sabato 30 aprile 2011

HANNAH PEEL (2011) The Broken Wave

Immaginate una Kate Bush degli esordi, però votata ad un pop dalle connotazioni folk anglo-irlandesi e prodotta, invece che da David Gilmour, dalle Cocorosie a braccetto con Devendra Banhart. Avrete l’esordio di questa ventottenne di origini irlandesi ma formatasi in Inghilterra: voce adolescenziale ed arrangiamenti naif per brani intrisi di filastrocche da giostra e nenie infantili, come in modo più “serioso” abbiamo già ascoltato in un progetto, i Tunng, cui Hannah Peel ha collaborato in due albums, ed il cui leader, Mike Lindsay, ha prodotto la prima fatica della nostra.

Da quanto detto, forse il limite del lavoro sta proprio nel fatto che il campo dell’indie-folk-pop comincia ad essere un po’ inflazionato (vedi anche il recente e positivo album di Heidi Spencer & The Rare Birds), e non si vedono all’orizzonte sbocchi di crescita (vedi il ripetersi uguale a sé stesso di Banhart, che pure è un fuoriclasse del genere). Ma i numeri per restare nel giro degli artisti di qualità la nostra eroina li possiede tutti.

Preferite: Song For The Sea, Don’t Kiss The Broken One, Is This The Start?

Voto Microby: 7/10

martedì 26 aprile 2011

EXPLOSIONS IN THE SKY (2011) Take Care, Take Care, Take Care


Nomen omen per i texani Explosions In The Sky: se avessero il dono della misura potrebbero non dico conquistarmi, ma affascinarmi; invece le loro progressioni, a partire da lineari spunti di chitarra, sono sempre enfatiche, debordanti, ridondanti (perfino nel titolo dell’album). A volte le trovo tronfie. Tutte derive già ascoltate, con le debite differenze di stile, nel prog più sinfonico o in quello della decadenza, per cui oggi mi chiedo quale possa esserne l’interesse, soprattutto se il punto di partenza è stato il post-rock…
Tecnicamente inattaccabili, coesi ed omogenei, i sei lunghi brani (come sempre solo strumentali) tendono ad assomigliarsi nei loro vuoti/pieni e nella reciproca attesa dell’esplosione o dell’implosione.
Ebbene sì, non amo il post-rock, ma francamente questo disco alla lunga mi annoia, e se devo stare nel genere piuttosto ascolto Mogwai o Dirty Three.
O qualcuno ha una differente chiave di lettura che me li faccia, se non apprezzare, almeno capire?

Preferita: Be Comfortable, Creature

Voto Microby: 6/10

domenica 24 aprile 2011

Jingle Punks Hipster Orchestra - Under cover of darkness

Questa cover del singolo migliore dell'ultimo disco degli Strokes è semplicemente strepitosa ed è la dimostrazione della sua ricchezza melodica...

Vaccines - What did you expect from the Vaccines?

L'operazione ricorda un pò quella degli Arctic Monkeys: concerti, passaparola, nessun nome dei componenti la band (almeno fino all'uscita del disco), un primo singolo power pop di meno di due minuti (wrecking bar) che sembra scritto direttamente dai fratelli Ramone ed il solito parere di "puzzasottoilnaso" Liam Gallagher che li boccia come "noiosi". Tutto sapeva insomma di operazione commerciale: formatisi meno di un anno fa, questa band londinese esordisce poi direttamente al quarto posto in classifica UK aprendo la strada al disco degli Strokes pubblicato la settimana successiva. Personalmente diffidavo molto di tutta questa montatura ed invece no: il disco mantiene le promesse ed anzi si rivela essere un gran bel disco di puro rock'n'roll con un ritmo travolgente ed un pugno di canzoni da ascoltare a tutto volume. Magari sarà anche un pò ruffiano, con quei riffs che ricordano l'indie-rock più classico ma il disco non può non farsi amare (magari proprio per questo!) ed il loro stile mi pare assai migliore a quello dei Glasvegas e degli White Lies, cui vengono paragonati. Per parafrasare il titolo dell'album: che cosa ci possiamo aspettare dai Vaccines? Siamo sulla buona strada e ci aspettiamo sempre di meglio! I migliori brani: A lack of understanding, Post break-up sex, Norgaard.
Voto: ☆☆☆☆ (incoraggiante)

giovedì 21 aprile 2011

THE HIGH LLAMAS (2011) Talahomi Way

Giunti all’ottava fatica in studio in quasi 20 anni, gli irlandesi capitanati da Sean O’Hagan non spostano di una virgola le loro coordinate, proponendoci al solito un pop soave fatto di tessiture raffinatissime ma mai algide, in cui dominano corde pizzicate, tastiere morbide, fiati delicatamente bachariani ed archi piacevolmente rétro. Strumentali e brani cantati con voci cullanti si alternano con sapienza ed eleganza, per rendere piacevole un clima primaverile.
L’unico difetto è che gli High Llamas anche stavolta si ripetono uguali a se stessi, ma considerando che la loro proposta è unica nel panorama pop-rock e che ci deliziano con un album solo ogni 2-3 anni, forse il difetto continua ad essere piuttosto una virtù.

Preferite: Woven And Rolled, Talahomi Way, Fly Baby Fly

Voto Microby: 7.2/10

BRUCE COCKBURN (2011) Small Source of Comfort

Ad oltre 40 anni dall’esordio discografico, non possiamo certo aspettarci grosse sorprese da Bruce Cockburn. Niente cambi stilistici radicali insomma, ma nemmeno una guardia abbassata rispetto alla qualità, mediamente sempre buona. D’altra parte siamo di fronte ad un cavallo di razza, secondo tra i canadesi solo a mostri sacri quali Neil Young, Leonard Cohen, Joni Mitchell e Robbie Robertson.
L’ultima fatica procede come di consueto in buon equilibrio tra brani cantati (i più ispirati, vedi le iniziali The Iris of The World e Call Me Rose) e strumentali (sul filo di un jazz-rock mai muscolare, ma aggraziato, elegante ed intriso di suggestioni folk), all’ombra di ricchi arrangiamenti acustici. Non mancano atmosfere prettamente tradizionali acadiane (Radiance, Called Me Back, Each One Lost) ma nemmeno brani cantautorali (Driving Away richiama il Costello più intimista).
Complessivamente un buon ritorno, ed anche quando l’ispirazione non è eccelsa la classe ed il mestiere sopperiscono, per un lavoro dal ritmo circadiano, con una prima parte più vivace che lascia progressivamente spazio ad atmosfere più pacate, da fine giornata estiva in campagna.

Preferite: The Iris Of The World, Call Me Rose, Comets of Kandahar

Voto Microby: 7/10

domenica 17 aprile 2011

In preparazione della tournee dei Jethro Tull...




Grazie a Fabius per la segnalazione!!!

STRANDED HORSE (2011) Humbling Tides

Grazie a Stefano, che mi ha inviato questo album, ho fatto un bellissimo viaggio nel tempo. Complice la lingua francese in un paio di brani, ma soprattutto l’atmosfera generale delle composizioni e degli arrangiamenti (essenziali: nessuna sezione ritmica, solo violino e violoncello ma soprattutto il nitido suono arpeggiato della kora africana suonata dal bretone Yann Tambour) ho rivissuto le magie di Alan Stivell e del Dan Ar Bras acustico (è sufficiente immaginare l’arpa celtica e la cornamusa al posto di kora e violino).

Negli anni ’70 questo disco sarebbe stato considerato un piccolo capolavoro. Ora è “solo” bello: lo appesantiscono i brani, un filo noiosetti, di soli kora e voce; ma che delizia quelli arricchiti dagli archi (Shields e Le bleu et l’éther), o l’originalissima cover di What Difference Does It Make? (Smiths!), che apre al nostro solista le possibilità pop finora riferibili ad un altro Yann, il più famoso conterraneo Tiersen.

Preferite: Shields, Le bleu et l’éther, What Difference Does It Make?

Voto Microby: 7/10

SELAH SUE (2011) Selah Sue

Appuntatevi questo nome, perché ha tutti i numeri per irrompere nel mercato. Dal paese più piovoso e triste d’Europa, il Belgio, giunge all’esordio questa ventunenne di bella presenza e grande personalità, con un disco prezioso e baciato dal sole della Giamaica. Muovendosi lungo il solco tracciato da Erykah Badu, con una voce che ricorda Amy Winehouse, più soul di Adele ma meno pop di entrambe e lontano da tentazioni jazz alla Me’Shell Ndegeocello, la cifra stilistica di Selah Sue è quella di un raggamuffin che può rimandare a quanto fatto anni fa tra i colleghi maschi da Apache Indian o più recentemente da Matisyahu.

La prima metà del disco, votata ad un raggamuffin/R&B orecchiabile, caldo ed insieme elegante è un capolavoro, che si placa perdendo incisività in una seconda parte “solo” buona, virata al white soul (si ricorda di essere pur sempre bianca!). Ma ovunque si peschi nel mazzo, tra ritmi vivaci e melodie catchy, si è certi di un risultato brillante, colorato, ispirato.

Preferite: This World, Raggamuffin, Black Part Of Love

Voto Microby: 8.6/10

KURT VILE (2011) Smoke Ring For My Halo

Da non confondere con Kurt Weill (!), l’ex chitarrista dei War On Drugs è attualmente uno dei nomi più chiacchierati della scena newyorkese, piacendo in egual misura sia alle produzioni mainstream sia agli ascoltatori underground (Pitchfork gli ha assegnato un 8.4). Le coordinate sono quelle di un cantautore elettroacustico metropolitano, diremmo un derivativo di Lou Reed/Johnny Thunders, se non fosse che la chitarra è arpeggiata e gli arrangiamenti più ricercati (ma meno incisivi). Tutti i brani sono di buon livello, ma nessuno eccellente, probabilmente penalizzati anche da una voce non originale e monocorde.

In conclusione, nonostante non vi sia mai una caduta di tono, e scrittura, interpretazione, abilità tecnica e produzione non presentino difetti apparenti, a mio parere il disco non decolla mai pienamente. Se beautiful loser dovesse rimanere, in sua compagnia ve ne sono già da parecchi lustri alcune decine ben più meritevoli di attenzione.

Preferite: Baby’s Arms, Jesus Fever, Society Is My Friend

Voto Microby: 7/10

Buffalo Tom - Skins

Da tutti considerata come la band che aprì la strada all'indie, questo trio nasce a Boston alla fine degli anni '80 sotto la spinta di Bill Janovitz (che adesso fa l'agente immobiliare e si occupa part-time del gruppo, sigh...). In più di 20 anni di carriera il loro genere si è fatto via via più folkeggiante con ballate melodiche e calde con atmosfere quasi country rock, alternate a brani più elettrici; magari meno innovative rispetto ai loro inizi, ma sempre piacevoli. Del resto il tempo passa per tutti ed è fondamentale non perdere in qualità anche se l'aggressività si smorza un poco. Da segnalare soprattutto She's Not Your thing, Down, Don't forget me (in duetto con Tanya Donnelly dei Throwing Muses) e Arise, watch.
Magari non un capolavoro, ma un disco onesto e di indubbia classe. Grazie a Fabius per la segnalazione.

Voto: ☆☆☆1/2 (qualità e classe)


mercoledì 13 aprile 2011

WILLIAM FITZSIMMONS (2011) Gold In The Shadows

Devo ammettere che l'album di Fitzsimmons (psicoterapeuta di Pittsburgh cresciuto a pane e musica da due genitori entrambi ciechi...) mi è piaciuto più al primo che dopo ripetuti ascolti. Sarà per la primavera particolarmente estiva mentre le atmosfere del lavoro in questione sono certamente più crepuscolari e brumose, sarà che l'ispirazione mi pare buona per uno-due brani ma ripetitiva alla lunga distanza, sarà che più probabilmente mi sto un po' stancando di tristoni con la voce sempre e solo sussurrata come da malato terminale (beh, il fenotipo del nostro campione lo farebbe supporre...).

E allora preferisco ascoltarmi un altro depressone doc, il berlinese Maximilian Hecker, dotato però di spunti melodici decisamente superiori a WF, o andare senza indugio alla radice del "problema" riascoltandomi Nick Drake o John Martyn o Eric Andersen, o più recenti epigoni come Elliott Smith o Damien Rice...

Il problema di fondo di Gold In The Shadows è che, seppur formalmente raffinato, alla lunga non solo intristisce, ma annoia, nonostante un incipit promettente (The Tide Pulls From The Moon) ed una Psychasthenia che richiama addirittura i Prefab Sprout di Swoon.

In definitiva, ho l'impressione che il nostro barbuto e debilitato psicoterapeuta debba rivolgersi, appunto, ad uno psicoterapeuta, prima che ci finiscano i suoi ascoltatori...


Preferite: The Tide Pulls From The Moon, The Winter From Her Leaving, Psychasthenia


Voto Microby: 6.7/10

lunedì 11 aprile 2011

Elliott Murphy in concerto a Lugagnano (VR)

Elliott Murphy ne avrà piene le scatole di sentirsi dire che a lui è andata male (commercialmente) mentre a Springsteen (che aveva esordito insieme a lui) è andata di lusso. Insomma la solita storia dei "losers" del rock. E pensare che quando aveva iniziato (lui è classe '49) ne parlavano come del nuovo Dylan: in quegli anni faceva da spalla a Patti Smith e alle New York Dolls (lui che è newyorkese di Long Island) e pubblicava una serie di buoni lavori senza grande successo sul mercato ma con un buon riscontro dagli appassionati del genere. Dieci anni fa ha cominciato una nuova vita trasferendosi definitivamente a Parigi dove ha incontrato il chitarrista Olivier Durand che da allora l'accompagna ad ogni lavoro e che gli ha restituito carica e nuova linfa creativa.
Sabato sera era solo lui ad accompagnarlo sul palco a Lugagnano di Sona, per una cinquantina di fans sfegatati (tra cui il sottoscritto e Aloja): il repertorio era soprattutto relativo all'ultimo lavoro (l'omonimo "Elliott Murphy", però, che fantasia...) e la carica, beh, era quella di un ragazzino con il suo rock robusto ed allo stesso tempo poetico. I brani più riusciti sono proprio i migliori dell'album quali l'apertura del concerto "Gone Gone Gone", "Rain rain rain", "You don't need to be more then yourself", e soprattutto "Poise'n'grace"; meno riuscita la altrimenti stupenda "Pneumonia Alley" del disco del 2007. Al bis, fantastica la versione di Blind Wille McTell di Bob Dylan, forse meglio dell'originale del 1983 (ora Aloja mi infamerà..). Bel concerto. Lunga vita a Elliott Murphy!

THE STROKES (2011) Angles

I cinque anni intercorsi dal terzo album ad oggi, dopo lo splendido esordio di Is This It nel 2001, non sono trascorsi invano: né all’interno della band (ogni singolo membro ha prodotto lavori in proprio, più o meno apprezzabili ma comunque prescindibili, con un apprezzamento superiore all’album del cantante Julian Casablancas), né all’esterno, con l’esplosione del revivalismo eighties. Perché in effetti è dalle esperienze differenti dei membri della band, con il collante dei suoni sintetici neo-wave (alla MGMT/Crystal Castles, vedi Taken For A Fool o Games), che nasce Angles, con un’impronta che già aveva marchiato l’esordio solista di Casablancas. Tuttavia, in un disco che ha la virtù migliore nella varietà di ispirazione, il meglio viene prodotto col punk-funk alla Franz Ferdinand screziato Talking Heads/Police delle iniziali Machu Picchu ed Under Cover of Darkness, ma in Gratisfaction si citano perfino i primi Queen. Strumentalmente il quintetto è sempre ineccepibile, con sezione ritmica al solito metronomica e stacchi di chitarra concisi ed ispirati, e la voce riconoscibilissima. La ricerca di nuove strade è appena accennata, ma la classe non è acqua. Preferite: Machu Picchu, Under Cover of Darkness, Taken For A Fool Voto Microby: 7.4/10

sabato 9 aprile 2011

Novità di Neil Young


Tra un paio di mesi verrà pubblicato "A Treasure", una serie di registrazioni live degli anni 1984 e 1985 (con 5 inediti). Il 1984 è un anno da ricordare per lui e per i suoi fan, perchè in quell'anno la sua etichetta (Geffen) lo citò in giudizio per avere prodotto "musica non commerciale e al di fuori dei suoi standard". Oddio, in quegli anni aveva fatto uscire un disco rockabilly (Everybody's Rockin), uno elettronico (Trans) ed uno country tradizionale (Old Ways) per cui sono proprio curioso di riaffrontare la sua "poliedricità".....

venerdì 8 aprile 2011

CHARLES BRADLEY (2011) No Time For Dreaming

Arrivare al debutto discografico all’età di 62 anni, quando uno pensa di godersi finalmente la pensione, testimonia che “non c’è più tempo per sognare”: l’occasione di realizzare un sogno inseguito una vita nei piccoli clubs notturni, dopo avere sbarcato il lunario col lavoro vero di una vita (il cuoco!), la fornisce Tommy “TNT” Brenneck, chitarrista e produttore, oltre che del nostro, dei già noti Dap-Kings e Budos Band.

Il risultato è uno dei dischi di soul-R&B più belli degli ultimi anni (secondo, per le mie orecchie, solo al recente Black Joe Lewis): ovunque si respira Tamla Motown, con una predilezione per Marvin Gaye (ispirazione totale dell’album), continuamente screziato di James Brown (Golden Rule, No Time For Dreaming) ma anche di Percy Sledge (Lovin’ You, Baby), di Solomon Burke (In You) e di Otis Redding (Heartaches And Pain).

Riferimenti che non sono mai pedissequa imitazione, ma solo punti di repere per una qualità di scrittura ed interpretazione da fuoriclasse: come abbiano fatto a dimenticare Charles Bradley una vita dietro ai fornelli, è un mistero…

Non ci sono derive rock, o funky, o jazz, o blues in questo eccellente lavoro: è puro, caldissimo soul, che ameranno quanti hanno apprezzato nell’ultimo lustro gli albums di Sharon Jones, Aloe Blacc, Ndidi O, Mavis Staples, John Legend, oltre alle leggende cui il nostro cuoco in pensione si ispira.

Preferite: The Telephone Song, Golden Rule, Why Is It So hard?

Voto Microby: 8.5/10

PLAYLIST 2010 (Microby)


01. ROBERT PLANT – House of Cards (8.5/10)

02. ARCADE FIRE – The Suburbs (8.4)

03. SHEARWATER – The Golden Archipelago (8.4)

04. AQUALUNG – Magnetic North (8.3)

05. BLACK MOUNTAIN – Wilderness Heart (8.2)

06. SHARON JONES & THE DAP-KINGS – I Learned The Hard Way (8.2)

07. GOLDHEART ASSEMBLY – Wolves And Thieves (8.1)

08. ALOE BLACC – Good Things (8)

09. BOMBAY BICYCLE CLUB – Flaws (8)

10. DR. DOG – Shame, Shame (8)

Simon & Garfunkel

L'altro giorno mi sono imbattuto in un film, per la verità piuttosto deludente (Happy Family di Salvatores), che hanno dato su Sky.
La cosa più bella è stata senz'altro la colonna sonora con queste due perle che avevo dimenticato e che vi ripropongo per la vostra gioia...


domenica 3 aprile 2011

PJ HARVEY (2011) Let England Shake


Premetto che non sono un fan accanito di Polly Jean. Tra i suoi primi (e acclamati dalla critica) ruvidi lavori da arrabbiata rockeuse, ed i suoi ultimi sforzi intimisti ed introspettivi che facevano presagire una maturità in odore di Kate Bush/Tori Amos, ho sempre preferito quelli di mezzo, con un unico entusiasmo nutrito per To Bring You My Love, del lontano 1995 (ma un buon apprezzamento per gli albums a cavallo del millennio).

Ora, dopo che mi sono appena speso nella promessa che il mio disco dell’anno sarebbe stato il formidabile Scandalous di Black Joe Lewis, ecco che mi smentisco immediatamente con un lavoro agli antipodi (tanto è black-USA l’altro quanto è bianco-UK Let England Shake), per di più con un’artista che, giunta al suo ottavo album, solo una volta era finita nella mia Top Ten di fine anno.

Da dichiarazioni di PJH, Let England Shake nasce dalle riflessioni su un mondo, quello occidentale/civile(?), in disfacimento, impegnato da almeno un secolo nel mantenimento della supremazia economica “a tutti i costi”. Un album quindi fortemente politico, del quale PJ ha prima scritto i testi (influenzata, sono sue dichiarazioni, da Harold Pinter e T.S. Eliot, ma anche da Goya e Dalì), quindi adattato le musiche. Ha condotto ricerche sulla storia dei conflitti dell’ultimo secolo, dalla Crimea alle attuali testimonianze di militari e civili in Iraq ed Afghanistan, quindi registrato l’album quasi in presa diretta in una chiesa del Dorset, con i fidi John Parish e Mick Harvey e la produzione aggiunta di Flood.

Gli arrangiamenti sono elementari (a partire dall’autoharp e dal sax suonati dalla stessa PJ) ma mai dimessi, tesi ma non drammatici, pieni ma non enfatici, ed il mood “dolente ma non malinconico” (Guglielmi sul Mucchio). Assente ogni tipo di virtuosismo (non esiste il benché minimo assolo di qualunque strumento; gli stessi cori sono quasi oratoriali), in modo perfettamente funzionale al contesto. E, potete immaginare, non esiste un singolo “radiofonico”.

Peccato non comprendere bene i testi (dalla critica d’oltremanica ritenuti eccellenti), ma la musica messa al loro servizio è altrettanto comunicativa, al punto da “espandere il conflitto” in tutto il mondo (ascoltare il ritmo in levare con controcanto rasta in Written On The Forehead, o la nenia islamica che accompagna in sottofondo tutto il brano England, o la tromba di “arrivano i nostri” nella meravigliosa The Glorious Land, riferita all’America che PJ definisce “Indian Land”). Solo un’altra donna, la più grande, ha finora toccato le vette di questo lavoro: e come non trovare allora echi di Patti Smith in Bitter Branches ed In The Dark Places (con l’accordo che rimanda a Dancin’ Barefoot)?

Risultato, si sfiora il capolavoro. La critica inglese ed americana è concorde nel considerare Let England Shake come il miglior lavoro di PJH, e si sprecano i 5/5 o 10/10 nei giudizi. Curiosamente ma significativamente, anche numerosi quotidiani (non di settore!) inglesi hanno gridato al miracolo: secondo The Daily Telegraph LES “è un album straordinario, una meditazione sull’insaziabile appetito del genere umano per l’autodistruzione”; per Financial Times è “un potente e profondo album sugli affari di guerra”; per The Indipendent è “un ritratto della propria patria come di un paese avvelenato e costruito con un secolo di spargimenti di sangue e guerre”.

Scusate se mi sono dilungato molto più del dovuto, ma sono piuttosto tirchio con i voti, e l’ultima volta che ho dato 5 stelle o più di 9/10 non avevo ancora capelli bianchi…

Preferite: The Glorious Land, On Battleship Hill, In The Dark Places

Voto Microby: 9.2/10

William Fitzsimmons - Gold in the shadows

La vita non è stata certo facile per WF: nato da due genitori non vedenti è stato da sempre abituato a comunicare attraverso il suono ed il linguaggio. I suoi genitori erano appassionati di folk acustico (soprattutto Cohen, Taylor e J. Mitchell) e gli hanno riempito la casa di strumenti musicali. Poi ha iniziato l'Università dove si è laureato in psicoterapia e, tra un esame e l'altro, gli è venuto naturale scrivere musica, con gli accordi che aveva sentito nell'infanzia a casa con i suoi genitori. Ora siamo al quarto disco, atteso dopo il successo dell'album precedente "The Sparrow and the Crow" arrivato al numero 1 degli album folk del 2009. Il suo talento principale è riuscire ad integrare ballate acustiche di respiro folk a delicate sonorità lo-fi elettroniche: ho trovato il disco ben riuscito (anche se non tutti i brani sono convincenti) e farà la felicità di chi, come chi scrive, ogni tanto ascolta, con grande nostalgia, i lavori di Nick Drake o Elliott Smith.

Da segnalare: Beautiful Girl, The Tide pulls from the moon, Psychastenia.

Voto: ☆☆☆1/2 (commovente)

venerdì 1 aprile 2011

SEGNALAZIONE CONCERTI

Ciao a tutti, sono Roby, ultimo nato grazie a Luca (è o non è Fallo??), e vi sto già ammorbando con alcune recensioni (giuro che non sono sempre così tossico!), quindi ora mi limito a segnalare alcuni concerti della "nostra" musica che si terranno a breve qui in zona (BG) :
- Elliott Murphy & Olivier Durand 08/04, h 21, 12 euro (Dalmine-BG, Teatro Civico)
- Robyn Hitchcock (rivisita i suoi successi con violoncellista), preceduto dai Rusties (in versione acustica; sono un gruppo bergamasco nato come cover-band di Neil Young ed ora giunto al 2° album di composizioni originali,
genere west-coast of course...): 15/04, h 21, 12 euro (Dalmine-BG, Teatro Civico)
- Jo Hamilton (folk inglese, in duo), 10/04, h 15.30, gratuito, al Ristorante Centrale di Gandino-BG
- Ottmar Liebert, 07/04, h 21, 20 euro (Trescore-BG, Cineteatro Nuovo)

Informazioni prese da info@geomusic.it, alla cui mailing list vi consiglio di iscrivervi (organizzano da almeno 30 anni concerti "di nicchia", poco pubblicizzati, sempre in zona BG-BS-MI, a prezzi contenuti se non popolari; e non vi bersagliano di mails! Solo quelle dei programmi ogni 1-2 mesi).
Luca, ho letto che il "tuo" John Grant è live a Bologna (Chiesa di Sant'Ambrogio, bella location no?!) il 20 aprile; info: www.dnaconcerti.com

Buon weekend a tutti.
Domani notte spero di essere in testa al campionato...

Roby (Microby)


Drive-By Truckers - Go-go boots (recensione n.2)

DRIVE-BY TRUCKERS (2011) Go-Go Boots

Mi sono sempre piaciuti I DBT, ma non mi hanno mai entusiasmato. Per i medesimi motivi: troppo canonici per essere alt.country, troppo alternativi per essere country-rock, troppo pop per essere southern, troppo bianchi per essere blues, troppo roots per essere rock.

E soprattutto, nonostante un quasi esordio (Southern Rock Opera) che almeno nel titolo prometteva di rinverdire il fuoco del Sud, sempre troppo poco passionali in un genere che richiede meno cervello e più pancia.

Gli stessi limiti che ritrovo in Go-Go Boots: una sezione ritmica pulita-pulita troppo spesso al servizio di compitini country-rock convenzionali (Cartoon Gold, The Weakest Man, Pulaski), o di brani che tentano l’alt.country ma che rappresenterebbero gli scarti di quasi ogni disco dei Wilco e dei Jayhawks (Assholes, The Fireplace Poker). Eppure i nostri sanno fare molto meglio, quando scaldano le chitarre ed inseguono i profumi del sud, sulla scia di Allman Brothers e Widespread Panic (la title-track, Used To Be A Cop, The Thanksgiving Filter, Mercy Buckets), o perfino quando si cimentano col pop (I Do Believe).

Ben altri risultati, per coesione, pathos e potenza di fuoco, raggiungono per esempio i loro coevi della Derek Trucks Band o un Sonny Landreth.

Non condivido ahimè l’entusiasmo di Luca e Aloja a proposito di questo disco, che trovo piacevole ma non imprescindibile.

Ma forse qualcuno apprezzerà come brillante eclettismo quello che per me è eccessiva eterogeneità, o come equilibrata misura quella che io chiamo noiosa pulizia.

D’altra parte sabato tiferò Inter ed avrò contro 10 milioni di milanisti…

Preferite: Go-Go Boots, Used To Be A Cop, The Thanksgiving Filter

Voto Microby: 6.8/10

Black Joe Lewis & The Honeybears - Scandalous

Chi non sopporta la musica black si astenga rigorosamente da questo album e dal suo autore. Ma dentro ha un’energia che ti porta da Brescia a Reggio Calabria in auto con un solo pieno! Non conoscevo questo texano meno che trentenne dalla voce ruvida, e ringrazio una recensione sul Mucchio che mi ha convinto ad interessarmene, anche perché sarà difficile, già a marzo, trovare nel resto dell’annata un lavoro che possa scalzarlo dal gradino più alto della mia playlist di fine anno.

Se riuscite ad immaginare un Lenny Kravitz degli esordi innamorato di Sam & Dave invece che dei Beatles (She’s So Scandalous, You Been Lyin’), a dei Blues Brothers neri per davvero (Booty City, Mustang Ranch), ad un Eric Burdon virato Motown (Since I Met You Baby), ed a condire il tutto con l’energia di James Brown (a partire dall’incipit Livin’ In The Jungle), beh, siete solo al casello di Brescia Sud.

Chitarre sferraglianti e fiati Stax al servizio di R&B, funk, soul, rock e blues. Non aspettatevi un lavoro pulito alla Otis Redding, Sam Cooke o Marvin Gaye, né caldo ma tradizionale alla Solomon Burke o Wilson Pickett. Qui siamo nel garage della musica black, si esce con le mani sporche e una voglia pazzesca di andare a lumare pupe.

Sarebbe Scandalous che BJL passasse inosservato!

Preferite: Livin’ In The Jungle, She’s So Scandalous, You Been Lyin’

Voto Microby: 8.8/10

BEADY EYE (2011) Different Gear, Still Speeding

BEADY EYE (2011) Different Gear, Still Speeding

Ma che sorpresa Liam! Quando t’aspetti che, lontano dalla chioccia-Noel, il fratellino antipatico e presuntuoso mostri tutti i suoi limiti, ecco invece che ti stupisce soprattutto con la qualità che nessuno gli riconosceva: quella della scrittura. Perché se sulla perizia tecnica nessuno avrebbe potuto eccepire (anche il resto degli Oasis è come al solito inappuntabile), e sugli arrangiamenti il mestiere avrebbe potuto sopperire ad idee non proprio originali (sembra di ascoltare “semplicemente” l’ultimo disco degli Oasis…), a fare la differenza è la bontà delle canzoni, non inferiore ad ogni altro album del gruppo-madre successivo a What’s The Story

E così, lungo uno schema cui ci aveva abituato (bene) il fratellone Noel, ecco inseguirsi le varie anime dei Beatles, tra rock’n’roll lennoniani (Beatles and Stones, Bring The Light), ballate maccartiane (For Anyone, Kill For A Dream, The Beat Goes On), in simbiosi nella Standing On The Edge of Noise (a chi non ricorda Get Back?).

Non mancano le solite lungaggini (Wigwam, The Morning Son) che avevano reso i loro albums precedenti (da Standing On The Shoulder of Giants in poi) solo buoni anziché eccellenti, ma complessivamente siamo di fronte ad un lavoro decisamente ispirato, e non solo per l’effetto-sorpresa.

Preferite: Millionaire, The Roller, The Beat Goes On

Voto Microby: 7.9/10

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