martedì 24 dicembre 2019

Recensioni: Joe Henry - The Gospel According to Water; Philip Bailey - Love Will Find a Way

JOE HENRY - The Gospel According To Water (2019) 

JH è diventato negli ultimi tempi uno dei più richiesti produttori ma non bisogna dimenticare che in realtà nasce come autore, peraltro con album di ottimo livello.  A due anni dal precedente “Thrum” e dalla diagnosi di tumore alla prostata, notizia che indubbiamente gli ha cambiato la vita, ha scritto di getto questa serie di canzoni dall’atmosfera raccolta ed intima, scarne ed essenziali, senza batterie e con il basso solo in un brano. Ballate folkeggianti, lente e profonde, ma anche intense, sicuramente molto dylaniane. Da ascoltare: Orson Welles, Green of the Afternoon, Salt and Sugar.      Voto: 1/2






PHILIP BAILEY - Love Will Find a Way (2019)

Il 68enne leader degli Earth, Wind & Fire, con il suo iconico falsetto, alter-ego del baritonale Maurice White, aveva già provato più volte a fare qualcosa da solo e, eccezion fatta per il suo terzo album da solista (1984) Chinese Wall (che includeva Easy Lover, hit mondiale in duetto con Phil Collins), non era mai stato in grado di replicarne ispirazione e successo. Questo nuovo lavoro, impreziosito dal contributo di Steve Gadd, Chick Corea, Kamasi Washington (che curiosamente frequentava la chiesa locale insieme ai figli di Bailey), Robert Glasper ed altri brillanti esponenti del jazz contemporaneo, sembra fornire nuova linfa alla sua carriera. Il disco è composto per la maggior parte di cover (Curtis Mayfield, Chick Corea, Talking Heads, Marvin Gaye): a comandare è decisamente il jazz contemporaneo con ampie contaminazioni, tra R&B e spiritual, afrobeat e soul-jazz.  sono senza dubbio interessanti e coinvolgenti. Da ascoltare: Sacred Sounds, We’re a Winner, Billy Jack. Voto: 1/2


venerdì 20 dicembre 2019

TEMPLES, THE CACTUS BLOSSOMS


TEMPLES (2019) Hot Motion



Evidentemente non del tutto soddisfatto (nemmeno noi) dalla svolta pop un po’ tronfia del penultimo Volcano (2017), il quartetto inglese fa un relativo passo indietro verso le atmosfere psych-pop sixties del bel debutto (Sun Structures, 2014). Al solito belle le melodie, ahimè anche stavolta penalizzate da suoni ipersaturi ed una produzione chiassosa. Sicchè il merseybeat kinksiano che all’esordio riusciva così bene ad amalgamarsi con Syd Barrett ed i Beatles psichedelici, appare ora distorto da un approccio più in sintonia con i Tame Impala. Complessivamente un discreto album, più apprezzabile nei singoli brani ma un po’ stucchevole nell’insieme.
Voto Microby: 7.3

Preferite: You’re Either On Something, Not Quite The Same, It’s All Coming Out
 
THE CACTUS BLOSSOMS (2019) Easy Way

Ben scritta, arrangiata e confezionata, la terza prova in studio del duo di Minneapolis (i fratelli Jack e Page Burkum) resta una musica derivativa, che anche nelle intenzioni non propone novità rispetto a quanto già pubblicato in passato da Everly Brothers in primis, ed a seguire Simon & Garfunkel, The Proclaimers, Kings of Convenience, Milk Carton Kids. Piacevole ma già ascoltato.
Voto Microby: 7.3
Preferite: Don’t Call Me Crazy, Downtown, Boomerang


lunedì 16 dicembre 2019

Recensione: The Who - Who (2019)

THE WHO - WHO (2019) 

Assolutamente inatteso il nuovo disco di Roger Daltrey e Pete Townshend, unici sopravvissuti (nel vero senso del termine) dello storico gruppo inglese. Il precedente album era stato pubblicato nel 2006 (“Endless Wire”) e probabilmente l’input maggiore deriva dall’iperattivo Roger Daltrey, autore di un lavoro insieme a Wilco Johnson ed ispiratore della recente versione orchestrale di Tommy. Altra cosa inattesa è che senza dubbio si tratta del migliore album degli Who da almeno 40 anni (peraltro segnati dalla pubblicazione di soli tre album, Face Dances, It’s Hard ed il già citato Endless Wire…). Quest’ultimo invece è davvero un buon lavoro, qualcosa da fare ascoltare ai figli per fargli capire chi erano e che cosa hanno rappresentato gli Who nella storia della musica anglosassone. Collaborano i soliti fedeli Pino Palladino al basso e Zak Starkey (il figlio di Ringo) alla batteria. L’inizio (“All This Music Must Fade”) è quello tipico di un disco degli Who con gli stacchi chitarristici per i quali sono celebri; poi seguono altri brani rock’n’roll e rock-blues dai tempi giusti, coinvolgenti e grintosi e si finisce (nella versione Deluxe) con tre demo di brani inediti degli anni ’60. Davvero un buon disco. Da ascoltare: All This Music Must Fade, I Don't Wanna Get Wise, Beads On One String.  Voto:


sabato 14 dicembre 2019

THE REMBRANDTS, BON IVER


THE REMBRANDTS (2019) Via Satellite



Il duo power-pop losangeleno Danny Wilde + Phil Solem non rappresenta solo la one-hit wonder di I’ll Be There For You, arcinoto tema della popolarissima sitcom Friends. Dal 1990 al 2001 ci ha anzi deliziato con una manciata di album di guitar-pop gentile di chiara derivazione beatlesiana ma ben screziato dagli umori e i colori della California. Poi un misterioso iato di 18 anni, interrotto ora da Via Satellite, un lavoro che non tiene conto del nuovo millennio ed anzi prosegue il discorso musicale esattamente là dove era stato solo sospeso: così pare di ascoltare (soprattutto nella seconda parte) una collaborazione tra le penne di Neil Finn e Tom Petty per un risultato alla Crowded House meno pop e più americani. Nulla di nuovo, ma un piacere per le orecchie.
Voto Microby: 7.6
Preferite: You’d Think I’d Know, On My Own, How Far Would You Go

BON IVER (2019) I, I

Logica prosecuzione del controverso ma genialoide 22, A Million (2016), straniante album di “cantautorato elettronico” non rimasto episodio isolato, come dimostra non solo l’attuale disco ma anche l’attività live di Justin Vernon nello scorso triennio, il canadese bissa il precedente lavoro con la medesima voce filtrata, i beats elettronici, il substrato apparentemente glaciale, i samples, tra Laurie Anderson, Eno/Byrne, James Blake. Tutto ancora ostico ed apprezzabile solo dopo molti ed attenti ascolti, con tuttavia i limiti di una scrittura meno brillante e soprattutto il fatto che tale visione musicale non rappresenta più una sorpresa. Limite non da poco in un genere che rifiuta la staticità ed anzi presuppone una continua ricerca.
Voto Microby: 7.4
Preferite: Hey Ma, U (Man Like), Naeem



sabato 7 dicembre 2019

VAN MORRISON


VAN MORRISON (2019) Three Chords And The Truth



Sesto album in 4 anni (secondo di materiale autografo dopo Keep Me Singing del 2016), di qualità mai meno che buona per il rossocrinito e notoriamente antipatico fuoriclasse irlandese. In tanta prolificità, che sia l’interpretazione di standards blues/jazz/soul o di canzoni di nuovo conio, si ripropone l’annosa diatriba tra i detrattori dell’artista ora 74enne, che lo accusano di ripetere da mezzo secolo il medesimo disco, ed i suoi sostenitori, incantati di volta in volta dal suo “celtic soul”, mistica fusione di folk irlandese, soul, blues, rhythm’n’blues, jazz --con occasionali ma sapienti derive dal genere verso il pop/country/rock— sottogenere di cui è inventore e massimo interprete, visto che si contano centinaia di tentativi di imitazione e tuttavia il cowboy di Belfast rimane insuperato. Three Chords And The Truth (“tre accordi e la verità”, sentenza con la quale negli anni ’50 il musicista americano Harlan Howard aveva definito la musica country, genere totalmente assente nel disco che stiamo recensendo) è la logica prosecuzione del più brillante (per ispirazione) Keep Me Singing, ed è un ottimo disco, che sarebbe da considerare in assoluto eccellente, non fosse che il difettuccio sbandierato dai detrattori, e cioè la ripetitività degli schemi musicali (sia nel singolo brano che nella costruzione dell’album) di George Ivan Morrison, si palesa anche in quest’ultimo sforzo. Dove si apprezzano brillanti ed eleganti brani che vanno dal soul, al blues, all’R’n’B, al rock’n’roll, al jazz, alla ballata mistica: al solito suonato splendidamente, e che invecchierà altrettanto bene, visto che si muove nell’ambito di linee musicali classiche e pertanto evergreen. Non un brano che emerga sugli altri, ma almeno 4-5 eccellenti in un paniere ricco di belle canzoni. A mio parere Three Chords And The Truth entra a far parte della manciata di lavori (con Down The Road del 2002, Magic Time del 2005, Keep Me Singing del 2016) di maggior peso tra i 14 (!!) album in studio pubblicati nel nuovo millennio. Non certo un artista che pensa a “quota 100”.
Voto Microby: 7.8
Preferite: You Don’t Understand, Three Chords And The Truth, Nobody In Charge

sabato 30 novembre 2019

COLDPLAY





Finalmente Chris Martin e sodali hanno smesso di scimmiottare l’epicità degli U2 e l’easy listening danzereccio di Rihanna. Forse che, sfondata la soglia degli –anta, si siano resi conto di non poter inseguire a vita gli ardori tardo adolescenziali e meno che meno sentirsi in sintonia con i pruriti peripuberali? Certo Bono & Co. restano sottotraccia nelle liriche peace & love e nell’afflato terzomondista, ma di grazia non c’è traccia dei lustrini Beyoncè/Rihanna-like. Tant’è, di fatto riescono a pubblicare il miglior album personale dai tempi di Viva la vida. Non un capolavoro (gli unici a loro nome restano i primi 2 e parzialmente lo stesso Viva la vida), perché i punti di domanda sono numerosi anche per Everyday Life. Il più consistente (ma per alcuni sarà invece un pregio) è la mancanza di una direzione musicale coesa, negli intenti e nella realizzazione: belle canzoni ma assolutamente slegate l’una dall’altra. Come una sorta di compilation di artisti vari: nel pout-pourri abbiamo un brano per sola orchestra, in stile soundtrack morriconiana (Sunrise), un gospel nero (BrokEn) e per par condicio un brano a cappella presbiteriano che più bianco non si può (When I Need A Friend), un paio di canzoni pop-folk in stile ultimo-Iron & Wine (Trouble In Town ed Old Friends), un punk-folk che starebbe bene nel carniere di Frank Turner (Guns), una intima Eko ispirata da Paul Simon, una splendida Arabesque inebriata di ritmi da Raì maghrebino e di fiati da Africa nigeriana (Femi Kuti al sax), una composizione per solo piano di impronta new age che si dissolve in una giaculatoria in arabo (come il titolo, trascrivibile come Bani Adam), una leggera (e unico brano debole del disco) Cry Cry Cry, dai profumi pop-soul sixties, un paio di ballate malinconiche (Daddy ed Everyday Life), ed ovviamente alcune canzoni in puro stile Coldplay, adatte al singalong nelle arene (il singolo Orphans, Church e Champion of The World). Il tutto è abbracciato dal falsetto –quasi da copyright-- di Chris Martin, e legato/frammisto a samples come d’abitudine nel nuovo millennio. Se si eccettua l’estrema varietà musicale dei contenuti (i detrattori parleranno al solito di scarsa personalità), i difetti sono per la verità quasi aneddotici: perché pubblicare 2 CD quando la durata totale del lavoro è di 53 minuti? E perché il dispersivo vezzo di inserire ben 8 interludi da 3” ciascuno (in serie) per suonare le campane di Fra Martino? L’album è diviso in 2 parti (il dualismo non manicheo ricorrente nell’opera del quartetto britannico), Sunrise e Sunset, e si apre e si chiude con l’orchestra quasi a sottolineare la circolarità degli opposti. Ma anche per invitare a riascoltare l’album che, finalmente abbandonata la grandeur dei precedenti lavori, per la prima volta nell’ultimo decennio merita l’heavy rotation.
Voto Microby: 8
Preferite: Arabesque, Orphans, Champion of The World

venerdì 22 novembre 2019

MICHAEL KIWANUKA


MICHAEL KIWANUKA (2019) Kiwanuka



Eccolo il mio disco dell’anno 2019. Dopo Home Again, che aveva palesato il talento dell’anglo-ugandese conquistando peraltro la palma di miglior album del 2012 del nostro blog, e la conferma perfino in meglio nel 2016 con Love & Hate, arriva ora il terzo album semplicemente omonimo, quasi ad affermare hic et nunc che il suo stile è questo, personale e consolidato. Per nulla interessato all’evoluzione della musica black post-hip hop, altrettanto lontano dalle belle ma algide confezioni del nu-soul e dell’alt-R&B, il nostro continua ad immergersi nel suono soul-Motown dei tre lustri a cavallo tra ‘60 e ‘70, quasi che Marvin Gaye non fosse stato ucciso dalla pistola del padre in quel tragico 1 aprile 1984. Come nel precedente lavoro, Danger Mouse alla produzione aiuta nella coesione dei brani e, tecnicamente, in modo non invadente con samples ed una sezione ritmica che profumano di nuovo millennio scongiurando il rischio di puro revivalismo. Sorprendenti per l’utilizzo che ne era stato già in Love & Hate, i cori risultano assai originali ispirandosi alla sensuale fede del gospel, ma insieme agli archi (da Luis Bacalov virato-soul) rimandano anche alla cultura americana anni ‘70 della blaxploitation e, più sorprendentemente, alla library music italiana dei ‘70 che insonorizzava le pellicole di costume leggere oppure di impegno sociale (gli indimenticabili Piero Umiliani, Alessandro Alessandroni, Piero Piccioni, fino all’Ennio Morricone più popolare). Gli stessi testi sono in sintonia col profilo musicale: amore ma anche sociopolitica, spirito ma anche ambiente. Sorprendente Kiwanuka? No, unico nel panorama musicale attuale. Il nuovo album parte ritmato, quasi festoso, con brani rhythm‘n’blues che anche nel prosieguo offrono momenti di vivacità ad un disco nei fatti profondamente melodico, che si chiude addirittura pacificato. Spirituale e laico, carnale e religioso, senza che se ne percepisca la contraddizione, come riesce solo ai grandi. Come Michael Kiwanuka, seme ugandese sbocciato a Londra per diventare il migliore soulman d’Europa.
Voto Microby: 8.7
Preferite: Piano Joint (This Kind od Love), Final Days, Hero

mercoledì 13 novembre 2019

SAM FENDER


SAM FENDER (2019) Hypersonic Missiles

Da più parti il 23enne inglese è stato accostato al giovane Bruce Springsteen. Se è per via dei testi da working class hero e per qualche assolo di sax alla Clarence Clemons, i paragoni possono finire qui. Perché il cantautore elettrico di Newcastle è musicalmente figlio della generazione successiva a quella del boss: sezione ritmica metronomica (talvolta ahimè perfino drum machine) e parco ricorso agli assoli in stile anni ’80, attitudine epica e sferragliare metallico di chitarre ritmiche che richiamano U2 (Dead Boys e Will We Talk?) e Simple Minds (The Sound), senza disdegnare la generazione 2.0 dei vari Hozier (Call Me Lover) e War On Drugs (The Borders). La voce è potente e pulita, ma non trattiene la rabbia e l’urgenza del decennio punk/post-punk, senza mai tingersi di dark né di grunge. E’ l’espressione di un ragazzo di oggi che non riesce a trattenere i propri sentimenti, ma che è capace anche di intensi momenti di introspezione come dimostra nell’ultimo terzo di album. Peccato che la produzione non aiuti a coordinare in un unicum coeso le varie anime dell’artista: “the perfectly imperfect rock debut”, come è stato salutato da The Guardian. Siamo di fronte a the next big thing?
Voto Microby: 8
Preferite: Hypersonic Missiles, You’re Not The Only One, Dead Boys

giovedì 31 ottobre 2019

THE SLOW SHOW


THE SLOW SHOW (2019) Lust And Learn



Ho conosciuto il quartetto di Manchester solo grazie ad una recensione del blog italiano “Come un killer sotto il sole”, dal momento che The Slow Show sono pressochè sconosciuti in Italia (ancora per poco?), mentre raccolgono giudizi entusiastici sui blogs francesi, olandesi, svizzeri e tedeschi, paese quest’ultimo che li ha adottati musicalmente. Forse a causa dello spleen misto a romanticismo (Maximilian Hecker docet?) connaturato alle loro partiture musicali, con esecuzioni eteree ed insieme passionali, trame minimali di pianoforte che si aprono a cori volutamente ieratici, tuttavia solo lontani parenti dello sturm und drang di artisti quali San Fermin e Woodkid (sebbene a quest’ultimo debbano più che un’ispirazione, realizzata però in modo più rarefatto e lineare). Ma l’elemento caratterizzante la proposta degli inglesi è la voce profondamente baritonale da crooner del leader Rob Goodwin, che ricorda tantissimo quella di Stuart Staples dei Tindersticks: il chamber pop di questi ultimi risulta alla fine il confronto più immediato per la band mancuniana, sia nell’approccio strumentale (essenziali tessiture di pianoforte/tastiere ad opera del co-leader Frederick’t Kindt, e sezione ritmica-archi-plettri-fiati con prevalente funzione di sostegno, col pathos cui viene dato risalto soprattutto grazie ai cori), sia nelle liriche intime e malinconiche. Tutto è studiato nei minimi dettagli, ed ai primi ascolti si ha la sensazione di mancanza di spontaneità, di una band new age allestita ad arte per incontrare la musica dark via-Nick Cave, ma con gli ascolti quello che sembra semplice si dimostra anche profondo e potente. E certamente il genere proposto dai The Slow Show ha pochi esempi simili attualmente, quelli prima citati. Non penso vi siano vie di mezzo: li si ama o li si odia.
Voto Microby: 8
Preferite: Eye to Eye, Low, Hard to Hide

martedì 15 ottobre 2019

NICK CAVE AND THE BAD SEEDS


NICK CAVE AND THE BAD SEEDS (2019) Ghosteen

L’ultimo lavoro di Nick Cave è salutato dalla critica mondiale non solo come uno degli apici della variegata carriera dell’australiano, ma come un capolavoro assoluto: Metacritic assegna una straordinaria valutazione di 99/100 sulla scorta di 19 recensioni. Atto finale di una trilogia iniziata splendidamente nel 2013 con Push The Sky Away, il primo album con i Bad Seeds in cui Cave aveva lavorato per sottrazione, sulla scia del secondo e ancora più rarefatto Skeleton Tree (2016) l’attuale “Ragazzo fantasma” è fortemente influenzato nel mood e nelle tematiche dalla drammatica perdita del figlio quindicenne Arthur nel 2015. Ascoltare Ghosteen senza considerare quest’ottica significa mutilarlo nella comprensione. E tuttavia non tutti sono disposti a farlo (comprensibili in tal senso le rare stroncature di alcuni ascoltatori contemporanei, avvezzi al mordi-e-fuggi e ad un consumo che sia immediatamente fruibile: per costoro Ghosteen rappresenta inevitabilmente una noia mortale). Unica e mandatoria possibilità di ascolto dell’album è infatti l’immersione totale, al massimo con testi a fronte (da sempre fondamentali e poetici per il Re Inchiostro). Dimenticatevi di fare altro durante l’ascolto. A proposito di Skeleton Tree scrivevamo sul blog “ambient spettrale su cui declamare i testi”, definizione adattissima anche all’epilogo della trilogia: musica che avrebbe potuto scrivere ed eseguire Brian Eno 40 anni fa, e che potrebbe titolarsi “Music for Limbo”, interpretata da un artista sospeso tra la terra ed il cielo da quando è rimasto orfano del figlio (la stessa copertina, splendida od orribile a seconda dell’osservatore, richiama un paradiso terrestre tra Rousseau e i preraffaelliti). Il lavoro di Warren Ellis, vero timoniere dei Bad Seeds da almeno un lustro e splendido compositore (con Cave) di colonne sonore, è evidente nella rarefazione dei suoni e nell’impalpabilità delle melodie, appena accennate, e nell’assetto cinematico dell’opera. Visto in altra ottica, è consentito anche sostenere che ogni brano assomiglia all’altro e che lo sforzo compositivo e di arrangiamenti è ridotto al minimo, mentre solo l’anacusia o l’asistolia non permettono di percepire il pathos, assolutamente sincero, così come fa sorridere la critica di autoreferenzialità: chi non lo è, e meno che meno Nick Cave, da sempre diabolicamente o celestialmente autobiografico? L’album è diviso dall’artista in due sezioni, “the children” costituita dal primo disco di 8 brani, e “the parents”, 3 brani nel secondo (di cui 2 eccessivamente lunghi, 12 e 14 minuti). Bello sarebbe poter valutare un album come Ghosteen se fosse stato pubblicato da un artista al debutto, liberi da pre-giudizi; invece la solida eredità di stima di un grande della nostra musica e le sue drammatiche vicende di vita (ha attentato alla propria vita in ogni modo e gli è toccato in sorte di sopravvivere al proprio figlio) impediscono l’imparzialità. Lavoro che sarà ripudiato da chi ama il ritmo ed il clangore delle chitarre elettriche (entrambi totalmente assenti in Ghosteen), ed apprezzato dagli estimatori delle tastiere soffici ed eteree della musica ambient, mentre presumo lascerà indifferenti gli appassionati di avantgarde (non vi è alcuna ricerca musicale in Ghosteen). Emersi dall’inevitabile spleen indotto dal non facile ascolto di Ghosteen, e cercando di riappropriarci della nostra vita quotidiana per esprimere un giudizio il più obiettivo possibile, possiamo trovare dei limiti giusto nell’assenza di novità musicale (banalizzando, siamo di fronte ad un lungo sermone di autoanalisi su un tappeto di musica ambient seventies) ed in qualche ridondanza e lungaggine di troppo: certamente funzionale all’elaborazione del lutto da parte di Cave, ma obiettivamente tetra e noiosa per chi ha tutt’altro mood. Sospeso tra la tensione umana dell’ultimo Scott Walker e la pacificazione trascendentale, Cave ha scelto la rarefazione musicale e la solidità delle parole: l’epilogo di Hollywood recita “Everybody’s losing someone/It’s a long way to find peace of mind, peace of mind/And I’m just waiting now, for my time to come/And I’m just waiting now, for peace to come, for peace to come”. Resta in ogni caso un unicum di forte impatto emotivo, nel bene e nel male. Solo il tempo ci dirà se chiamarlo o no “masterpiece”.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Bright Horses, Sun Forest, Galleon Ship



giovedì 10 ottobre 2019

BETH HART


BETH HART (2019) War In My Mind

Dall’esordio nel 1996 in veste di blues-rocker ma da subito dimostratasi eccellente anche nei panni di singer-songwriter, non si può dire che la losangelena classe 1972 sia stata pigra: sia nella vita, nella quale in un periodo di dipendenza da droghe ed alcool si è giocata la carriera commerciale, sia musicalmente, dal momento che la sua versatilità l’ha portata ad affrontare il blues col filtro di numerose prospettive (rock, soul, R&B, pop, jazz), eccellendo peraltro in tutte, soprattutto grazie ad una voce che considero personalmente la più bella nel genere tra le white ladies, ed alla collaborazione nell’ultimo decennio con Joe Bonamassa, il chitarrista che le ha spalancato le porte della notorietà e della contaminazione tra generi. Se Leave The Light On (2003) può rappresentare l’apice del suo primo periodo di creatività, con l’ultimo Fire On The Floor (2016) la Hart sembrava aver completato il capolavoro di una trasformazione che la vedeva eccellere anche nel ruolo di cantautrice soul-oriented che nel paniere metteva anche le lezioni di Elton John ed Adèle, già esplicate nell’ottimo Better Than Home (2015). A mio avviso ora la metamorfosi si poteva considerare conclusa, e noi ascoltatori goderne i frutti. Invece Beth Hart spinge l’acceleratore del singing-songwriting verso l’easy listening, sebbene di classe, alla Adèle, enfatizzando quello che è sempre stato il suo tallone di Achille, la tendenza al melodramma, e dimenticando quasi completamente le radici: in War In My Mind (titolo esplicativo di una certa confusione, peraltro ben illustrato dalla splendida copertina) non c’è pressochè traccia di blues né di rock, ed il soul è annacquato in arrangiamenti ridondanti, adatti alla musica easy-pop di classe ma che nelle mani di Adèle o Anastacia danno risultati più brillanti. Non a caso i brani migliori, in un album di ballads melodiche piuttosto che di impostazione ritmica, sono quelli piano-e-voce, in cui gli arrangiamenti (produce Rob Cavallo, già dietro la consolle di Green Day ma anche Avril Lavigne, Paris Hilton, Fleetwood Mac, Kid Rock, e questo dice molto) non riescono a tradire una scrittura comunque di valore. Ascolti ripetuti attenuano la delusione per quanto atteso dal background dell’artista, e fanno apprezzare un ottimo lavoro di easy listening: approcciato in quest’ottica, anche il brano più valido del lotto, Rub Me For Luck, rimanda immediato l’eco della Skyfall di adeliana memoria. Ma personalmente confido in un futuro ritorno sui passi della musica black vera, genere nel quale la Hart è prima inter pares, mentre nella musica leggera per adulti rischia di essere una fra tante, cioè anonima.
Voto Microby: 7.6
Preferite: Rub Me For Luck, Sister Dear, Let It Grow

sabato 5 ottobre 2019

Recensione: Raphael Saadiq - Jimmy Lee (2019)

RAPHAEL SAADIQ - Jimmy Lee (2019)

Per completare l’ultima, stimolante, overview di Microby sulla black music attuale non poteva mancare l’ultimo lavoro di RS, già allievo e collaboratore di Prince nel periodo del suo “Parade”, di cui avevamo già parlato nel 2011 in occasione del suo precedente “Stone Rollin” probabilmente migliore album nel suo genere in quell’anno. Nonostante siano passati 8 anni, Charles Ray Wiggins da Oakland California, in arte Raphael Saadiq non è rimasto fermo: ha scritto per Erykah Badu e Angie Stone, ha prodotto John Legend ed ha anche avuto una nomination per l’oscar nel 2018 con Mary J. Blige per Mighty River (dal film “Mudbound”).
Questo lavoro, pubblicato a ricordo del fratello Jimmy Lee, morto per AIDS ed overdose negli anni ’90, ci fa riassaporare l’influenza di Stevie Wonder, Curtis Mayfield e Michael Jackson (So Ready), del suo mentore Prince (Something Keeps Calling) e dei Trammps (This World is Drunk). Ma il gioiello è senz’altro Rikers Island, strepitosa invocazione soul in grado di fondere la tradizione con la modernità, fondendo sonorità contemporanee con il soul degli anni ’70 e la canzone di protesta antirazziale.

Un disco sorprendente per la diversità di generi richiamati: dal soul tradizionale al funk, al gospel: sicuramente tra dei migliori dischi black di quest’annata. Da ascoltare: Rikers Island, This World is Drunk, Belongs to God. Voto:


martedì 1 ottobre 2019

LE NUOVE LEVE DEL RETRO-SOUL


Non sarebbe corretto sostenere che è in atto un revival del soul anni ’60, dal momento che da tempo il genere è passato allo status di evergreen e che i suoi estimatori hanno sempre rappresentato una popolazione piuttosto che una nicchia. E’ però da almeno un lustro che sembra in atto un ricambio generazionale, forse favorito dalla dipartita in campo femminile dapprima del totem-soul Aretha Franklin, quindi della nuova regina Sharon Jones; la terza grazia, Mavis Staples, è ormai ottuagenaria, e le leve di mezzo hanno conquistato popolarità (Tina Turner) e stima (Bettye LaVette), tuttavia mai il carisma delle precedenti. La globalizzazione musicale ha inoltre diffuso il vangelo (“gospel”) soul nei cinque continenti, permettendone la contaminazione (in alcuni casi assolutamente preziosa) ma salvaguardandone le caratteristiche essenziali di musica nata dalla fusione del jazz/early R&B col gospel ed il pop dell’epoca. Chi tuttora ne protegge con convinzione gli stilemi è dedicato al cosiddetto retro-soul. Che di positivo ha la purezza del rispetto, di negativo il fatto che si tratta di musica derivativa, priva di uno sguardo proiettato al futuro. Musica pertanto nostalgica ma tuttora assai vitale, proposta da artisti di grande spessore (per equità, citiamo al passato maschile almeno i furono Otis Redding, James Brown, Sam Cooke, Wilson Pickett, Curtis Mayfield, Ray Charles, Marvin Gaye); tra gli epigoni attuali del genere occorre ricordare almeno Lee Fields e lo straordinario Charles Bradley, passato nel 2017 a miglior vita dopo un beffardo successo in tarda età. Dicevamo delle nuove leve e su queste pagine già abbiamo parlato dei vari Curtis Harding, Black Joe Lewis, Anderson East, Nathaniel Rateliff, Ben l’oncle soul, Ndidi O. Negli scorsi mesi sono stati pubblicati alcuni lavori di retro-soul, per motivi diversi meritevoli di segnalazione. Per dispetto parliamo prima degli unici all-white del lotto:



THE TESKEY BROTHERS sono un quartetto di Melbourne più contaminato rispetto ad un puro retro-soul: guidato dai fratelli Josh (voce) e Sam Teskey (chitarre), il primo dotato di un’abrasiva voce che ricorda di volta in volta il giovane Joe Cocker soul, il Rod Stewart young-blues ed ovunque il più recente Anderson East, ed il secondo autore di un suono chitarristico che miscela l’arpeggio limpido soul sixties con riff sporchi figli del garage-sound (la lezione di Eddie Hinton è palpabile), gli australiani al secondo album Run Home Slow propongono un soul di matrice Stax in cui tuttavia convergono influenze southern ed “americana”, così come il jazz tra le guerre ed il gospel (varietà di stili in parte da ascrivere al produttore Paul Butler). Completano il quartetto una sezione ritmica ordinata, così come non manca una colorata partecipazione dei fiati ed il sostegno di tastiere sixties. Sono i più “bianchi” e “rock” tra le proposte, ma le potenti radici traggono linfa da Otis Redding ed Eddie Hinton.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Paint My Heart, Rain, Carry You



Per chi invece ama i suoni morbidi, eleganti, carezzevoli del soul di marca Sam Cooke, Al Green, Donny Hathaway e Marvin Gaye, il disco di riferimento è BLACK PUMAS, esordio della band omonima texana, ufficialmente costituita dal duo Eric Burton (nero dalla voce vellutata) ed Adrian Quesada (bianco polistrumentista), integrati da validi turnisti alla sezione ritmica, fiati, tastiere ed archi. Il rischio di risultare melliflui e leziosi, dietro l’angolo per il genere musicale, è efficacemente sebbene non sempre superato grazie ad eccellenti doti di scrittura ed a parti musicali in cui nulla è lasciato al caso (per molti ascoltatori tuttavia ciò potrebbe costituire un difetto). Almeno un paio di gioiellini meriterebbero un airplay massiccio, con possibile straniante effetto di sixties-soul da “ritorno al futuro”. La classe del duo è comunque indiscutibile.
Voto Microby: 7.7
Preferite: Touch The Sky, Colors, Confines



Ma il pezzo da novanta tra le nuove proposte “black” è rappresentato dai SOUTHERN AVENUE (la strada che delimita il quartiere di Memphis sede della Stax Records), quintetto del Tennessee coagulatosi intorno al chitarrista israeliano Ori Naftaly, di formazione blues ma convertitosi al soul-errenbi grazie all’incontro con la straordinaria vocalist di colore Tierinii Jackson ed il fratello batterista Tikyra. Keep On è il loro secondo lavoro, dopo una gavetta di 300 concerti in 2 anni che li ha portati a vincere numerosi premi e ad aprire per Buddy Guy, Los Lobos e North Mississippi Allstars. Qui il retro-soul si apre a tutti i sottogeneri, dal rhythm ‘n’ blues al funky, dal gospel al blues in una fusione di classe e viscere che ha rimandi chiari (non solo nella spettacolare voce di Tierinii) ad Aretha Franklin, in versione più popolare che religiosa. Gli ingredienti classici ci sono tutti, dalla ritmica pulsante agli ottoni a sostegno, dalla chitarra elettrica funky negli accordi e bluesy negli assoli, dalla vocalist carismatica ad ineccepibili contrappunti gospel: nessun accenno, nonostante la giovane età dei componenti, ai suoni moderni ma glaciali del nu-soul o dell’alt-R’n’B. Piuttosto un rimando col pensiero a due bands iberiche sottotraccia nelle vendite ma musicalmente esplosive, e già segnalate sul nostro blog: la madrilena Lisa and The Lips (frontwoman l’hawaiana Lisa Kekaula, anche leader degli americani Bellrays) e la controparte catalana The Excitements (trascinata dalla spettacolare voce della mozambicana Koko-Jean Davis). I Southern Avenue rappresentano una scarica vitale di classe musicale black da sparare ad alto volume in auto o in cuffia (a casa i vicini alzerebbero il volume di Alessandra Amoroso per par condicio).
Voto Microby: 8
Preferite: Whiskey Love, Keep On, Lucky


Per chi ama la musica black, tre gruppi assolutamente raccomandati. 



 
 

lunedì 23 settembre 2019

Recensione: Drew Holcomb & the Neighbors - Dragons (2019)

Drew Holcomb & the Neighbors - Dragons (2019)
A due anni dal precedente lavoro, DH si conferma come uno dei migliori esponenti di folk-powerpop americano. Arricchito dalla moglie Ellie, da Lori McKenna e da Zack Williams dei Lone Bellow, tra i più brillanti esponenti contemporanei di indie-pop, il disco è un insieme di ballate acustiche accompagnate da percussioni minimali, in cui l’imprinting Americana si contamina con ispirazioni provenienti di qua e di là dell’Atlantico. Melodie cristalline e solari in cui si sentono George Harrison e Graham Nash, Stephen Kellogg e Buddy Miller, Randy Newman e Harry Nilsson. Un disco che trasuda buonumore, semplice e sincero. 

Da ascoltare: See the World, End of the World, Make It Look So Easy. Voto:


giovedì 19 settembre 2019

KEVIN MORBY



KEVIN MORBY (2019) Oh My God


Davvero bizzarro l’ex The Babies e Woods, partito dall’indie-rock e, una volta smarcatosi, mai realmente approdato a qualche sottogenere significativo (per vendite o storia della nostra musica). In testa ci sono sempre Bob Dylan, Leonard Cohen e Lou Reed, ma con un’estetica “slacker” che lo avvicina anche a Pete Doherty, Stephen Malkmus/Pavement, Grandaddy e cantanti vari apparentemente “scazzati” (vedi i più recenti Joseph Arthur, Mac DeMarco e Kurt Vile). La qualità della sua produzione è peraltro sempre stata apprezzabile (mai tuttavia imprescindibile). Stavolta al primo ascolto sembra aver fatto il passo più lungo della gamba: come il Dylan di Saved il musicista americano sembra il nuovo illuminato sulla via di Damasco e, in scia agli artisti del cosiddetto “christian rock”, ci propone un predicozzo i cui testi (espliciti già nei titoli) urticherebbero atei ed agnostici, ma accompagnati da musiche ed arrangiamenti intriganti e piacevoli per quanto strani, quasi esclusivamente acustici, che ci fanno dimenticare le continue invocazioni al nostro dio e signore. Critica musicale divisa in due: io sto con quella cui, alla fine, il disco è piaciuto (senza gridare al miracolo...oops!).
Voto Microby: 7.5
Preferite: Hail Mary, Seven Devils, Piss River

lunedì 9 settembre 2019

THE DIVINE COMEDY


THE DIVINE COMEDY (2019) Office Politics

Emersa nei primi anni ‘90 in piena esplosione del fenomeno brit-pop (ma più in orbita Pulp che Oasis/Blur), la band-veicolo del bizzarro ma dotato dandy nordirlandese Neil Hannon aveva già in fasce un piede nel post-brit pop pianistico e cinematico targato Coldplay. Una carriera apprezzabile anche perché sempre fuori dagli schemi, nel suo rendere piacevolmente attuale l’old-fashion, fino a renderlo evergreen. Due soli i capolavori di squisito artigianato pop, Casanova del 1996 ed il più articolato Regeneration del 2001. In mezzo un discontinuo movimento di lavori mediamente buoni, con gioiellini pop dai testi intelligenti ed ironici (se non beffardi), e musiche che hanno miscelato sapientemente beat, chamber pop, prog, vaudeville, cinema, classica ed operetta, in un excursus che ha precedenti illustri in Todd Rundgren, 10CC, Sparks, Bryan Ferry, Rufus Wainwright, il David Bowie ed i Queen più glam, solo per citarne alcuni. A tre anni dal precedente Foreverland (buono), Hannon ci sorprende ancora con la novità di incursioni nella musica elettronica. Stavolta toppando, dal momento che i brani “elettronici” non posseggono né il crisma dell’originalità né quello della qualità. Fortunatamente sono del tutto scorporati dall’unicum pop barocco hannoniano che permea il resto dell’album, al solito melodico, colorato, raffinato, romantico e corposo (16 brani ufficiali, che diventano 31 nella Deluxe Edition che acclude un bonus disc di inediti prevalentemente piano e voce). Dopo un editing che sopprima un paio di brani elettronici e 2-3 canzoni fuori contesto ed anche qualitativamente trascurabili (più pleonastiche che inutili), resta un disco di pop atemporale ben scritto, arrangiato ed interpretato. Una delizia per le orecchie e l’unica caratteristica costante per l’originale Mr. Hannon.
Voto Microby: 7.7
Preferite: You’ll Never Work In This Town Again, Norman and Norma, When The Working Day Is Done

martedì 3 settembre 2019

Recensione: Lloyd Cole - Guesswork (2019)

LLOYD COLE - Guesswork (2019)

Dal suo primo disco, il bellissimo Rattlesnakes, sono passati ormai ben 35 anni.

Le sue caratteristiche ballate, introdotte da lunghi incipit strumentali, le chitarre arpeggiate e le tastiere avvolgenti, gli arrangiamenti vagamente malinconici, in questo disco sono decisamente meno numerosi che in passato. Qui ci sono per lo più batterie elettroniche stile electro-pop anni ’80, un pò del genere Wall of Voodoo, Talk Talk o Robert Palmer, che in ogni caso generano un pop magari non sempre brillante ma comunque piacevole. Difficile dire se si tratta di un disco che possa piacere a quanti amano il vecchio Lloyd Cole, ma almeno le ballate più classicamente melodiche si fanno ricordare volentieri. Un disco con alti e bassi ma può fare decisamente di meglio. Da ascoltare: Night Sweats. Voto: 1/2


venerdì 30 agosto 2019

Recensione: The Black Keys - Let's Rock (2019)

THE BLACK KEYS - Let’s Rock (2019)

A 5 anni di distanza dal non indimenticabile “Turn Blue”, Dan Auerbach (chitarrista e voce) e Patrick Carney (batteria) trovano finalmente il tempo per fare qualcosa insieme, tra impegni vari di produzione, colonne sonore e attività di talent-scout. Let’s rock è il primo lavoro dal 2006 (anno di Magic Potion) senza l’aiuto in produzione di Danger Mouse e segna indubbiamente il ritorno verso il sound glam, un pò garage, un pò blues elettrico dei primissimi lavori del duo, coniugato stavolta ad un tocco di rhythm’n’blues e di country-rock. Chitarre lievemente distorte e sezioni ritmiche vibranti, ritmo pulsante, energia, canzoni dirette e potenti con aperture melodiche (tutto il lavoro di Auerbach insieme a John Prine non può che avergli giovato). Niente a che vedere con l’eccellente El Camino del 2011, ma i Black Keys sono tornati a fare quello che facevano agli inizi di carriera: scrivere canzoni, fare casino e esaltare la chitarra elettrica per un sano, solido rock’n’roll. Da ascoltare: Tell Me Lies, Go, Shine a Little Light. Voto: 1/2


mercoledì 28 agosto 2019

R.I.P. Neal Casal

Brutta giornata: è mancato Neal Casal, cantautore statunitense ed ex chitarrista dei Chris Robinson Brotherhood e dei Cardinals di Ryan Adams.
La notizia è confermata dall'Instagram ufficiale di Casal:
It’s with great sadness that we tell you our brother Neal Casal has passed away. As so many of you know, Neal was a gentle, introspective, deeply soulful human being who lived his life through artistry and kindness. His family, friends and fans will always remember him for the light that he brought to the world. Rest easy Neal, we love you.
Purtroppo pare che il musicista si sia suicidato.



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