dalla scaletta perché totalmente disarmonici col resto; e purtroppo scelti come singoli, la qual cosa mi fa temere per l’evoluzione futura della band) electro-new wave anni’80. In meno: la classe cristallina degli Alt-J, originale e compiuta già all’esordio, là dove gli HMR mostrano ancora qualche indecisione e (piccola) pecca tre anni dopo il debutto. Si tratta di dettagli che ad alti livelli fanno la differenza, ma la stoffa utilizzata è di ottima qualità ed il taglio di eccellente fattura. Le scelte future presumo siano legate al successo o meno dei 2 singoli Trust e Consider Yourself, così mi ritrovo a tifare contro.

Voto Microby: 8.5

Preferite: Turn Your Love, Hands In The Garden, Narrow Margins





THE LONDON SOULS (2015) Here Come The Girls



Secondo album (ma primo con distribuzione internazionale) per il classico duo chitarra (Tash Neal, sembra il cugino di Jimi Hendrix) e batteria (Chris St. Hilaire, il fratello minore di Frank Zappa?). Non tragga in inganno il nome della band: i due sono di New York. Illuminanti invece, per catalogare il genere musicale prodotto, le somiglianze fisiche, il look dei due e l’artwork di copertina: una totale immersione nel rock (non pop) anni ’60, con le influenze più palesi in Cream, Beatles, Small Faces, Animals, Ten Years After. Al netto della mancanza di originalità (se pensiamo che le medesime radici, filtrate ed attualizzate, le troviamo in una band di altra levatura come i Black Keys) le 13 tracce sono fresche, godibili, ben eseguite, filologicamente impeccabili, che siano acustiche o elettriche. Un consigliabile ritorno ai sixties di qualità.
Voto Microby: 7.5
Preferite: When I’m With You, Steady, Alone





PETER BRODERICK (2015) Colours of The Night



Il prolificissimo (già una quindicina di dischi a soli 28 anni!) musicista di Portland, Oregon (ma da anni attivo a Copenhagen), registra l’ultimo album a Lucerna, accompagnato da una band svizzera. Ma il suono resta caldo, crepuscolare, intimo, anche grazie alla rinuncia all’essenzialità ed alla sperimentazione dei precedenti lavori. I riferimenti quindi, da Hauschka, Dustin O’Halloran, Nils Frahm, Balmorhea sui quali era allineata la produzione avantgarde precedente, sono diventati i cantautori introspettivi alla Elliott Smith, Josè Gonzales, Nick Drake, Nick Mulvey, e le occasionali incursioni di chitarra elettrica e fiati donano colore alle canzoni. Ma i mèntori gli sono per ora decisamente preferibili.
Voto Microby: 7.2
Preferite: Colours of The Night, Our Best, On Time
































  

 
 

lunedì 7 dicembre 2015

I MIEI PEZZI DA SALVARE DEL 2015 - parte terza

I MIEI PEZZI DA SALVARE DEL 2015 PARTE TERZA


  • "Somewhere along the way"  DAWES  (album "All your favorite bands")
  • "Right road"  EARTH BEAT MOVEMENT  (album "Right road")
  • "The one"  KODALINE  (album "Coming up for air")
  • "Otis"  HOUNDMOUTH  (album "Little neon limelight") 
  • "Fade away"  SUSANNE SUNDFOR  (album "Ten love song")  
  • "Chat show"  SANGUINE HUM  (album "Now we have light")  
  • "Under grey skies"  KAMELOT  (album "Heaven")
  • "I need to know"  NOZE  (album "Come with us")  
  • "From now on"  MANDOLIN ORANGE  (album "Such Jubilee")
  • "Il fuoco"  LA NUOVA RACCOMANDATA CON RICEVUTA DI RITORNO  (album "Live")                                                                                 

mercoledì 2 dicembre 2015

ANDERSON EAST, RICHARD HAWLEY, GILL LANDRY


ANDERSON EAST (2015) Delilah

Se ci crede Dave Cobb, dietro alla produzione di molti artisti-rivelazione dell’ultimo lustro (Jason Isbell, A Thousand Horses, Chris Stapleton, Whiskey Myers, Rival Sons, fino all’ultimo Chris Isaak), possiamo stare certi che il 27enne Michael Anderson, dall’Alabama, qui al terzo disco (ma a me sconosciuto finora), possiede qualità artistiche e, perché no, potenziale commerciale. Bianco-biondo-bello e con una voce roca e sensuale, in soli 30’ propone uno dei migliori lavori di retro-soul dell’anno: suono Stax, molto più Otis Redding, Sam & Dave e Wilson Pickett che Sam Cooke, Marvin Gaye e Curtis Mayfield. La musica nera degli anni ’50 e ’60 ingentilita nel soul e rinvigorita nel R&B è trattata con forza, rispetto, concisione, bella scrittura ed arrangiamenti misurati ma caldi. L’unico appunto è che Anderson non cerca l’originalità, ma con un pugno di canzoni così nostalgicamente belle possiamo aspettare. L’età è dalla sua parte.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Devil In Me, Keep The Fire Burning, Find’em Fool’em And Forget’em
 
RICHARD HAWLEY (2015) Hollow Meadows

Al solito titolato come gli angoli/quartieri/zone della sua amata Sheffield, il settimo album dell'ex Pulp (ma dalle molteplici collaborazioni, visto che è un eccellente ed originale chitarrista) torna alla passione di sempre, le ballate notturne da crooner innamorato o disincantato, in un percorso che unisce il primo Scott Walker con Lee Hazlewood, Roy Orbison, Chris Isaak ed il Morrissey romantico. Singolarmente fregandosene del successo goduto in Gran Bretagna col precedente Standing On The Sky's Edge nel 2012, un eccellente disco di rock psichedelico, elettrico, figlio di Oasis, Kula Shaker, Stone Roses. Qui torniamo dalle parti delle romantiche atmosfere notturne di Late Night Final (2001), sebbene ad un gradino inferiore, ma vorrà dire qualcosa che i brani migliori siano i due elettrici che sembrano outtakes di Standing...? Quale che sia la direzione futura, quella attuale è un'altra prova di classe, a fruizione transgenerazionale.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Which Way, Heart of Oak, Long Time Down
 
GILL LANDRY (2015) Gill Landry

Terzo e migliore album solista per il polistrumentista della Louisiana membro dei country-revivalists Old Crow Medicine Show. Finalmente, anziché inseguire il country nashvilliano o dare libero sfogo alle proprie abilità di banjoista, si esprime come cantautore agrodolce di “americana” del sud, influenzato dal border messicano (frequenti gli inserti di trombe mariachi) come abbiamo ascoltato in passato nei lavori acustici di Joe Ely, Terry Allen, Los Lobos. All’apparenza semplice e scarno, in realtà necessita di più ascolti per apprezzare l’essenzialità dei misurati e caldi arrangiamenti.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Take This Body, Fennario, Lost Love

sabato 21 novembre 2015

John Abercrombie: The first quartet (2015)



È uscito, finalmente, il cofanetto che va a completare l'intera discografia di John Abercrombie pubblicata con la ECM. Dei tre dischi che lo compongono, e che raccolgono gli album incisi con Richard Beirach, Peter Donald e George Mraz, in realtà uno era reperibile su CD in Giappone, dove la casa tedesca pare abbia un successo indiscriminato e dove hanno pubblicato dischi che in Europa abbiamo potuto vedere soltanto in vinile.
Ben vengano, dunque, questi tre ottimi dischi. Il titolo, The first quartet, fa il paio con quel The third quartet che nel 2007 sancì il sodalizio con Mark Feldman, Joey Baron e Marc Johnson, ultimo dei quartetti creati dal chitarrista americano (l’altro fu quello con Marc Johnson, Michael Brecker e Peter Erskine). Dei 3, quello che preferisco è M. Abercrombie, nel generoso booklet che si trova allegato al disco, se ne lamenta per via del suono eccessivamente crudo ottenuto negli studi di Ludwigsburg (gli altri due dischi furono registrati al Rainbow di Oslo). Tutte registrazioni europee, dunque, per questo quartetto americano che nacque a Boston e che rappresentò per Abercrombie l’occasione per distaccarsi, da un lato, dal modello di John McLaughlin e, dall’altro, dalla fusion che aveva praticato all’inizio dei ’70. Lo stesso leader spiega, nelle pagine dettagliatissime e godibili del libretto, che il quartetto si sciolse perché lui voleva sperimentare un po’ di effetti e prendere le distanze da un suono mainstream, mentre Beirach nicchiava. I due contendenti, che si erano conosciuti grazie alla mediazione di Dave Liebman (che con loro incise sia Lookout farm che Drum ode), si ritrovarono dapprima nel 1987 per un album in duo registrato per la Core Records (Emerald City) e un’ultima volta tre anni più tardi, entrambi al servizio del bassista Ron McClure, che stava incidendo McJolt (e queste notizie sono tutte farina del mio sacco: non troverete nulla sul libretto accluso).
Gli altri due componenti del quartetto – decisamente meno noti - ebbero una sorte assai diversa: Mraz finì addirittura per suonare con Olivia Newton-John, mentre Peter Donald è diventato un insegnante di scienze sociali (come Danilo Tomasetta, il chitarrista di Ho visto anche degli zingari felici, oggi professore ordinario all’università di Bologna).

mercoledì 18 novembre 2015

ISRAEL NASH, BOY & BEAR, JULIA HOLTER


ISRAEL NASH (2015) Israel Nash's Silver Season

Dopo l’esordio nel 2008 in debito con C.C.R. e The Band, nel 2011 l’artista del Missouri proseguiva con Barn Doors & Concrete Floors il suo viaggio nelle radici dell’”americana” con un eccellente roots-rock figlio di Black Crowes, Bruce Springsteen, Steve Earle, Ryan Bingham. Allargatosi nel 2013 ad influenze west-coastiane con Israel Nash’s Rain Plans, un album che gli ha dato visibilità in quanto ispiratissimo figlio di C.S.&N. e soprattutto del Neil Young sia acustico che elettrico (chi ama il canadese non perda tutta la produzione di Israel Nash Gripka), al quarto lavoro il nostro abbrevia il cognome e, curiosamente, quel “Nash” ora più evidente lo avvicina alle atmosfere più solari e bucoliche (ma sempre americanissime) dell’inglese dei CSN&Y, ma l’impronta younghiana resta predominante, senza la depressione virata a rabbia di Young ma con la medesima via di fuga non nel “take it easy” californiano bensì nella psichedelia, nel Laurel Canyon, nella pedal steel guitar rurale e nella comunità americana dei capelloni post-power flower. Ci riesce ancora una volta bene, senza però raggiungere l’eccellenza degli ultimi 2 lavori.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Lavendula, L.A. Lately, Willow
 
 
BOY & BEAR (2015) Limit of Love

Bollata all’esordio come la risposta australiana a Fleet Foxes e Mumford & Sons, la band nata intorno al progetto solista del leader Dave Hosking si è smarcata già col 2° album (ad impronta rock) dal folk-pop gentile del debutto, ed approda al 3° lavoro con un’identità pop-rock dagli arrangiamenti semplici e lineari, che ben servono canzoni sospese tra il soft-rock dei Fleetwood Mac pre-esplosione commerciale ed il rock asciutto ed orecchiabile dei Pretenders. Gli aussies cambiano ma restano sempre apprezzabili.
Voto Microby: 7.5
Preferite: Walk The Wire, Where’d You Go, A Thousand Faces
 
 
JULIA HOLTER (2015) Have You In My Wilderness

Quasi unanimemente acclamato worldwide quale prova di assoluto valore e della raggiunta maturità artistica, il quarto album della losangelena non finisce di convincermi. Di formazione classica ma attirata dall’avantgarde alla Laurie Anderson e dalla forma-pop alla Kate Bush, finora era riuscita a fonderle con il dark, l’elettronica, il jazz, la canzone mitteleuropea senza però concretizzare il capolavoro (nelle sue possibilità). Ora ci ha provato ma il calcolo è tangibile: eccesso di arrangiamenti e cura per i dettagli formali, riferimenti che si allargano (complimenti: per nulla facile!) a Nico senza il suo teutonico decadentismo sturm und drang e a Laura Nyro senza la sua grazia intimamente folk. Certamente più apprezzabile dal vivo, dove i barocchismi e gli eccessi di citazioni dovrebbero lasciare spazio alla spontaneità della scrittura (di buon livello) e al rapporto diretto col pubblico. Resta, nel bagaglio musicale espresso finora ed intuibile per il futuro, una delle artiste femminili da seguire con maggiore attenzione.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Feel You, Silhouette, Sea Calls Me Home

lunedì 9 novembre 2015

Recensioni: Blitzen Trapper, Elizaveta, Glen Hansard

BLITZEN TRAPPER - All across this land (2015)
Dopo 15 anni di musica e 8 album, il quintetto di Portland riesce sempre ad entusiasmare con il suo country-rock (più rock che country) anni ’70, fortemente ancorato ai modelli di quegli anni (Thin Lizzy, Flying Burrito Brothers, John Prine e compagnia bella) ma secondo espressioni sempre innovative alla maniera di Drive-By Truckers, John Mellencamp e Black Crowes. In un certo senso questo album è forse il più convenzionale della loro carriera ma è anche quello in cui si avverte la compiuta realizzazione della band in quanto tale. I brani migliori: Cadillac Road, Let the Cards Fall, Across the River. Voto: ☆☆☆1/2

ELIZAVETA - Messenger (2015)
Al suo secondo lavoro (terzo se consideriamo anche l’EP “Hero” del 2014), la cantante russo-americana conferma di essere una musicista e compositrice assolutamente brillante. Non vi sono dubbi che il modello più immediato sia sempre più Regina Spektor: la sua voce sottile, potente ma non prepotente, fa da filo conduttore al suo pop ricco di riferimenti classico-operistici e soul-elettronici. La sua formazione musicale riesce a evitare il rischio di ripetitività: ne risulta un cocktail di stile e abilità compositiva di qualità sopraffina. Si riascolti anche il precedente, splendido, Beatrix Runs del 2012. A parte il primo brano, esageratamente adorno di drum beats elettronici, il resto dell’album è caldo e d ammaliante. Brani migliori: Icarus, Satellite, These Stupid Games. Voto: ☆☆☆1/2

GLEN HANSARD - Didn't He Ramble (2015)
Negli anni passati di lui ci si ricorda per la partecipazione al film “The Commitments” (era il chitarrista rosso di capelli) e per la 25ennale esperienza come frontman dei Frames, autori di un buon numero di dischi interessanti, anche se mai ricordati per grandi successi.  La svolta avviene nel 2008 con la partecipazione al film “Once” e la conquista dell’oscar come migliore canzone in coppia con Marketa Irglova. Abbandonato dopo pochi anni il sodalizio con la Irglova (gli Swell Season), il 45enne cantautore irlandese è al suo secondo album solista, a 3 anni dal precedente “Rhythm and Repose”. In questo nuovo lavoro GH conferma la sua musicalità elegante, raffinata ed evocativa, con un folk-pop  dagli aromi irish e soul che si pone da qualche parte tra Springsteen, Bob Dylan, Ben Harper, Van Morrison e Damien Rice. Brano chiave è senza dubbio Lowly Deserter, con violini, banjo e fiati che sembrano usciti dalle Seeger Sessions di Bruce Springsteen.

Sta decisamente diventando uno dei più interessanti cantautori della nostra epoca. Da ricordare: Lowly Deserter, My Little Ruin, Just to Be the One. Voto: ☆☆☆☆

mercoledì 28 ottobre 2015

A THOUSAND HORSES, JESSE MALIN, CHAMPS


A THOUSAND HORSES (2015) Southernality

Bel debutto su lunga distanza per la band del Tennessee guidata dalla voce roca e maschia di Michael Hobby e dalla calda tecnica del lead guitarist Bill Satcher. Nonostante l’origine, il country di Nashville resta confinato a qualche tocco di chitarra acustica e di slide, mentre il titolo del lavoro non lascia equivoci circa l’orientamento musicale: puro southern rock in stile Black Crowes e Lynyrd Skynyrd, con una forte propulsione mainstream grazie a spunti hard alla Aerosmith, a ballads in odore Bon Jovi, a parentesi country-pop che li affianca a Blackberry Smoke e Whiskey Myers tra i nomi da tenere d’occhio riguardo al nuovo rock sudista. Prodotti da Dave Cobb (già dietro la consolle di Jason Isbell, Chris Stapleton, Anderson East): altra garanzia di qualità.
Voto Microby: 7.8
Preferite: First Time, Smoke, (This Ain’t No) Drunk Dial
 
 

JESSE MALIN (2015) New York Before The War

Nove album, mai meno che buoni, in una carriera da solista iniziata nel 2003 per il 47enne cantautore rock newyorkese. Non ha mai raggiunto il grande pubblico ma il suo power pop/rock urbano, spesso teso e notturno nei brani più aggressivi e da prime luci dell’alba nelle ballads, non ha mai smesso di affascinare chi ama Tom Petty, Bruce Springsteen, Elliott Murphy, suoi riferimenti musicali. Con uno stile, e forse sta qui il fascino inattuale del nostro, che passa indifferentemente attraverso gli anni ’60, i ’70, gli ’80, sempre colpendo nel segno. Una conferma.
Voto Microby: 7.6
Preferite: The Dreamers, She’s So Dangerous, Freeway
 
 
 
CHAMPS (2015) Vamala

I due fratelli David e Michael Champion dall’isola di Wight bissano l’esordio dello scorso anno con il loro folk-pop gentile, caratterizzato da melodie soavi ed armonie a 2 voci pre-adolescenziali (se non efebiche) che ricordano la scrittura di Simon & Garfunkel, evitando il calligrafismo alla Milk Carton Kids grazie ad arrangiamenti che intrecciano il folk del duo sixties con il pop degli eighties. In punta di piedi, come già hanno fatto The Lilac Time e The Beautiful South, ma anche il new acoustic movement nei ’90 (Kings of Convenience), ma con un tocco di elettronica delicata che li fa galleggiare in modo atemporale. Piacevoli nella loro innocente leggerezza, decisamente cinematici e con un sacco di potenzialità ancora inespressa.
Voto Microby: 7.4
Preferite: The Balfron Tower, 3000 Miles, Running





 

venerdì 16 ottobre 2015

I MIEI PEZZI DA SALVARE DEL 2015 - parte seconda

"The way (I used to know)"  FINISTER  (Album "Suburbs of mind") -
"First kiss"  KID ROCK  (Album "First kiss") -
"Last tango on 16th street"  BOZ SCAGGS  (Album "A fool to care") -
"The call"  NEAL MORSE BAND  (Album "The great experiment") -
"Beautiful day"  JOSHUA RADIN & SHERYL CROW  (Album "Onward and sideways") -
"You kill me with silence"  DURAN DURAN  (Album "Paper gods") -
"Night games"  DARKNESS FALLS  (Album "Dance & cry") -          
"Heart of stone"  MARIO BIONDI  (Album "Beyond") -
"Degency"  BALTHAZAR  (Album "Thin walls") -
"Krk blues"  ALOA INPUT  (Album "Mars etc")


mercoledì 14 ottobre 2015

MELODY GARDOT, OLIVIA CHANEY


MELODY GARDOT (2015) Currency of Man

Sdoganato e apprezzato da decenni, sia dai jazzofili che dai rockettari, il jazz fumoso, notturno, alcoolico, da piano bar (Tom Waits in assoluto e Paolo Conte in Italia gli esempi più fulgidi), lo snobismo bipartisan rock e jazz ha sempre poco considerato i territori di confine, generalmente virati al femminile (se si eccettua l’importante capitolo dei “crooners” alla Frank Sinatra, Harry Connick Jr., Nat King Cole, Bing Crosby, Dean Martin fino al contemporaneo Michael Bublè… mi perdonino i precedenti!), in cui si intersecano il pop-rock sofisticato e la canzone d’autore da jazz-club. Confini peraltro sempre più labili, come dimostrano non solo gli arrangiamenti (si cerca lo swing nel jazz, il groove nel rock, il refrain catchy nel pop, ma è questione di lana caprina) ma anche i dati di vendita, che vedono le varie Diana Krall, Madeleine Peyroux, Cassandra Williams ed appunto Melody Gardot affiancare le interpreti pop rock più stimate. Eppure, per venire al 5° album dell’americana, al solito bello, deve essere un amico a passarmelo perché ascolti qualcosa oltre il “mio” ambito di interesse musicale (peraltro già eccessivamente ampio). E allora godo di ottime canzoni, dagli arrangiamenti raffinati ma swinganti, suonate benissimo, godibili anche in auto e non solo al Blue Note, e penso che Melody Gardot non sia musicalmente così distante da Laura Marling, Rickie Lee Jones, Sophie Zelmani, Laura Mvula, Anna Luca. Con partiture così geometriche, arrangiamenti puntuali, esecuzioni misurate, assoli concisi, e lo swing che incontra il groove, Currency of Man rappresenta il lavoro più soul-pop-rock-(jazz) della Gardot. Certamente quello che la proietta fuori dagli angusti confini della jazz-singer.
Voto Microby: 7.9
Preferite: Preachermen, Don’t Talk, Morning Sun

 
OLIVIA CHANEY (2015) The Longest River

Nata a Firenze ma cresciuta ad Oxford, dove ha compiuto gli studi musicali per piano, violoncello e voce, la Chaney si è sempre dedicata ad una rilettura colta della musica folk inglese, con rimandi che vanno dalla Sandy Denny più intima alle prove delle Unthanks. Ma non è meno rilevante l’influenza della più grande cantautrice acustica e trasversale di sempre, Joni Mitchell. Giunge solo ora, a 32 anni, al debutto su lunga distanza: e si resta con la curiosità di ascoltarla con arrangiamenti meno scarni (voce, piano, violoncello, harmonium), che in questa prima prova la costringono ad un pubblico di appassionati del genere. Per palati fini.
Voto Microby: 7.2
Preferite: Imperfections, Swimming In The Longest River, Too Social

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