Premetto che non sono un fan accanito di Polly Jean. Tra i suoi primi (e acclamati dalla critica) ruvidi lavori da arrabbiata rockeuse, ed i suoi ultimi sforzi intimisti ed introspettivi che facevano presagire una maturità in odore di Kate Bush/Tori Amos, ho sempre preferito quelli di mezzo, con un unico entusiasmo nutrito per To Bring You My Love, del lontano 1995 (ma un buon apprezzamento per gli albums a cavallo del millennio).
Ora, dopo che mi sono appena speso nella promessa che il mio disco dell’anno sarebbe stato il formidabile Scandalous di Black Joe Lewis, ecco che mi smentisco immediatamente con un lavoro agli antipodi (tanto è black-USA l’altro quanto è bianco-UK Let England Shake), per di più con un’artista che, giunta al suo ottavo album, solo una volta era finita nella mia Top Ten di fine anno.
Da dichiarazioni di PJH, Let England Shake nasce dalle riflessioni su un mondo, quello occidentale/civile(?), in disfacimento, impegnato da almeno un secolo nel mantenimento della supremazia economica “a tutti i costi”. Un album quindi fortemente politico, del quale PJ ha prima scritto i testi (influenzata, sono sue dichiarazioni, da Harold Pinter e T.S. Eliot, ma anche da Goya e Dalì), quindi adattato le musiche. Ha condotto ricerche sulla storia dei conflitti dell’ultimo secolo, dalla Crimea alle attuali testimonianze di militari e civili in Iraq ed Afghanistan, quindi registrato l’album quasi in presa diretta in una chiesa del Dorset, con i fidi John Parish e Mick Harvey e la produzione aggiunta di Flood.
Gli arrangiamenti sono elementari (a partire dall’autoharp e dal sax suonati dalla stessa PJ) ma mai dimessi, tesi ma non drammatici, pieni ma non enfatici, ed il mood “dolente ma non malinconico” (Guglielmi sul Mucchio). Assente ogni tipo di virtuosismo (non esiste il benché minimo assolo di qualunque strumento; gli stessi cori sono quasi oratoriali), in modo perfettamente funzionale al contesto. E, potete immaginare, non esiste un singolo “radiofonico”.
Peccato non comprendere bene i testi (dalla critica d’oltremanica ritenuti eccellenti), ma la musica messa al loro servizio è altrettanto comunicativa, al punto da “espandere il conflitto” in tutto il mondo (ascoltare il ritmo in levare con controcanto rasta in Written On The Forehead, o la nenia islamica che accompagna in sottofondo tutto il brano England, o la tromba di “arrivano i nostri” nella meravigliosa The Glorious Land, riferita all’America che PJ definisce “Indian Land”). Solo un’altra donna, la più grande, ha finora toccato le vette di questo lavoro: e come non trovare allora echi di Patti Smith in Bitter Branches ed In The Dark Places (con l’accordo che rimanda a Dancin’ Barefoot)?
Risultato, si sfiora il capolavoro. La critica inglese ed americana è concorde nel considerare Let England Shake come il miglior lavoro di PJH, e si sprecano i 5/5 o 10/10 nei giudizi. Curiosamente ma significativamente, anche numerosi quotidiani (non di settore!) inglesi hanno gridato al miracolo: secondo The Daily Telegraph LES “è un album straordinario, una meditazione sull’insaziabile appetito del genere umano per l’autodistruzione”; per Financial Times è “un potente e profondo album sugli affari di guerra”; per The Indipendent è “un ritratto della propria patria come di un paese avvelenato e costruito con un secolo di spargimenti di sangue e guerre”.
Scusate se mi sono dilungato molto più del dovuto, ma sono piuttosto tirchio con i voti, e l’ultima volta che ho dato 5 stelle o più di 9/10 non avevo ancora capelli bianchi…
Preferite: The Glorious Land, On Battleship Hill, In The Dark Places
Voto Microby: 9.2/10