venerdì 18 dicembre 2020

SAULT


SAULT (2020) Untitled (Rise)

Genere musicale non proprio nelle corde del nostro blog, il quarto album in 18 mesi dei misteriosi Sault merita una segnalazione per i rumours che su tutte le riviste di musica ne fanno il caso dell'anno. Anche per chi come me è solitamente poco interessato ai gossip (per essere conciso, Sault è un collettivo militante aperto londinese di cui non si conoscono le identità, discograficamente molto prolifico dall'esordio nel 2019, e minimale anche nelle copertine dei dischi, nere con numeri composti da stuzzicadenti o mani in penombra, e ovviamente prive di informazioni sui credits eccetto la produzione di Inflo, già dietro la consolle dell’ultimo Kiwanuka), la proposta musicale è singolare pur nella rielaborazione di un suono classico della blackness: “Dentro le loro canzoni scorrono oltre 50 anni di black music: c’è il miglior neo-soul, l’R&B più puro, il funk più torrido, reminiscenze disco, l’influenza afrobeat, il messaggio delle spoken words, la dolcezza del pop, la solennità del gospel e il fascino delle rare grooves anni ’80, ma sottotraccia si respira anche il basso ruvido post-punk, la dub, e qua e là un po’ di elettronica” (Michele Boroni, Rock On Line). In sostanza un trionfo di ritmo e percussioni che può essere ricondotto al fenomeno della blaxploitation negli anni '70, rivisitata, ampliata ed embricata con l'evoluzione della musica black successiva ai seventies. A mio avviso non un capolavoro come da più parti sbandierato (anche perchè la seconda parte non è all'altezza della prima), ma un lavoro che sembrerà originale ai millennials e risveglierà nostalgie vintage ai vegliardi come me.

Voto Microby: 7.5    

Preferite: Fearless, Strong, Son Shine

mercoledì 9 dicembre 2020

THE NEIGHBOURHOOD


THE NEIGHBOURHOOD (2020) Chip Chrome And The Mono-Tones

Quarto album della band californiana capitanata da Jesse Rutherford, che finalmente disegna un alternative pop per millennials degno di essere applaudito anche da chi è cresciuto con i Beatles e da lì è arrivato agli Alt-J. Non un capolavoro, ma certamente la varietà del loro contemporary pop screziato di synth-soul richiama alla mente Ben E. King così come Bee Gees, Electric Light Orchestra, Michael Jackson, Paul Weller, Blur, Frank Ocean e The 1975, e risulta con gli ascolti meno semplice che al primo approccio e più intelligente che modaiolo (anche se certamente ruffiano). Rutherford può essere giudicato svogliato o suadente, malinconico o coccolante, leggero o comunicativo, ma i milioni di visualizzazioni delle sue canzoni in rete sembrano certificare che sa come parlare ai teenagers. Da ascoltare.

Voto Microby: 7.7

Preferite: Devil's Advocate, Cherry Flavoured, Pretty Boy


lunedì 30 novembre 2020

JAMES DEAN BRADFIELD


JAMES DEAN BRADFIELD (2020) Even In Exile

Frontman e chitarrista dei gallesi Manic Street Preachers, una tra le formazioni emerse in pieno clima britpop ma dal tiro politico, scorie punk e rabbia melodica alla base di un ampio successo sia di critica che di pubblico, James Dean Bradfield al suo secondo album da solista non rinuncia all’impegno sociale ed anzi lo rilancia alla garibaldina, come “eroe dei due mondi”. Even In Exile è infatti ispirato alla figura di Victor Jara, regista teatrale, poeta, cantautore, membro del Partito Comunista de Chile, attivista politico e sostenitore del socialista Salvador Allende, e come lui ucciso durante il golpe del 1973, non prima di essere stato detenuto, torturato e deriso (gli aguzzini gli frantumarono le ossa delle mani e poi lo sfidarono a suonare la chitarra). Con la collaborazione ai testi di Patrick Jones (fratello di Nicky Wire, bassista dei Manics) che ha riadattato liriche di Victor Jara, JDB ha completato una sorta di concept album che in modo armonioso coniuga i Manics melodici di This Is My Truth Tell Me Yours (1998) con momenti prog ed influenze floydiane ma con lo spirito di Sandinista dei Clash (uno degli album che JDB dichiara più formativi nella personale educazione politico-musicale). Alcuni intermezzi solo strumentali non disuniscono il lavoro, sempre appassionato come i fan dei Manics apprezzano, e un brano come La partida ricorderà ai più giovani le atmosfere dei Calexico, ma ai canuti come il sottoscritto scoperchierà la nostalgia della composizione di Victor Jara interpretata nel 1974 dagli Inti Illimani di La nueva cancion chilena, e da JDB esaltata in climax morriconiano.

Voto Microby: 7.7

Preferite: Recuerda, The Boy From The Plantation, Thirty Thousand Milk Bottles

domenica 22 novembre 2020

JOE BONAMASSA

 


JOE BONAMASSA (2020) Royal Tea

Insopportabile Bonamassa. In venti anni lo straordinario (da qualunque parte la si voglia vedere) chitarrista americano ha pubblicato ufficialmente 16 album in studio, 16 live (+ 16 video), 5 dischi come membro degli hard-rockers Black Country Communion, 4 con la fusion-band Rock Candy Funk Party, 4 di impronta soul-blues in coppia con Beth Hart, e uno con The Sleep Eazys, outfit jazz-blues delle radici; per non elencare le innumerevoli collaborazioni studio/live con altri artisti. Insopportabile per i negozianti di dischi nel gioco del “file under”, nel quale pertanto è sempre sbrigativamente catalogato “blues” o “rock-blues”. Se siamo qui a recensirlo, è perché per l’ennesima volta il suo lavoro è insopportabilmente di buona qualità, sebbene ancora una volta difficilmente decifrabile vista la pletora di generi musicali affrontati. Reduce dall’album British Blues Explosion che nel 2018 lo aveva portato a Londra per un tributo rock-blues impresso su disco ai suoi tre principali guitar heroes (Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page), in quella occasione aveva assorbito l’atmosfera della Londra a cavallo tra i ’60 e i ’70, che musicalmente partiva dai Bluesbreakers di John Mayall, dai Cream e dal Jeff Beck Group per allargarsi all’emergente scena hard-rock e progressive. Ecco, in questi tre generi (hard-rock, blues, prog in ordine di peso) si riassume l’ultima fatica di Joe Bonamassa. Inciso nei mitici Abbey Road Studios con la solita/solida band (Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Reese Wynans alle tastiere) ed il fondamentale contributo alla composizione di Bernie Marsden (UFO/Whitesnake) e Pete Brown (paroliere dei Cream), Royal Tea sciorina sì i soliti torrenziali ed ipertecnici assoli chitarristici (che spesso da soli giustificano il disco), ma inseriti ad hoc in canzoni dalla scrittura forse non memorabile ma certamente di buona qualità. Nella maggior parte dei casi si tratta di hard-rock, hard-blues, hard-prog, hard-shuffle, hard-R’n’R (fino alla chiusura con un brano country-rock), nei quali emergono prepotenti le influenze british, compositive e chitarristiche (i citati Clapton, Beck, Page, ma anche Rory Gallagher, Paul Kossoff, Gary Moore), piuttosto che americane (gli amati Stevie Ray Vaughan e B.B. King), con sparse, chiare citazioni di Led Zeppelin e Deep Purple. Il risultato finale è quello di un classic hard-rock seventies, in cui si apprezzano gli equilibrismi tecnici (come al solito) ma anche la grande versatilità del nostro, insieme alla sua voce che negli anni è diventata davvero eccellente. Insopportabile ma, al solito, decisamente energetico.

Voto Microby: 7.7    

Preferite: Beyond The Silence, Why Does It Take So Long To Say Goodbye, A Conversation with Alice

sabato 14 novembre 2020

Idles ULTRA MONO Momentary acceptance of the self


Ogni tanto capita di imbattersi in una band che ti fulmina sulla via di Damasco e ti fa pensare che si, il rock non è morto se in giro c'è ancora gente capace di farti venire voglia di ballare in salone mentre li ascolti. Ho scoperto l'ultimo album degli Idles per caso alla radio (grazie di esistere Radio Rock!), che trasmetteva War, il primo singolo di questo album, e me ne sono subito innamorato. Non tanto per i suoni molto derivativi, principalmente ispirati al punk, sia quello brit che quello d'oltreoceano, quanto per l'energia, la modernità e, strano per una band etichettata come post-punk, la qualità compositiva dei loro pezzi. Loro rifiutano l'etichetta, ma è una posizione abbastanza difficile quando proponi pezzi come la stessa War o Ne touche pas moi. Insomma, se vi piacciono i Sex Pistols, i Gang of Four, i Fun Boy Three, Nick Cave, the Hives, Dead Kennedys, Rage Against The Machine e chi più ne ha più ne metta, beh, questa band è per voi! Ma attenzione, non si tratta di revival ma di umanesimo. Questi siedono sulle spalle dei giganti e aprono le porte al futuro del rock.


domenica 8 novembre 2020

Recensioni: MATT BERNINGER - Serpentine Prison, THE MASTERSONS - No Time For Love Songs

MATT BERNINGER - Serpentine Prison (2020) 


L’instancabile leader dei The National dopo una marea di partecipazioni e progetti ha deciso pubblicare questo disco di inediti in cui folk, country-blues e pop sono la colonna sonora della sua profonda voce da crooner. Toni orchestrali alternati ad altri più intimisti e sommessi danno al disco quasi una dimensione notturna e a tratti teatrale: MB si muove con la sua slide guitar tra sonorità minimali e scarne ma curate e profonde. Non può non piacere a chi ama Nick Cave, Leonard Cohen, Randy Newman, Elvis Costello ed i primi Wilco. Da ascoltare: One More Second, Distant Axis, Serpentine Prison. Voto:





THE MASTERSONS - No Time For Love Songs (2020) 


I coniugi Chris ed Eleanor Masterson, componenti di lunga data della band di Steve Earle, hanno sempre fatto dell’ottimo pop-folk di qualità con melodiche leggere, accattivanti e vagamente malinconiche ma anche tecnicamente impeccabili. In questo loro quarto lavoro celebrano 10 anni di collaborazione e confermano la loro impostazione melodica con arrangiamenti raffinati e mai ridondanti ed una attenta cura delle armonie vocali. In questo insieme di canzoni leggere ed intelligenti, una sorta di mix di Americana, Country e Folk-Pop, si sente l’impronta sixties dei Byrds, l’eleganza dei Fleetwood Mac la profondità di Buddy & Julie Miller ed addirittura un pizzico di Power-pop alla Badfinger. Da ascoltare: Spellbound, The Last Laugh, King of the Castle. Voto:




martedì 3 novembre 2020

GORDI


GORDI (2020) Our Two Skins

L’esordio discografico nel 2017 nei panni (stretti) di una singer-songwriter dedicata alla folktronica (forse scontata, viste le contingenti collaborazioni/tours con Bon Iver, Troye Sivan, Asgeir), quindi una lunga pausa per gestire la chiusura della relazione col fidanzato storico e l’inizio di un rapporto omosessuale, ma soprattutto il conseguimento della laurea in medicina e l’inizio del lavoro al Prince of Wales Hospital di Sidney. E riecco l’attuale 27enne Sophie Payten, in arte Gordi, con un nuovo e più compiuto album. Le influenze precedenti non sono andate perse, e la scelta degli arrangiamenti musicali ha ancora privilegiato una sottile tessitura elettronica ad abbracciare semplici accordi di pianoforte o di chitarra semiamplificata, con la batteria a dare ritmo alla metà dei brani dall’impianto più pop. Pop nell’accezione di Bon Iver o Iron & Wine, dal momento che le canzoni della cantautrice australiana hanno il passo composto e delicato di Beth Orton e l’impalcatura strumentale del Justin Vernon più orecchiabile. Brani pacati, intimi, riflessivi, già ora apprezzabili e con varie possibilità di evoluzione futura: indie-pop, folktronica, mainstream pop, folk, avantgarde. Compresa quella di fare il medico a tempo pieno.

Voto Microby: 7.6    

Preferite: Sandwiches, Extraordinary Life, Unready

giovedì 22 ottobre 2020

WILL HOGE


WILL HOGE (2020) Tiny Little Movies

I negozianti di dischi ben descritti dal Nick Hornby di Altà fedeltà avrebbero avuto non poche difficoltà nel riporre nello scaffale corretto l’artista americano, partito nel gioco del “file under” con un’inequivocabile etichetta di singer-songwriter elettroacustico tradizionale (di derivazione country-rock), ed approdato con quest’ultimo lavoro ad un “american roots rock” elettrico, intenso e sapido ma anche capace di scrittura raffinata, non solo viscerale. Due chitarre e piano/organo ben sostenuti da una sezione ritmica essenziale, ed una voce maschia e roca, per un impianto musicale che ricorda il blue-collar rock dei maestri Bruce Springsteen, Bob Seger, John Mellencamp, Ryan Bingham, che alterna vibranti ballads (My Worst su tutte, impreziosita da uno splendido assolo di chitarra) a rock muscolari e perfino ad un rock da arena (l’ottima The Overthrow, anche se speriamo non rappresenti la direzione musicale futura del nostro). Non manca mai l’epica tipicamente a stelle e strisce, e mentre ci si chiede se nel 2020 possa esistere un pubblico “under 50” adatto alla proposta musicale del rocker del Tennessee, si ha l’assoluta certezza che va raccomandato a tutti gli “over 50” cresciuti a pane e “classic rock”. 

Voto Microby: 8    

Preferite: My Worst, Is This All That You Wanted Me For?, Maybe This Is OK

domenica 18 ottobre 2020

Recensione : BRUCE SPRINGSTEEN - Letter to You (2020)

 BRUCE SPRINGSTEEN - Letter to You (2020)


In questi ultimi vent’anni, dalla reunion con la E Street Band del 1999 in poi, il Boss ha messo insieme 8 album in studio, un paio eccellenti (The Rising, The Seeger Sessions), un paio buoni (Wrecking Ball, Working on A Dream) ed altri a mio parere deludenti (Magic, High Hopes, Devils & Dust, Western Stars).  Comune a tutti questi lavori era una produzione troppo “innovativa” con una sonorità poco in linea con il sound tipico degli “E Streeters”: questa volta invece BS ha riunito il gruppo al completo per un intero album in presa diretta, praticamente in disco live in studio, recuperando anche tre brani nel cassetto dai primi anni ’70. Letter To You, in uscita il 23 ottobre, ne è il risultato ed ad una prima valutazione appare davvero come l’avremmo voluto: sentiamo l’elegante progressione pianistica di Bittan, il drumming secco di Max Weinberg, le chitarre selvaggie di Nils Lofgren e Little Steven ed in cui anche il sax di Jake Clemons non fa rimpiangere quello di Big Man.  Ma emerge soprattutto lui, la sua chitarra e la sua voce come non la sentivamo da anni, potente, tagliente e carica di sentimento. Viene poi spontaneo pensare a come questi brani non potranno che essere perfetti quando verranno realizzati dal vivo (pare non prima del 2022, incrociamo le dita…). Insomma il disco che noi fans aspettavamo da anni, Welcome Back!

Da ascoltare: Letter To You, The Power of Prayer, If I Was The Priest, Songs for Orphans.

Voto: 1/2




lunedì 12 ottobre 2020

DEEP PURPLE


DEEP PURPLE (2020) Whoosh!

Uno dei più grandi gruppi di (hard) rock della storia non si arrende alla pensione ma, pur senza godere del (meritato) alone mitico degli antichi rivali Led Zeppelin nè delle luci della ribalta (per meriti vetusti) dei Rolling Stones, continua a pubblicare album degni del proprio passato. Mai veramente avvicinatisi al filone metal (come invece i loro coevi Black Sabbath, tra gli ispiratori/maestri del movimento), nè senza aver mai sposato le cause del punk prima, della new wave e del grunge poi, pur possedendone carica esplosiva (ma mai rivoluzionaria) e vocabolario tecnico, i nostri vecchietti (gli inossidabili Ian Gillan, Ian Paice e Roger Glover hanno rispettivamente 75, 73 e 75 anni, ed un'incredibile carica esente da Quota 100) hanno continuato nei decenni ad incidere e suonare live il classic rock elettrico che li contraddistingueva nei '70, ad impronta sempre hard rock ma ingentilita dall'età. Impermeabili alle mode e senza saturare il mercato (5 i dischi pubblicati nel nuovo millennio, di qualità mai meno che buona) ci propongono ora il nuovo, eccellente lavoro che ruota intorno alla maestria dei sostituti di due mostri sacri come Ritchie Blackmore e Jon Lord: senza virtuosismi inutili (ed obsoleti) il chitarrista (già di casa) Steve Morse ed il nuovo arrivato tastierista Don Airey colorano di classic hard rock la prima facciata del disco e di mai eccessivi richiami al prog la seconda, con risultati in entrambi i casi di ottimo livello. Si potrà obiettare che è musica vetusta, invece che "classica", ma in un millennio che grandi sconvolgimenti in ambito pop-rock non ne ha portati, affidarsi alla nostalgia di qualità per gli over-50 e togliersi qualche curiosità sulle radici della nostra musica per gli under-30 potrebbe essere una buona idea. Il disco è quello giusto. Splendida, al solito, anche la copertina.

Voto Microby: 7.9    

Preferite: No Need To Shout, Nothing At All, Throw My Bones

martedì 6 ottobre 2020

FLEET FOXES


FLEET FOXES (2020) Shore

E’ singolare che dei Fleet Foxes, band da sempre alla ricerca del disco pop perfetto (per esplicita ammissione del suo leader incontrastato Robin Pecknold), e nata sulla intersezione delle matrici folk e pop da questa e da quella parte dell’oceano, e cioè sulle radici più “popolari” per definizione, non si riesca a canticchiare una canzone sotto la doccia. Probabilmente a causa del fatto che le canzoni del gruppo di Seattle (ma scritte dal solo Pecknold) sono solo apparentemente semplici, mentre necessitano di più ascolti perché se ne possa apprezzare la raffinata complessità. Che, va da sé, non è né leggera né fischiettabile. Abbandonati definitivamente i richiami a Beach Boys e Simon & Garfunkel che rendevano leggiadro il debutto omonimo nel 2008, e fortunatamente tralasciata l’evoluzione verso una musica colta di impronta elisabettiana che troppo seriosamente impregnava il terzo lavoro (Crack-Up, 2017), restano le deliziose armonizzazioni vocali di scuola CSN&Y prestate ad un folk-pop meno cerebrale ma sempre sofisticato, da biblioteca piuttosto che pastorale, più in forma-canzone dalle parti del loro capolavoro Helplessness Blue (2011), sebbene di questo meno intrigante e magmatico. Come illustra la splendida copertina, Shore rappresenta insieme la tentazione del tuffo e la sicurezza dopo la burrasca. Per emergere dalla paura paralizzante dell’ondata-COVID19 in USA, Pecknold ha dichiaratamente composto le 15 canzoni di Shore per accarezzare più che per scuotere. Come al solito sostenuto da strumenti ed arrangiamenti acustici, senza mai l’ombra di un assolo, Shore necessita di numerosi ascolti per essere apprezzato pienamente: non vi sono brani memorabili in questo album pubblicato in occasione del solstizio d’autunno di un anno tragicamente bisestile, ma non uno meno che buono, e parecchi eccellenti. E se l’artista americano non arriva a commuovere, riesce ancora una volta a farsi ammirare.  

Voto Microby: 8    

Preferite: Can I Believe You, Maestranza, Sunblind

giovedì 24 settembre 2020

FANTASTIC NEGRITO


FANTASTIC NEGRITO (2020) Have You Lost Your Mind Yet?

Una decina di anni fa avrei scommesso che il futuro della musica black (non mainstream) sarebbe passato dalle coordinate tracciate da tre artisti agli esordi: Gary Clark Jr, Black Joe Lewis, e Fantastic Negrito. Non a caso texani i primi due e meticcio con la madre del Sud degli USA il terzo, a sottolineare come il southern blues abbia rivisitato non solo le radici delle dodici battute acustiche di Robert Johnson ed elettriche di Muddy Waters ma anche la sensualità ritmica del R&B di James Brown e del funk di Sly Stone. Un paio di lustri dopo si è potuto constatare che la fiducia nei tre artisti era ben riposta, tuttavia nessuno di loro ha ancora prodotto il capolavoro del genere. Il “R&B con importante attitudine garage” (come scrivevamo su queste pagine) di Black Joe Lewis si è un po’ fossilizzato dopo due primi album da applausi, e Gary Clark Jr ha sempre pubblicato buoni album ed impressionato nella dimensione live ma non ha mai fatto il salto di qualità definitivo. L’unico, a mio avviso, in crescita costante disco dopo disco (tanto da portarsi a casa il Grammy Award for Best Contemporary Blues Album sia con The Last Days of Oakland del 2016 che con Please Don’t Be Dead del 2018) è Xavier Amin Dphrepaulezz (il padre è caraibico di origini somale), in arte Fantastic Negrito. Unico anche nel riuscire ad ibridare sapientemente il blues (che resta la matrice principale) con il soul, il rhythm and blues, il funky, il rock, il rap, l’hip hop, con un linguaggio che amalgama Muddy Waters con James Brown, Jimi Hendrix con Sly Stone, Solomon Burke con Prince (passaggio obbligato per tutta la cultura black degli ultimi 40 anni), e suoni (in particolare la ritmica e le parti vocali) perfettamente integrati con la cultura delle hip hop bands. Sonorità non di facile accesso per chi vive di Frank Ocean, Kendrick Lamar, Solange, Dizzee Rascal e compagnia bella, ma neppure per chi si nutre di B.B. King, John Lee Hooker, John Mayall, Joe Bonamassa. Tuttavia entrambe le categorie di ascoltatori commetterebbero un grosso errore se non si approcciassero a quest’ultimo fuoriclasse della musica black. Have You Lost Your Mind Yet? non è ancora un capolavoro, ma è sulla strada giusta.

Voto Microby: 8

Preferite: Your Sex Is Overrated, Searching For Captain Save A Hoe, How Long

lunedì 14 settembre 2020

NADINE SHAH


NADINE SHAH (2020) Kitchen Sink

Se in occasione di Holiday Destination (2017) avevamo sottolineato per la prima volta l’influenza di Morphine e Talking Heads, la cantautrice di passaporto britannico ma dal DNA misto pakistano-norvegese conferma strumentalmente tale impressione in una prima parte del nuovo album che potrebbe appartenere ad un David Byrne meno caraibico o ad un Peter Gabriel meno etnico. Salvo proporre una seconda parte in cui i colori si attenuano per lasciare spazio ad un bianco/nero di struttura dark che troviamo nelle canzoni più pop di Anja Plaschg (Soap and Skin), Chelsea Wolfe, Jenny Hval, Angel Olsen. D’altra parte su queste pagine a proposito del suo Fast Food (2015) scrivevamo “una Patti Smith che flirta con la musica dark di stampo 4AD”. Ci sono quindi le due anime della Shah in Kitchen Sink, ben distinte come a voler testimoniare l’equilibrio ancora non raggiunto, la dicotomia non solo musicale ma anche socio-politica (il tema delle liriche è quello della condizione femminile attuale), che parte forse da un conflitto familiare mai elaborato tra un diritto femminile tra i più avanzati (quello norvegese) ed uno tra i più limitati (quello pakistano), agli occhi di una donna nata e cresciuta in Inghilterra. Musicalmente la Shah si conferma come una delle migliori cantautrici pop-rock dell’ultima generazione, con la sua voce baritonale dal vibrato classico e gli arrangiamenti moderni ma figli della new wave ’80 e dell’indie-rock ’90, e ben lontani dal mainstream dozzinale.

Voto Microby: 7.6    

Preferite: Ladies for Babies (Goats For Love), Trad, Buckfast


domenica 30 agosto 2020

Recensione CHRIS WENNER - New Born Man (2020)

CHRIS WENNER - New Born Man (2020)


Non sono riuscito a sapere molto di questo artista, segnalatomi dal blogger Fabius. Dopo una vasta esperienza di cantante e chitarrista di supporto e la recente lunga collaborazione con i Venice (gruppo californiano di blues-folk-rock), il 64enne cantautore tedesco debutta (!) con questo squisito lavoro, ricco di atmosfere vintage West Coast e di riferimenti acustici Claptoniani. Un disco davvero divertente e rilassante, con un folk-rock di grande classe, che ricorda il lavoro di Jim Croce, James Taylor, Jackson Browne e Paul Simon. Uno degli album più inattesi ed appaganti del 2020.

Da ascoltare: Sunchild, Sometimes, Losing Hold. Voto: 1/2




giovedì 27 agosto 2020

MARGO PRICE

MARGO PRICE (2020) That’s How Rumors Get Started

Stellina predestinata della country music di stampo nashvilliano (città nella quale è operativa la cantautrice originaria dell’Illinois), Margo Rae Price giunge al terzo album consapevole di poter conquistare non solo le country charts. Con fior di musicisti di estrazione pop-rock a disposizione (Matt Sweeney alle chitarre, Pino Palladino al basso, James Gadson alla batteria e l’asso Benmont Tench al piano) e la produzione di Sturgill Simpson (nella sua band in gioventù) la Price riesce ad esprimere con grande classe le proprie attitudini musicali, che abbracciano il pop (non una novità nel sound nashvilliano attuale), il soul/gospel (la nostra si è formata il canto in chiesa) e perfino l’adult oriented rock. La voce è stata paragonata a quella di Loretta Lynn, e più modernamente la si può immaginare come una via di mezzo tra Cyndi Lauper e Stevie Nicks. Ma i paralleli con quest’ultima non finiscono qui, dal momento che tutto l’album respira i profumi dei Fleetwood Mac di Rumors (un riferimento anche nel titolo…) e della Nicks di Belladonna (con perfino le copertine dei due album molto simili…). Se le influenze dichiarate dalla Price si fermano a Bobbie Gentry, Emmylou Harris, Bonnie Raitt e Dolly Parton, l’evoluzione in soli tre lavori è stata consistente verso un pop di impronta californiana classica dei ’70, con arrangiamenti brillanti e chiare contaminazioni country, soul e AOR. Cocktail solitamente poco gradito a chi non ama la musica senza una nota fuori posto e con arrangiamenti levigati al punto da sembrare patinati (mi metto tra questi ascoltatori). Ma indubbiamente, per chi ama il genere, un piccolo gioiellino.
Voto Microby: 7.7
Preferite: That’s How Rumors Get Started, Hey Child, I’d Die For You

venerdì 21 agosto 2020

Recensione: SONDRE LERCHE - Patience (2020)

SONDRE LERCHE - Patience (2020)

Cantautore norvegese di pop raffinato, leggero ma decisamente fresco ed ispirato, non è mai stato in grado di emergere a grandi livelli. Anche in questo suo nono album l’impressione è sempre la stessa: quella di un artista decisamente geniale, in grado di arrangiare melodie sofisticate ed accattivanti, ma che non riesce ad avere la fortuna che meriterebbe  (egli stesso nel mezzo del disco mette un monologo in cui riporta le interazioni con i fans: uno gli dice "I can't believe no one knows who you are”). Ad ogni modo il suo indie-pop lievemente barocco ha un’impronta anni’80 con rimandi a Prefab Sprout, Steely Dan, Elton John di quegli anni o, più modernamente, a Destroyer, Magnetic Fields e Dirty Projectors, arricchito da divagazioni armoniche verso la Bossa Nova e il R&B. Un artista in progressivo crescendo. Da ascoltare: Why Did I Write the Book of Love, Why Would I Let You Go, You Are Not Who I Thought I Was. 

Voto:


mercoledì 19 agosto 2020

PRETENDERS

PRETENDERS (2020) Hate For Sale


(The) Pretenders (l’articolo è presente o meno a seconda degli album) hanno un posto di rilievo nella storia della musica rock non solo per i primi tre album-capolavoro pubblicati fra il 1980 ed il 1984, ma soprattutto perché, come The Clash su una sponda parallela, sono stati tra i protagonisti della transizione (anche divulgativo-commerciale) dal punk al rock degli ’80. Non solo: sono da considerare tra i progenitori dell’indie-rock, sia nella loro sapiente capacità di frullare l’urgenza punk dei ‘70 con la spontaneità di garage-pop e rock’n’roll dei ’60 e la rivisitazione new wave degli ‘80 di reggae, soul e college-rock, sia nella vocalità potente ed insieme slacker della frontwoman Chrissie Hynde, sia nella tecnica chitarristica effettata e dai ritmi sincopati del fu James Honeyman-Scott, caposcuola di almeno una generazione di chitarristi elettrici. La band anglo-statunitense (formatasi a Londra nel 1978 intorno alla cantante-chitarrista Chrissie Hynde, trasferitasi all’età di 22 anni da Akron, Ohio) non è mai stata ferma e con alterni risultati qualitativi ha partorito nel nuovo millennio quattro lavori di buon livello (certamente migliori rispetto a quelli dal 1985 al 2000). A partire da quest’ultimo che, tanto per essere chiari, è solo un gradino inferiore alla tripletta esplosiva iniziale. Con la carismatica leader, ora 68enne ma ancora di impatto sia vocalmente che fisicamente (ai tempi era stata la donna di Ray Davies e Jim Kerr), dei membri fondatori è rimasto solo il batterista Martin Chambers (il bassista Pete Farndon ed il chitarrista James Honeyman-Scott morirono per overdose rispettivamente nel 1982 e 1983). L’attuale chitarrista James Walbourne, con la band dal 2008, è il valore aggiunto sia in fase di scrittura (è co-autore con la Hynde di tutti i brani) che nella realizzazione del suono, con la sua tecnica versatile sia alla ritmica che alla solista che ben si sposa con il rock eclettico distintivo della band. La produzione di Stephen Street (già al lavoro con The Smiths, Blur, The Cranberries) esalta gli ingredienti tipici dei Pretenders classici: il rock’n’roll, il garage sound, il reggae, le ballads, l’alternative rock. Il tutto legato da un’innata sensibilità pop che ti imprime le canzoni al primo ascolto, e ad un’anima punk dal cuore melodico che partorisce brani brevi, immediati, d’impatto. D’altra parte la title track, incipit del disco, è un dichiarato omaggio al gruppo punk più ammirato dalla Hynde: “Tutti noi amiamo il punk ed Hate for Sale è il nostro tributo alla band che io considero la più musicale del genere, The Damned”.
Voto Microby: 7.9
Preferite: Maybe Love Is In NYC, Lightning Man, The Buzz

mercoledì 29 luglio 2020

HAMILTON LEITHAUSER


HAMILTON LEITHAUSER (2020) The Loves of Your Life




Il timbro vocale acuto di Hamilton Leithauser, a metà strada tra quello limpido di Sting e quello nevrotico di David Byrne, ha sempre contraddistinto The Walkmen, la band di cui è frontman (tuttora: nonostante sia discograficamente fermo dal 2012, il combo newyorkese non si è mai ufficialmente sciolto), col suo indie-rock pianistico che aveva ingentilito le radici garage e post-punk dei membri del gruppo. Durante questo iato di otto anni il cantante e chitarrista ha collaborato con membri di Vampire Weekend, Shins, Dirty Projectors e Fleet Foxes (per questi ultimi è stato anche open act in un tour mondiale; il sottoscritto lo ammirò a Ferrara nel 2017), e pubblicato tre validi album in cui progressivamente le influenze del neo-folk colto e letterario alla Fleet Foxes/Mumford & Sons hanno preso il sopravvento. Il risultato è che ora il nostro conserva l’urgenza punk cantautoriale di Frank Turner o Sam Fender al servizio di un suono acustico ma pieno, ricco di plettri, tasti e cori come da lezione-Foxes, con un approccio insieme melodico e vibrante , per raccontare storie di amori diurni e notturni della Big apple. Per chi non lo conoscesse, The Loves of Your Life rappresenta un ottimo biglietto da visita.
Voto Microby: 7.8
Preferite: Isabella, Here They Come, Cross Sound Ferry

martedì 14 luglio 2020

OTHER LIVES


OTHER LIVES (2020) For Their Love

Sembra ieri che Tamer Animals, capolavoro di dark-pop orchestrale del 2011, colpiva dritto al cuore critica e pubblico garantendo agli Other Lives lo status di next big thing. Il quintetto dell’Oklahoma (ma dall’architettura musicale di impronta albionica) non commetteva lo sbaglio di bruciare le tappe ma incorreva nell’errore opposto, pubblicando un solo album nel 2015, Rituals, che tradiva le aspettative generali con un’evoluzione nel pop elettronico cerebrale di marca Radiohead/Alt J, ma senza altrettanto talento. Con i ritmi del mercato odierno il rischio di cadere nel dimenticatoio era dietro l’angolo. Invece la band da sempre guidata dal cantante e compositore Jesse Tabish risponde ora con un ritorno alle atmosfere del disco che li aveva segnalati, senza altrettanta genialità ma con ottima ispirazione, linee melodiche affascinanti, spleen decadente e realizzazione da primi della classe del chamber-pop romantico. Un impianto acustico da musica classica da camera (plettri, tasti, archi e una misurata sezione ritmica) utilizzato come un quintetto pop che riprende le visioni di Moody Blues e Procol Harum per collegarle a San Fermin, Woodkid, Agnes Obel o gli ultimi The National. Bel disco, con la speranza che dia al gruppo più sicurezza nei propri mezzi e non licenzi solo un lavoro per lustro, come fatto finora.
Voto Microby: 8    
Preferite: Cops, Lost Day, Sound of Violence

mercoledì 1 luglio 2020

NEIL YOUNG


NEIL YOUNG (2020) Homegrown

Lenire il dolore di una separazione attraverso l'opera d'arte, musicale o letteraria o figurativa che sia, è talmente comune che la maggior parte degli artisti ne ha una nel proprio carniere, e così molti musicisti hanno un break-up album nella propria discografia. La storia personale di Neil Young è talmente jellata che si potrebbe permettere una collana di dischi di elaborazione del dolore: già affetto personalmente da postumi (modesti) di poliomielite, da diabete mellito insulino-dipendente, un aneurisma cerebrale ed epilessia, ha avuto la sfortuna di avere da due donne diverse due figli con paralisi cerebrale infantile ed una figlia con epilessia, e nel contesto di soffrire la scomparsa per droga di due cari amici di vecchia data e di trovarsi a chiudere la relazione con l'attrice Carrie Snodgress, evento che costituì il primum movens della scrittura di Homegrown. Siamo nel 1974, all'apice del successo artistico e commerciale del canadese, anche grazie alla sofferenza che trapela dai suoi dischi e che riesce a comunicare come sentimento universale. Il pellegrinaggio a Lourdes non si addice ad un'ateo convinto, ecco perciò che l'elaborazione del lutto passa attraverso quella che sarà ricordata come la trilogia del dolore: Time Fades Away (1973), On The Beach (1974) e Tonight's The Night (1975), gli ultimi due capolavori assoluti, da sempre considerati tra i dischi più plumbei e disperati del decennio. Ma tra il giugno 1974 ed il gennaio 1975 Young scrisse ed incise anche l'attuale Homegrown, mai pubblicato finora. E' Neil Young stesso ad ammettere ora che, avendo già composto e realizzato Homegrown e Tonight's The Night, ritenne il primo pudicamente troppo intimo e privato per essere mercificato, e che lo scarto qualitativo a favore del secondo fosse talmente evidente da riporre nel cassetto il primo. Forse anche su suggerimento del bassista Rick Danko, che come altri di The Band (il chitarrista Robbie Robertson ed il batterista Levon Helm in primis) collaborava attivamente col canadese su quel progetto. Ben 45 anni dopo sfila l'album dal cassetto e lo pubblica: un brano è già noto perchè inserito nell'antologia Decade (1977) (Love Is A Rose), altri sono conosciuti in versione diversa perchè pubblicati in dischi successivi, ed ora proposti in quella originale (Star of Bethlehem, Homegrown, Little Wing, White Line) e sette sono del tutto inediti (tra questi, per essere chiari, nessun brano-killer). Molte canzoni danno l'impressione di non essere rifinite, limate, ripensate, come fossero delle outtakes piuttosto che il corpo di un album fatto e finito. O più probabilmente esprimono lo stato d'animo del loner canadese al momento: vulnerabile, incerto, conflittuale, tormentato. La sorpresa più importante è che l'atmosfera generale del lavoro non è lugubre come quella dei capitoli della trilogia, anzi spesso al di là dei testi non si ha musicalmente l'impressione di un uomo ripiegato su sè stesso, ma di uno che cerca il calore di una condivisione con gli amici, attraverso momenti di pacificata accettazione del destino, altri di pacato disincanto, altri di candida leggerezza, altri ancora di rabbia controllata in blues elettrici. Probabilmente la spontaneità che ci aspetteremmo da una jam tra amici in una cantina, tipo The Basement Tapes dylanbandiani. Forse da qui anche l'impressione di un "buona la prima" che rende immediata la fruizione del lavoro, ma anche quella di scarsa omogeneità globale, tra ballate acustiche alla Harvest e rasoiate elettriche alla Crazy Horse (nel 1975 il nostro avrebbe pubblicato Zuma); oltre ad un brano parlato totalmente inutile (Florida) e ad un paio di canzoni quantomeno pleonastiche (Kansas e We Don't Smoke It). Giusto quindi considerare Homegrown un album diverso dai precedenti, e piuttosto, per esplicita ammissione di Young, "il ponte inascoltato tra Harvest e Comes A Time". Al netto di tutte le precedenti considerazioni, resta un disco che non sarebbe stato un capolavoro nel 1975 e quindi meno che meno nel 2020, ma che è invecchiato bene e si ascolta con molto piacere (giudizio che vale per gli appassionati dei suoni westcoastiani dei seventies, non certo per i millennials). Diavolo d'un canadese, col suo dolore ci ha distribuito piacere come la lingua che batte dove il dente duole.
Voto Microby: 7.5    
Preferite: Vacancy, Love Is A Rose, Separate Ways

lunedì 29 giugno 2020

Recensione: The 1975 - Notes on a Conditional Form (2020)

Per essere un quartetto di trentenni ricordano al contrario una band di altri tempi, dedita al recupero ed alla citazione degli anni ’70 e ’80. Il tutto in maniera verbosa ed incasinata (mettere 22 brani in un disco mi pare un pò esagerato) ma onesta ed ironica. Il gruppo ha avuto un grande successo in Inghilterra ed in Australia (tradizionalmente satellite di quella britannica) mentre in Italia è passato sotto completo silenzio, a parte molti dei followers di questo blog che me l’avevano a loro volta raccomandato. Mah, sarà il virus. 
I 1975 vengono da Manchester: il loro leader, Matty Healy (tra l’altro compagno di FKA Twigs) è una specie di vulcano di idee ed energia ed è cresciuto assorbendo qualsiasi sonorità, compreso l’elettro-pop più contemporaneo con i suoi intarsi dubstep, il pop-jazz, l’indie americano, il brit pop ed il dance-punk.  Insomma una specie di macedonia contemporanea, espressione della bulimia artistica del suo leader. In questo loro quarto lavoro, a due anni dal precedente, più orientato verso il brit pop, si sentono i Joy Division, i Buzzcocks, i Blue Nile, ma anche i Nine Inch Nails, Sonic Youth , Pixies e Brian Eno. 

Il loro chiaro obiettivo è quello di “domiciliarsi nel cuore di chi li ascolta” (cit. Rossano Lo Mele, Sole 24 ore), proprio come hanno fatto gli Smiths, guarda caso anche loro di Manchester. Qualcosa vorrà dire. 
Da ascoltare: The Birthday Party, Nothing Revealed / Everything Denied, Me & You Together Song. Voto: 1/2


giovedì 25 giugno 2020

BOB DYLAN


BOB DYLAN (2020) Rough And Rowdy Ways

Se si eccettua la rivisitazione del Great American Songbook con tre trascurabili uscite da crooner sinatriano , erano otto anni che Mr. Zimmerman non licenziava un album in studio. Che è comunque il primo di brani autografi dal 2012. Non si è mai obiettivi nel recensire la gigantesca icona, americana ma universale, e migliaia di opinioni rispetto al suo ultimo lavoro sono già disponibili in rete, molte delle quali a mio parere lo sovra- o sottostimano. Il mio personale giudizio sta salomonicamente nel mezzo. Mi spiego. Dylan è stato un rivoluzionario sia nelle liriche (il premio Nobel per la letteratura a mio avviso non è stata una forzatura) che nella musica, per la quale ha trasformato la figura dello storyteller folk in un artista pop-olare, plasmandola fino a farne una rockstar da stadio. Immutato il talento lirico, capace di tradurre in poesia una lettura puntuale, intelligente ed icastica della realtà personale, sociale, politica dell'umanità intera (può permetterselo), ascoltando questa sua ultima fatica sembra invece che la sua forza melodica si sia affievolita nel tempo. Così il riproporre musica tradizionale, con l'alternarsi di brani di impronta bianca come il folk delle origini e di blues canonici di marca nera Delta/Chicago, in entrambi i casi senza partiture musicali d'eccellenza, con canzoni oltremodo lunghe (6-7-9-17 minuti!) che si concludono esattamente come sono iniziate, senza sussulti nè di scrittura nè di esecuzione strumentale, francamente (mi) annoia. Sarebbe più appropriato gioire della "lettura" dell'ultimo album di Dylan. Testi da 10 e partitura da 6 e mezzo. Che però non fanno media, perchè non stiamo recensendo un romanzo, ma un disco. Che oltre alle liriche riesce tuttavia ad emozionare anche con la voce del menestrello di Duluth, col tempo migliorata da ipernasale a cavernosa, a tratti evocativa del timbro del primo Tom Waits.
Voto Microby: 7    
Preferite: My Own Version of You, I've Made Up My Mind To Give Myself To You, False Prophet

giovedì 18 giugno 2020

DRIVE-BY TRUCKERS


DRIVE-BY TRUCKERS (2020) The Unraveling

Al solito politico come gli album che l’hanno preceduto in 25 anni di attività, The Unraveling vuole descrivere lo sbando morale in cui sono precipitati gli USA con l’elezione/guida di Donald Trump, dopo che col precedente American Band (2016) il gruppo aveva chiaramente sostenuto l’elezione della democratica Hillary Clinton. Ma il combo di stanza ad Athens, Georgia, non lo fa con il consueto robusto southern rock, ma piuttosto con una rassegnata, a tratti ipnotica ma solida, per certi versi rabbiosa “americana”, come siamo abituati a cogliere nelle corde dei Wilco più elettrici. Non un disco dalla presa immediata, anzi piuttosto monocromatico al primo ascolto, ma che cresce alla distanza certificando che i due membri fondatori della band, Patterson Hood e Mike Cooley, non hanno le polveri bagnate ed hanno inciso un lavoro valido, partorito e realizzato più con la pancia che con la testa.
Voto Microby: 7.6    
Preferite: Babies In Cages, Thoughts And Prayers, Grievance Merchants

martedì 9 giugno 2020

THE OUTLAWS


THE OUTLAWS (2020) Dixie Highway

Nonostante la forte connotazione loco-regionale (gli stati del Sud) ancor prima che nazionale (USA), il southern rock ha sempre goduto di un posto di rilievo internazionale nella considerazione dei sottogeneri della musica rock. Merito innanzitutto di una talentuosa personalità musicale che ha consentito ad alcune southern bands di mandare alla storia alcuni capolavori, ma anche di alcune caratteristiche distintive immediatamente riconoscibili come americane e sudiste: una spiccata matrice (hard) rock sensibilmente contaminata da country, blues, gospel/soul/R’n’B, honky tonk/boogie. Ingredienti utilizzati con posologie differenti ed identificative dai vari gruppi storici: più ad impronta blues (The Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd), country (The Outlaws, Atlanta Rhythm Section, The Marshall Tucker Band, Black Oak Arkansas, Charlie Daniels Band), hard (ZZ Top, Molly Hatchet, 38 Special), gospel (le numerose bands che rivestivano le partiture di southern soul ed armonie vocali gospel anziché country), honky tonk (le meno numerose bands che prediligevano uno schema pianistico anziché chitarristico). Gli Outlaws non farebbero parte di un’ideale antologia del southern rock, non fosse che per un primo album omonimo (era il lontano 1975) di ottima qualità e che immediatamente ne disegnava le caratteristiche peculiari: le eccellenti linee armoniche vocali e i limpidi fraseggi delle chitarre elettriche. Probabilmente queste ultime hanno stimolato nel tempo l’interesse degli ascoltatori hard’n’heavy, chè non si spiegherebbe come l’ultima fatica dei Fuorilegge sia stata recensita (in termini prevalentemente entusiastici) da stampa, fanzines e blog “metal” prima ancora che rock. Sia ben chiaro, di metal in Dixie Highway non c’è veramente nulla, di hard qualcosa, di elettrico quasi tutto. E la presenza di ben quattro chitarristi sugli otto membri della band garantisce non sono un impianto sonoro trascinante, ma anche assoli infuocati, duetti ispirati e fughe/inseguimenti delle soliste di qualità superba (raccomandato l’ascolto in cuffia o a palla in auto). In modo del tutto inatteso gli unici membri fondatori della band (il cantante e chitarrista Henry Paul ed il batterista Monte Yoho) pubblicano con Dixie Highway il loro miglior lavoro di sempre, ed un disco da tramandare fra i più rappresentativi del genere. L’incipit dell’album sembra volerlo ribadire con forza, nel titolo e nella qualità della canzone: Southern Rock Will Never Die. Non lo perda chi ama il rock viscerale dalle sonorità accese ma composte, e meno che meno chi identifica il rock con le chitarre elettriche.
Voto Microby: 8.3    
Preferite: Southern Rock Will Never Die, Dixie Highway, Over Night From Athens

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